Dati alla mano il rapporto reddito/retta dell'asilo è a dir poco sconfortante. Considerando che a parità di mansioni guadagnano il 12 per cento in meno rispetto ai colleghi maschi. Ma soluzione non è il full time perché in molte aree d’Italia, specie al sud, i posti sono insufficienti per coprire il fabbisogno

Secondo quanto era emerso da un rapporto dell'Ispettorato nazionale del lavoro del 2017, delle 30 mila donne che si sono licenziate nel 2016 il 5 per cento (1500 donne) l’aveva fatto per i costi troppo elevati nella gestione dei figli, a cui si aggiunge un altro 20 per cento (6000 donne) che si è licenziato perché non aveva modo di portare il bambino all’asilo nido per mancanza di posti. Oggi solo il 55 per cento delle madri italiane lavora, il 7 per cento è in cerca di lavoro e mentre il 36 per cento è inattiva. Fra coloro che lavorano, il 40 per cento ha un contratto part-time e per quasi la metà dei casi non si è trattato di una scelta volontaria (Dati Istat)

Nel primo trimestre 2018 (dati Istat ) in Italia lavorano 6 donne su 10 fra i 35 e i 44 anni, ma le differenze geografiche sono fortissime: lavora il 74 per cento delle donne al nord, il 66 per cento nelle regioni del centro e solo il 40 per cento nel meridione. Toccare il tema complesso del lavoro femminile è scoperchiare un vaso di Pandora, ma forse si può cominciare chiedendosi se in Italia oggi a una giovane madre che lavora “nell’esecutivo” convenga davvero lavorare part-time rispetto a non lavorare proprio, quando di mezzo c’è una retta del nido. Anche alla luce del fatto che in media una donna guadagna il 12 per cento in meno di un collega uomo a parità di mansione, e senza dimenticare che quando finisce il nido inizia il salasso dei centri estivi.

Passando al rapporto reddito/retta del nido, secondo una recente rilevazione di Cittadinanza Attiva un nucleo familiare composto da 3 persone con un bambino con meno di 3 anni di età e con un ISEE di 19.900 mila euro (corrispondente in questa ricerca a un reddito lordo annuo pari a 44.200 euro), spende per un nido comunale 301 euro mensili. Al nord le cifre sono molto più alte: in Trentino 472 euro al mese, in Lombardia 379 euro. Le città più care sono Lecco (515 euro mensili in media), Bolzano (506 euro) e Belluno (477 euro), mentre quelle meno care sono Catanzaro (100 euro), Agrigento (100 euro) e Vibo Valentia (129 euro). Un ISEE da 19 mila euro non è certo elevato. Per fare un paragone, si tratta di uno scaglione che dà diritto a una borsa di studio universitaria. Non a caso 44 mila euro lordi per nucleo sono paragonabili, considerate le tredicesime a due stipendi da 1200-1300 euro.
Per una donna che guadagna 1300 euro netti al mese passare a un part time a 20 ore settimanali significa guadagnare 650 euro al mese, e sicuramente uno stipendio di partenza di 1300 euro non è fra i più bassi sul mercato. Per avere un riferimento concreto, il Contratto Collettivo Nazionale dei commessi ordinari fissa uno stipendio che va dai 1000 ai 1200 euro al mese per un full time, ma basta fare un giro sui siti web per notare moltissime offerte di lavoro per meno di 1000 euro al mese. La retribuzione netta di un’impiegata “ordinaria” cioè non con mansioni e senza anzianità come sono spesso le neo mamme, parte da meno di 1300 euro al mese per un tempo pieno, poco di più di quella di un’operaia. Insomma: si tratta di condizioni molto comuni. In ogni caso anche se basso si tratta di uno stipendio che concorre ad alzare l’ISEE familiare, e che obbliga comunque a pagare mezza giornata di asilo nido. O una baby sitter quando l’asilo nido non c’è o i nonni non possono dare una mano.

La soluzione è sempre lavorare full time quindi? No, non per tutte, perché in molte aree d’Italia, specie al sud, di asili nido non ce ne sono e quando ci sono i posti sono insufficienti per coprire il fabbisogno.

Il più recente rapporto di Istat pubblicato a dicembre 2017 mostra che in Calabria frequenta l’asilo nido solo l’1,2 per cento dei bambini con meno di 2 anni, in Campania il 2,6 per cento. In media in Italia ci sono 20 posti per 100 bambini con meno di 2 anni (357.786 posti), il 10 per cento in asili pubblici e un altro 10 per cento in quelli privati, il che significa che c’è posto solo per 1 utente su 5, e al sud 1 su 10.

Nel complesso in Italia nell’anno educativo 2014/15 sono state censite 13.262 unità che offrono servizi socio-educativi per la prima infanzia, il 36 per cento è pubblico e il 64 per cento privato. Ma c’è di più: le cose a quanto pare non sono affatto migliorate negli ultimi 10 anni. È andata infatti crescendo la quota che le famiglie hanno dovuto sborsare per il nido, mentre è diminuita la spesa dei comuni: attualmente le famiglie si sobbarcano il 20 per cento della spesa mensile. Nel frattempo per i servizi socio-educativi rivolti alla prima infanzia i comuni hanno impegnato nel 2014 un miliardo 482 milioni di euro, il 5 per cento in meno rispetto all’anno precedente e il meridione è immensamente indietro.

Nell’anno scolastico 2014-15 al nord i comuni hanno speso oltre 300 milioni di euro per asili nido pubblici e privati, nelle regioni del centro quasi 400 milioni e al sud 71 milioni. Inoltre, i costi sono maggiori negli asili comunali a gestione diretta, dove cioè il personale è assunto dal comune, rispetto agli asili sempre comunali ma dati in gestione a terzi.

Nel complesso i dati di Cittadinanza Attiva mostrano che dal 2005-2006 le rette sono aumentate in quasi tutte le regioni, soprattutto laddove latitano i servizi. I casi della Calabria e della Campania sono eclatanti: in Campania in dieci anni le tariffe sono aumentate del 32 per cento, ma i posti negli asili nido sono solo 5,7 su 100, il tasso più basso d’Italia. In Calabria c’è posto solo per 8 bambini su 100 ma la spesa media in 10 anni è cresciuta del 37,7 per cento. Per il sistema costituito dunque, il lavoro più conveniente per molte donne è ancora non lavorare. E non si può non pensare al monito di Vivian Gornick: “Essere una casalinga è una professione illegittima. La scelta di servire, essere protetta e di pianificare una vita familiare è una scelta che non dovrebbe esistere.”