
«Il mercato sembra come una persona che ha avuto un infarto: è in coma», dice Iman Rahmati, 31 anni, che vende prodotti Apple. «Puoi restare al negozio per un giorno intero, nessun cliente apparirà. Di tanto in tanto qualcuno potrebbe chiedere degli accessori, ma nessuno compra uno smartphone o un laptop».
Incertezza: quest’unica parola esprime l’atmosfera dominante nel mondo economico iraniano.
Tutti sono preoccupati per il tasso di cambio e il ritorno delle sanzioni statunitensi. Lo scenario è diffuso, con delle eccezioni che però non promettono bene. «Visto l’aumento dei prezzi negli ultimi mesi, pensavamo di perdere tutti i nostri clienti», racconta Alireza Safari, 33 anni, insegnante di inglese presso il Safir Language Colleague a Teheran, «invece, a sorpresa, il numero dei nostri studenti si è quasi triplicato nel giro di poche settimane. Sembra che tutti vogliano imparare l’inglese come primo passo per lasciare il Paese».
La valuta iraniana ha perso più della metà del suo valore negli ultimi otto mesi. Il promettente accordo nucleare è semi-rotto e la confusione tra i consumatori e gli uomini dìimpresa è al suo massimo.
Dall’aprile scorso, per fermare la svalutazione, il governo ha fissato il tasso di cambio a 42 mila Rial per un dollaro. Sebbene ufficialmente il tasso di cambio rimanga fisso, al mercato nero la svalutazione continua. Quest’estate un dollaro viene scambiato con 80 mila Rial. «Nel 1979, poco prima della rivoluzione islamica, un dollaro valeva 70 Rial», ricordano gli anziani iraniani.
La svalutazione del Rial a un millesimo avviene dopo i rivolgimenti estremi degli ultimi quattro decenni. Otto anni di guerra tra l’Iran e l’Iraq hanno causato un danno di quasi 1.2 trilioni di dollari per l’Iran, lasciando 700 mila morti e feriti. Durante il periodo di guerra le entrate sono diminuite di 627 miliardi di dollari, perché non si poteva vendere abbastanza petrolio e anche le attività in altri settori si interruppero.
Dopo la guerra, l’Iran ha recuperato piuttosto rapidamente, fino a quando Mahmoud Ahmadinejad è salito al potere. Le sanzioni statunitensi sono state inasprite e anche l’Ue ha iniziato a sanzionare l’industria petrolifera iraniana e il sistema bancario.
«Gli ultimi otto anni sono stati più dannosi per il paese rispetto agli otto anni di guerra con l’Iraq», ha detto l’ex presidente Ayatollah Hashemi Rafsanjani nel 2013, sottolineando la disastrosa leadership di Ahmadinejad.
Il suo successore Hassan Rouhani ha ereditato un paese le cui vendite di petrolio erano crollate del 75 per cento, il tasso d’inflazione era del 40 per cento e la valuta aveva già perso due terzi del suo valore. Rouhani ha considerato prioritario il controllo dell’inflazione e la negoziazione con i poteri globali per revocare le sanzioni.
Dopo un paio d’anni è riuscito a spingere il tasso d’inflazione al di sotto del 10 per cento e ha raggiunto un accordo storico con i cinque rappresentanti permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e della Germania.
Ovviamente, il piano di Rouhani per risolvere gli altri problemi economici del paese era di aprire le porte dell’Iran al mercato internazionale. Tuttavia ha sovrastimato l’affluenza degli investimenti stranieri dopo la revoca delle sanzioni. I suoi calcoli, secondo i quali sarebbero giunti 50 miliardi di dollari all’anno d’investimenti esteri, sembrarono fin da subito troppo ambiziosi.
Dal momento che gli Stati Uniti non hanno mai revocato le sanzioni finanziarie, tante banche internazionale sono restate riluttanti a riprendere i loro affari con l’Iran.
Ma questa è solo una parte del problema. Poiché l’Iran è stato isolato per diversi decenni, il sistema bancario iraniano non è stato in grado di svilupparsi secondo gli standard internazionali. Perciò nemmeno le banche che avrebbero voluto lavorare in Iran potevano servire adeguatamente i loro clienti.
L’aggiornamento delle istruzioni finanziarie ha richiesto alcuni anni dal primo turno della presidenza di Rouhani, ma alla fine ha funzionato e portato degli accordi di finanziamento di 32 miliardi di dollari da parte delle principali banche asiatiche e di due istituti europei.
