Ormai sono in una spirale: più la realtà li ignora, più loro la detestano. Un fallimento politico macroscopico
La frattura fra il ceto intellettuale e il comune sentire del paese non è mai stata così larga e profonda come in questo 2018. Figlio di un risultato elettorale molto netto, il governo gialloverde continua a godere di ottimi sondaggi. La politica migratoria del ministro Salvini, in particolare, incontra il consenso di un’ampia maggioranza degli italiani. Ma i quotidiani principali, le università, i luoghi della cultura sono pressoché unanimi nell’opporsi duramente al gabinetto Conte, al Movimento 5 stelle, e ancor di più alla Lega. E se da quelle parti c’è qualcuno di diverso avviso - e ci sarà pure - si guarda bene dal manifestarsi apertamente.
Che la frattura fra intellighenzia e paese non soltanto ci sia, ma stia crescendo velocemente, è una pessima notizia. Privato di un qualsivoglia indirizzo culturale, il comune sentire degli italiani non può certo migliorare. Anzi: si va facendo sempre più semplicistico, rozzo, viscerale. Ma per il mondo intellettuale la situazione è più catastrofica ancora - se possibile - perché quel mondo non soltanto dimostra di non essere riuscito a farsi seguire dall’Italia, ma sembra avere ormai perduto qualsiasi speranza di riagganciarla. E, forte dalla convinzione fermissima di essere comunque nel giusto, finisce per chiudersi sempre di più in se stesso e per darsi all’attività nobile magari - ma quanto sterile e patetica! - del lancio quotidiano di petizioni di principio imbottigliate dalla candida isola della moralità nelle acque torbide e inospitali che la lambiscono.
Ma come siamo potuti arrivare a questo punto?
Poiché l’Italia unita è afflitta fin da prima della sua nascita da un tasso non occidentale di arretratezza morale e materiale, ed è divorata al contempo da una fame insaziabile di modernità occidentale, la storia potrebbe partire da lontano. Per lo meno dal 1801, anno di pubblicazione del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli nel quale Vincenzo Cuoco notava che la «nazione napolitana» era «come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima», così che «la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva».
Se vogliamo farla meno lunga, però, possiamo concentrarci su una questione più circoscritta, quella che la scena di “Caro Diario “ambientata ad Alicudi evidenzia: il processo involutivo che ha subito negli ultimi decenni l’intellighenzia progressista.
Uscito nel 1993, il film di Nanni Moretti aveva ormai dietro alle spalle la gran parte di quel processo, che per l’essenziale s’è venuto svolgendo fra il 1968 e il 1989. In quel ventennio si è consumata la crisi internazionale della sinistra marxista, nelle sue versioni tanto rivoluzionaria quanto riformistica. In Italia il Partito comunista non soltanto s’è trovato drammaticamente a corto di opzioni politiche già a partire dalla fine degli anni Settanta, col fallimento della solidarietà nazionale e la recrudescenza della Guerra Fredda. Ma ha dovuto pure constatare come il modello d’integrazione fra cultura alta e cultura bassa, fra intellettuali e comune sentire, fra tradizione nazionale e aspirazioni palingenetiche che aveva utilizzato nei primi decenni del dopoguerra - il modello immaginato da Togliatti, terribilmente ambiguo ma tutt’altro che inefficace - fosse stato ormai travolto dai processi di modernizzazione della Penisola.
Rimasta orfana del proletariato, dell’utopia comunista, del keynesismo, e in buona misura pure del welfare state, la sinistra occidentale – sia pure seguendo un percorso tutt’altro che lineare e pacifico – ha trovato due nuove bandiere nell’estensione dei diritti individuali da un lato, e nell’accelerazione dei processi d’integrazione sovranazionale dall’altro. Non potendo più contrapporre all’identità nazionale e alle sue tradizioni l’identità di classe, insomma, s’è dedicata alla decostruzione di ogni identità. Da queste due bandiere la sinistra occidentale ha tratto per almeno un paio di decenni una ragion d’essere e dei consistenti benefici politici. Ma non s’è accorta, o voluta accorgere, delle loro conseguenze negative. Almeno fino a quando quelle conseguenze non sono esplose, in quest’ultima decade, spingendola in una crisi gravissima, e forse irreversibile.
