Quattro romanzi storici e uno da ombrellone. In gara stasera per un riconoscimento che dovrebbe andare al libro più bello. Ma che si scontra con editori che pensano alle vendite e non alla letteratura. E giurati che, spesso, più che il miglior autore cercano il migliore amico a cui fare un favore

Il suo ultimo romanzo è uno dei migliori racconti della società italiana dei nostri giorni usciti nell’ultimo anno. Ma lui non è tra i finalisti del Premio Strega. E se si presentasse stasera al Ninfeo di Valle Giulia, dove come da tradizione si celebrerà il rito finale del premio letterario più ambito nel nostro paese, la sua presenza sarebbe un pugno in un occhio. Per la sua età scandalosamente bassa, 26 anni – quindici meno del più giovane dei cinque finalisti. Per il look che lo farebbe sembrare un rapper o uno dei bartender che hanno ideato i cocktail “letterari” realizzati per la serata. Ma soprattutto per la sua pelle nera. Perché Antonio Dikele Distefano da Busto Arsizio è di origine angolana. E anche se ha già avuto l’onore di essere citato nel titolo di un tema della maturità, fa parte di quegli autori “italiani di seconda generazione” che i premi letterari continuano a snobbare.

“Non ho mai avuto la mia età” (Mondadori) segue dodici anni di vita del protagonista, un italiano dalla pelle nera che cresce nella periferia di una città del nord, in un paese in cui «i bianchi nei neri ci vedono sempre qualcosa di cattivo», dove per un ragazzino emarginato e frustrato brutti incontri e tentazioni sbagliate sono sempre dietro l’angolo. È un buon romanzo, che mostra una grande crescita rispetto ai tre precedenti (da “Fuori piove dentro pure», bestseller per teenager nato da un blog, a “Chi sta male non lo dice”). Ed è un esempio dei tanti buoni romanzi che allo Strega non ci arrivano: non per niente è uscito, da regolamento, troppo tardi per l’edizione di quest’anno, e strategicamente troppo presto per quella del 2019.

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Si dice sempre che sono i piccoli editori a restare fuori dalla competizione. Ma in realtà sono fuori gioco anche i  romanzi letterari usciti da grandi editori che preferiscono puntare su libri più vendibili. Il risultato è che a guardare il palmarès degli ultimi anni, malgrado i continui cambiamenti apportati dall’organizzazione per migliorare la qualità della selezione, i nomi di scrittori interessanti che mancano saltano all’occhio quasi più di quelli che invece ci sono, e che stonano.

Un esempio? Valeria Parrella. Se la brava scrittrice napoletana non ha ancora vinto non è colpa dello Strega ma della scelta dell’Einaudi, che nel 2014 preferì puntare su Francesco Piccolo invece che su di lei. Dietro le quinte, il motivo era spiegato con chiarezza matematica: lo Strega moltiplica per quattro le vendite del vincitore, un libro della Parrella vende 20mila copie, “Il desiderio di essere come tutti” prima del premio ne aveva già vendute 100mila, quindi meglio puntare su Piccolo e far tesoro delle 400mila copie.

Su questo l'organizzazione può fare poco. Anche per un difetto atavico, che spinge anche giurati insospettabili a cercare non “il miglior romanzo” da votare, ma “il migliore amico” - scrittore, editor, ufficio stampa - a cui fare un favore. Certo le cose sono molto migliorate da quando i nomi dei giurati erano segreti: nascosti al pubblico, con l’alibi di proteggerli dalle pressioni del mondo editoriale, venivano però rivelati proprio a chi pubblicava i titoli in gara, che altrimenti non avrebbe potuto spedire i volumi da leggere. È stato proprio l’Espresso, nel 2009, a pubblicare per primo la lista, che dall’anno seguente diventò pubblica. Da allora ogni anno nel regolamento c’è una novità che cerca di spingere il premio verso l’oggettività e la trasparenza.

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I risultati di questi sforzi si vedono: quest’anno i cinque finalisti sono di tutto rispetto. Marco Balzano, Carlo D’Amicis, Helena Janeczek, Lia Levi, Sandra Petrignani sia per il curriculum, sia per lo stile, sia per il valore dei libri in gara, meriterebbero tutti di vincere. Eppure, tornando al romanzo di Distefano, colpisce che nessuno dei loro libri racconti l’Italia di oggi. Quattro sono romanzi storici (due, anzi, sono biografie, che fino a qualche anno fa non sarebbero state ammesse in gara). Il quinto si limita a raccontare comportamenti di una nicchia: che i tre appassionati di giochi di ruolo erotici di “Il gioco” siano italiani non è particolarmente rilevante.

È proprio questo, con la sua trama piccante, il romanzo più “da ombrellone” dei cinque. E se, come è successo quasi sempre in passato, nella premiazione trasmessa in diretta su Rai3 dovesse prevalere la legge del più forte, il gruppo “Mondazzoli” potrebbe invitare i suoi sostenitori a riunire su D’Amicis i voti in precedenza dispersi sul candidato della Einaudi (Balzano) e della Rizzoli (il bel romanzo di Francesca Melandri, “Sangue giusto”).

Una vittoria potrebbe lanciare "Il gioco" verso un successo alla “Cinquanta sfumature di grigio”. E chi ama la letteratura potrebbe consolarsi ricordando quello che Antonio Sellerio dichiarò riguardo al boom dei libri di E.L. James: «Per fortuna ogni tanto un libro commerciale come questo ha un successo simile, così le librerie non falliscono e possono continuare a vendere libri di qualità come quelli che pubblichiamo noi». Se andrà così speriamo che almeno i librai, per una forma di resistenza di categoria, propongano a chi compra un D’Amicis di provare anche uno degli altri quattro finalisti. O addirittura il Dikele Distefano.

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