Una volta che il sistema bancario iraniano è stato aggiornato, ha rivelato l’esistenza di diverse banche non efficienti e istituzioni finanziarie illegali. Queste banche inefficienti sono diventate il principale fardello per l’economia iraniana. Aggiustare il sistema bancario richiede almeno 200 miliardi di dollari, quasi la metà del Pil, secondo Parviz Aghili, l’amministratore delegato di Middle East Bank, una banca privata in Iran.
Subito dopo la seconda vittoria alle elezioni di maggio 2017, il presidente Rouhani ha puntato a riformare il sistema bancario. Diverse istituzioni finanziarie illegali che offrivano tassi di interesse lucrativi al 25 per cento, mentre il tasso d’inflazione era inferiore al 10 per cento, furono chiuse o fuse con altre banche. Circa 25 miliardi di dollari di sofferenze sono stati accumulati nel sistema bancario.
La chiusura di una banca era un fenomeno completamente nuovo per gli iraniani, che non avevano mai sperimentato una crisi finanziaria e quindi non sapevano per quanto tempo avrebbero dovuto subirne le conseguenze.
Sebbene i correntisti siano stati rimborsati dalla Banca centrale, hanno comunque rivendicato i loro “interessi promessi”, e questa protesta è stata la causa scatenante delle dimostrazioni di gennaio 2018.
La gente ha perso fiducia nelle banche e si è affrettata a convertire i risparmi in valuta estera: si tratta di un metodo d’investimento utile a mantenere il valore dei propri beni. Si stima che una somma di 20 miliardi di dollari in contanti sia conservata oggi nelle case in Iran.
«Nel 2011 e nel 2012 circa 100 miliardi di dollari hanno lasciato il paese», afferma Hossein Abdoh Tabrizi, ex governatore della Securities and Exchange Organization of Iran. «Per fermare questa tendenza, il sistema bancario deve essere ristrutturato e non c’è altra soluzione».
Mentre il governo sta cercando di attirare investimenti stranieri, altri 40 miliardi di dollari sono usciti dal paese nel 2017. A questo punto, il governo ha introdotto nuove politiche sulla valuta estera e imposto dei limiti per controllare il contrabbando di merci e valuta. In assenza degli uffici di cambio, le persone si sono mosse verso il mercato dell’oro. Secondo la Banca centrale dell’Iran, nei primi sei mesi del 2018, gli iraniani hanno acquistato 60 tonnellate di oro sotto forma di monete, cioè 7.5 milioni di pezzi. Tale domanda ha spinto il prezzo per una moneta d’oro fino ai 30 milioni di Irr luglio, dai 16 milioni di Irr in aprile 2018. Secondo l’Associazione dei venditori di accessori d’oro, nelle famiglie iraniane sono immagazzinate da 300 a 400 tonnellate d’oro.
Mai i guai non vengono mai da soli: mentre l’Iran era alle prese con questi problemi interni, la decisione degli Stati Uniti di abbandonare l’accordo sul nucleare ha sicuramente peggiorato la situazione. L’incertezza sul futuro dell’economia è al suo massimo. Alla fine di giugno, il Gran Bazar di Teheran, il cuore economico dell’Iran, ha chiuso per tre giorni in segno di protesta. L’ultima volta che il Gran Bazar fu chiuso risale a 55 anni fa, ovvero al 1963, quando lo Scià arrestò l’ayatollah Khomeini.
«Non abbiamo nessuna prospettiva per il futuro. Per quanto tempo continuerà la svalutazione? E cosa accadrà se le sanzioni torneranno?», dice un venditore al bazar che ha paura di non essere in grado di rifornirsi dei beni che vende.
Ciò di cui Rouhani e la sua squadra erano molto orgogliosi, l’accordo nucleare, è ora in serio pericolo. Il governo si sta già preparando per il ritorno delle sanzioni statunitensi. La speranza è di mantenere le vendite di petrolio più alte possibili. Dopo vent’anni dalla creazione della Borsa dell’energia, il governo ha ora concesso il permesso al settore privato di acquistare petrolio sul mercato. Una buona idea che arriva tardi. Intanto Rouhani a inizio luglio è andato in Svizzera e in Austria a chiedere aiuto per non naufragare del tutto l’intesa sul nucleare, con tutte le sue conseguenze economiche. Per il presidente in carica, adesso, la sfida è salvare il Paese.