Chi agita quelle due bandiere, innanzitutto, sarà strutturalmente incapace di rispondere alla domanda d’identità che continua a salire dalle comunità politiche, e che si va anzi facendo tanto più forte quanto più quelle s’indeboliscono. Troverà poi sempre più difficile rivolgersi agli strati della popolazione che, per carenza di risorse sia cognitive sia materiali, faticano ad avvantaggiarsi dell’estensione dei diritti individuali e della crescente integrazione sovranazionale. E sono gli strati sociali più deboli – e sono maggioritari. Chi agita la bandiera dei diritti individuali, infine – tanto più se con l’altra mano sventola nel frattempo quella dell’internazionalismo, e concepisce quindi i diritti come la prerogativa globalmente protetta di ogni essere umano sul pianeta Terra, e non dei cittadini d’uno specifico Stato nazionale –, tenderà a restare prigioniero della logica assolutistica che le è propria: una volta riconosciuti e dichiarati, i diritti vanno difesi tutti, integralmente, subito, senza indugi né compromessi. Ma le logiche assolutistiche mal si conciliano coi limiti del mondo reale, e tanto meno con la prudenza e concretezza indispensabili a un’autentica attività riformistica.
A questo meccanismo, che ha riguardato tutta la sinistra occidentale, quella italiana ha aggiunto la questione morale. Nei decenni immediatamente successivi al 1945 la tesi secondo cui la fragilità politica della Penisola dipenderebbe dalla sua debolezza etica è stata diffusa e sviluppata soprattutto dalle testate giornalistiche legate agli ambienti della sinistra laica, tanto ricchi di cultura quanto poveri di voti. Nei primissimi anni Ottanta, nel tentativo di uscire dall’impasse strategica nella quale s’era cacciato il suo partito, Enrico Berlinguer ha cominciato a utilizzare la questione morale sul versante comunista, brandendola come un’arma politica contro i partiti di governo. E l’arma s’è rivelata indiscutibilmente efficace.
Anche in questo caso, però, nel medio e lungo periodo se ne sono manifestati i numerosi e perniciosi effetti collaterali. Se la cifra di fondo della vita pubblica da politica si fa etica, l’intero sistema si irrigidisce e - ancora una volta - si assolutizza. La mediazione, il compromesso, la comprensione e la gestione della realtà in tutte le sue complessità e sfumature si faranno sempre più difficili. Lo stigma d’immoralità gettato sugli oppositori politici, poi, si trasferirà rapidamente ai loro elettori: come non pensare che chi vota per un partito immorale sia immorale a sua volta? E se quei partiti continuano insistentemente a raccogliere milioni di voti e a vincere le elezioni, toccherà riconoscere, alla fine, che a essere irrimediabilmente corrotto è l’intero paese.
Col passare degli anni, in conclusione, tanto il discorso dei diritti individuali, nella versione “globalista” che ha cominciato ad affermarsi negli anni Settanta, quanto la questione morale hanno contribuito a depoliticizzare la sinistra italiana, aprendo al suo interno un fossato crescente fra i valori e la realtà. Un processo che ovviamente ha riguardato a maggior ragione l’intellighenzia, per sua natura propensa a guardare innanzitutto ai principi, e non obbligata da responsabilità amministrative a confrontarsi con la concretezza del quotidiano.
Basta guardare agli ultimi venticinque anni di storia politica italiana, del resto. Lo schieramento progressista, politico e culturale, ha utilizzato in abbondanza il linguaggio della legalità e della moralità contro Berlusconi. Poiché la sinistra è stata lungamente al potere, però, col tempo i suoi comportamenti reali sono inevitabilmente venuti divergendo sempre di più dai suoi stessi modelli astratti di moralità e legalità. S’è aperto così uno spazio nel quale s’è infilato e ha prosperato il Movimento 5 stelle. La destra berlusconiana, nel frattempo, non soltanto non è stata arginata più di tanto - anzi, ha vinto tre elezioni. Ma, se alla fine è stata sconfitta, non lo è stata dalla sinistra, ma da una destra ben più dura e politicamente scorretta. La sinistra è stata così stritolata dal di dentro e dal di fuori: da dentro nel nome della questione morale che essa stessa ha assolutizzato, ma alle cui pretese s’è rivelata impari; da fuori nel nome della reazione all’assolutizzazione del discorso dei diritti e delle loro garanzie sovranazionali.
E oggi che siamo arrivati all’ultima fase di questo processo, come si comporta l’intellighenzia progressista? Ripercorre passo dopo passo, soltanto con toni ancora più striduli e sovreccitati, lo stesso identico cammino che l’ha portata fino a qui. Reinterpreta o nega la realtà a proprio vantaggio; oppure la condanna, lasciandosi magari andare a invettive anti-italiane, per rifugiarsi sulla candida e minoritaria isola della moralità. Ma le bianche scogliere di quell’isola non riescono a nascondere - al contrario, enfatizzano - il suo macroscopico fallimento politico.