L'economista serbo-americano: «Ci sono due strade. La prima è invertire il processo di globalizzazione. L’altra fare politiche a livello nazionale per aiutare le persone che sono state danneggiate dalla globalizzazione e reintrodurle nello spazio politico. Ma è più facile a dirsi che a farsi»

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È stato tra i primi, all’alba della crisi economica che ha cambiato tutto, a indagare la luna invece del dito: l’esplosione delle diseguaglianze e la sofferenza della classe media nel mondo ricco. Adesso Branko Milanovic, economista serbo-americano leader degli studi sulla diseguaglianza globale, avverte: da allora niente è stato fatto per combattere gli squilibri che dieci anni fa ci sprofondarono nei giorni neri della crisi dei subprime. Sulla diseguaglianza si è parlato tanto e fatto niente. E lo choc dall’economia si è spostato alla politica, cambiando radicalmente lo spazio delle nostre democrazie.

Nel decennale della crisi del 2008, le democrazie occidentali sono in pessima salute e il processo di globalizzazione è a rischio. Questa malattia è iniziata dieci anni fa oppure incubava da prima?
«I nostri problemi di oggi vengono dalla combinazione di due fattori: politiche sbagliate prima della crisi e cattive risposte alla crisi. Le politiche del neoliberismo, la deregulation finanziaria, la globalizzazione, l’alta diseguaglianza c’erano già. La crisi del 2008 ha portato tutte queste questioni allo scoperto e i problemi si sono esacerbati, con la riduzione della crescita e l’aumento della disoccupazione. I responsabili non hanno avuto conseguenze: qualcuno di loro è stato formalmente indagato negli Stati Uniti ma non ha pagato. Tutto ciò ha fatto crescere l’insoddisfazione nelle popolazioni rispetto alle politiche precedenti e al modo in cui la crisi è stata affrontata».

Anche tre uomini potenti, che erano al comando della barca prima e dopo la crisi, Bernanke (Fed), Geithner e Paulson (ex sottosegretari al Tesoro), hanno scritto in occasione del decennale del fallimento Lehman, il 16 settembre del 2008, chiamando in causa il ruolo della diseguaglianza. Ma cosa hanno a che vedere gli scatoloni dei broker di Wall Street con le difficoltà della classe media americana?
«Negli anni precedenti la crisi la diseguaglianza era cresciuta a livelli molto alti, colpendo non solo i più poveri ma la classe media. La mancanza di crescita del reddito negli Stati Uniti è stata compensata facendo in modo che gli americani si indebitassero con facilità. Per un po’, da questa prospettiva, le cose sembravano andar bene: i redditi non crescevano ma con i prestiti si poteva tirare avanti e pensare che le cose andassero bene. Queste politiche sono state incentivate dal governo, in particolare da George W. Bush che voleva che tutti diventassero proprietari di case, ed erano positive anche per il settore finanziario, che aveva soldi da impiegare e un ritorno in interessi e commissioni. Tutto questo è finito quando si è cominciato non poter più rimborsare quel debito. Il legame tra alta diseguaglianza, impoverimento del ceto medio e la crisi, del quale nel 2008 non eravamo in molti a parlare, man mano è stato sempre più capito e accettato».
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Cos’è successo con la crisi?
«All’inizio sono stati colpiti i più ricchi, che avevano patrimoni finanziari, e la fascia più povera della popolazione. Dopo il 2010, quando la ripresa è partita, per lo meno negli Stati Uniti, gli effetti sono stati opposti, e la diseguaglianza ha ripreso a crescere: nel 2010 negli Stati Uniti è tornata al livello che c’era prima della crisi, nel 2013 era aumentata e nel 2016 era ancora più alta. Una dinamica simile si è avuta in Europa, anche se con differenze tra i vari Paesi. Così abbiamo avuto un paradosso, per cui a dispetto del gran parlare e dell’importanza data alla questione della diseguaglianza, questa ha continuato a crescere».

Perché?
«Se guardiamo alle azioni effettive intraprese dai governi negli Stati Uniti come in Europa in tema di diseguaglianza non troviamo niente di concreto. L’approccio generale è stato: quando tornerà la crescita, le cose si aggiusteranno, la gente si dimenticherà di tutte queste questioni e implicazioni politiche dell’alta diseguaglianza, e tutto tornerà come prima. Quel che è successo intanto, gli choc politici degli ultimi due anni - Brexit, l’elezione di Trump, l’ascesa dell’Afd in Germania e Le Pen in Francia, le elezioni italiane - non sono stati in alcun modo previsti dai governi che erano al potere nel dopocrisi. Niente è stato davvero fatto, in parte perché non pensavano che dovessero farlo, e poi perché l’agenda politica è stata occupata da altro».

Dei possibili choc politici lei aveva parlato nel suo libro Ingiustizia globale (Luiss University Press, 2017), indicando due esiti possibili dell’aumento delle diseguaglianze: la plutocrazia, il dominio dei più ricchi, e il populismo, con il tentativo di “placare” dei perdenti della globalizzazione. Quale delle due si sta realizzando con gli choc dell’ultimo biennio?
«Negli Stati Uniti quel che Trump sta facendo è una combinazione di populismo e plutocrazia. La parte populista è nelle tariffe contro le importazioni dalla Cina, la rinegoziazione del Nafta, la decisione di non partecipare al Ttip. D’altro canto le politiche reali che Trump ha portato davanti al Congresso sono politiche che favoriscono l’1% o 5% più ricco della popolazione, riducendo per loro le tasse. Ma le politiche “populiste” nei fatti non saranno efficaci, non aiuteranno molto la popolazione della classe media, che però non l’ha ancora capito, mentre vanno avanti le altre politiche, quelle fiscali chiaramente pro-ricchi. Quindi sta accadendo l’opposto di quel che la gente voleva o pensava sarebbe accaduto: chiedevano una politica per la classe media e abbiamo invece una doppia politica che di fatto è per i ricchi. In Europa, Macron ha avuto una buona stampa perché parla bene, è liberale ed è un internazionalista, ma le politiche che propone e fa vengono tutte dai libri di testo neoliberisti: in questo senso non è molto diverso da quello che io chiamo una politica plutocratica. In Italia c’è probabilmente la stessa situazione ma ancora incerta poiché il governo è relativamente nuovo, i due partiti che lo compongono hanno due visioni opposte dell’economia e non hanno ancora avuto molto tempo per agire».

Lei ha parlato di risposte sbagliate alla crisi. Ma Stati Uniti ed Europa, all’epoca, hanno risposto in modo diverso, nell’Ue non abbiamo avuto lo stimolo fiscale di Obama ma all’opposto l’austerità.
«Qui entriamo nel campo della macroeconomia e non mi dilungherò molto. Però penso che lo stimolo fiscale di Obama non sia stato destinato alla classe media, è stato diretto a coprire le perdite del sistema bancario e assicurarsi che non ci fosse una riedizione della Grande depressione. Sull’Europa, dobbiamo andare un po’ più a fondo. Il suo malessere profondo viene da tre fattori. Il primo è la crisi e i suoi effetti: la riduzione della crescita e poi una ripresa molto debole e lenta. Il secondo è di più lungo termine, globalizzazione e cambiamento tecnologico, che hanno inciso sulla classe media di tutti i paesi occidentali causando la perdita di molti posti di lavoro che sono andati in Asia o nell’Est europeo. Il terzo fattore è quello delle migrazioni, il più forte a lungo termine, durerà decenni poiché la differenza di reddito tra Europa e Africa e Medio Oriente è molto elevata e non si ridurrà. Questi tre fattori messi insieme ci fanno capire come mai la situazione in Europa sia così difficile».

Dei tre, è il tema dell’immigrazione a dominare oggi l’agenda, ma non nella prospettiva di lungo termine che lei prospetta, piuttosto come potente fattore di consenso per la destra. Il problema è tutto a sinistra. Come mantenere il consenso dei perdenti, di chi teme di perdere quella che lei chiama “rendita di cittadinanza”, senza abbandonare i propri principi fondamentali sui diritti umani?
«Il problema oggettivo della sinistra europea è che la sua base costituente - classe lavoratrice, persone con buon livello di istruzione, classe media, sindacati - è quella più colpita da globalizzazione e cambiamento tecnologico. Questo mette in crisi anche l’approccio ideologico, in via di principio internazionalista, aperto ai movimenti di persone e anche alla globalizzazione: con questo approccio in termini di base sociale rischia di diventare irrilevante. Realisticamente penso che debbano avere posizioni più restrittive, cosa che non deve riguardare i richiedenti asilo ma la migrazione economica, che diventerà sempre più un tema per l’Europa. Questa migrazione porta a risentimento, disaffezione, rifiuto».

Pensa che questo sia vero anche per Paesi come l’Italia nei quali il trend demografico è negativo, dunque potrebbero beneficiare dell’immigrazione?
«Non c’è dubbio che da un punto di vista economico la maggior parte dei Paesi europei e in particolare quelli come l’Italia, che hanno una popolazione declinante e un tasso di fecondità basso, beneficerebbe dalle migrazioni. Ma c’è una forte resistenza all’immigrazione, anche quando si sa che, in via generale, farebbe bene al Paese. E la resistenza è su molti terreni, alcuni sono economici, redditi e lavoro; altri culturali».

Ma come spiega il fatto che questi fenomeni sono più forti nelle parti più sviluppate e benestanti d’Italia e d’Europa? Forse l’economia non spiega tutto?
«Se guardiamo alla mappa della protesta, vediamo in realtà che le forze economiche sono trainanti. Brexit ha vinto nella parte dell’Inghilterra che è stata lasciata indietro. Anche in Germania, l’ascesa dell’Afd riguarda soprattutto le regioni orientali, più povere. In Francia il Fronte nazionale è stato forte nel Nord, dove c’era il cuore dell’industria. Ci sono forti argomenti per dire che le forze economiche sono determinanti nello spiegare il successo dell’estrema destra. Ci sono altri casi, come l’Italia del Nord, ma qui c’è la presenza storica della Lega a favore di una minore redistribuzione verso il Sud, e un moto di insoddisfazione molto legato alla questione migratoria. Ovviamente ci sono altri elementi storici importanti. Nell’Est Europa, non possiamo capire Orbán e Kaczynski se non teniamo in conto che le rivoluzioni dell’89 erano fondamentalmente di liberazione nazionale, quel che vediamo oggi anche nell’atteggiamento verso gli immigrati ha le sue radici nel nazionalismo dei movimenti dell’89».

Le forze economiche di cui parla sono transnazionali, i loro effetti locali. Che strumenti hanno i governi nazionali per contrastare le cause economiche dello choc politico in corso?
«Penso che dobbiamo essere consapevoli del fatto che stiamo vivendo un periodo speciale. Stiamo assistendo a una riconfigurazione dello spazio politico sia negli Stati Uniti che in Europa, rispetto a quello che è esistito dal 1945 a pochissimo tempo fa. La nuova divisione non passa tra la sinistra e destra tradizionali, ma tra coloro che sono per apertura e globalizzazione e quelli che sono per la chiusura delle economie e dei movimenti migratori, fino alla xenofobia. Dunque c’è una riconfigurazione dello spazio politico ed è molto difficile dire cosa fare. Ci sono due strade. La prima è invertire il processo di globalizzazione, iniziare la guerra commerciale: io non penso che potrà davvero aiutare le vittime della globalizzazione e colpirebbe invece il resto del mondo, la Cina, fermando la tendenza alla riduzione della povertà globale. L’altra possibilità è fare politiche a livello nazionale per aiutare le persone che sono state danneggiate dalla globalizzazione e reintrodurle nello spazio politico. So che è più facile a dirsi che a farsi: non abbiamo un set di politiche già pronto, ma credo che questa sia la direzione a cui la sinistra deve guardare, non può più essere quella del secolo scorso».