«I Quartieri Spagnoli a Napoli hanno goduto per anni di una cattiva nomea, ma nell’ultimo periodo stanno vivendo un vero e proprio rinascimento», informa un sito di cucina che elenca i migliori ristoranti nello storico quartiere popolare. Merito del turismo che ha fatto capolino nella griglia di vicoli stretti e bui che dalla centrale via Toledo sale lungo le pendici della collina del Vomero.
Negli ultimi dieci anni la città di Napoli ha registrato l’incremento maggiore di presenze turistiche in Italia (+91,3 per cento) dopo Matera. «La napoletanità è la nostra attrattiva. Napoli ha un’identità propria che va salvaguardata e allo stesso tempo sfruttata per la costruzione del prodotto-destinazione Napoli», si legge nel documento redatto al termine degli Stati Generali del Turismo nel 2017. «Chiassosa, allegra e accogliente», così quattro ragazze milanesi in visita a Napoli definiscono questa “napoletanità”, mentre escono dal bar dove sono state a bere un cocktail, rimanendone però deluse: «È troppo perfettino, sembra milanese. La vineria dove siamo state ieri alla Sanità, invece, era tipicamente napoletana, con le botti all’esterno».

Da posto malfamato i Quartieri Spagnoli sono diventati meta di turismo in cerca di folklore. Visite guidate alla scoperta di una presunta tipicità locale promettono l’esperienza di una cena in un “vero basso napoletano”. Agli usci di ristoranti aperti da poco ci sono sedie, tavoli e piante di plastica, immagini di piatti di pasta, pizza e cozze offerti da una sorridente Sophia Loren. Ai primi piani cartelli per camere in affitto, un balcone con finte tende e panni stesi. File di bandierine percorrono tutta la lunghezza dei primi tre vicoli alle spalle di via Toledo. «Dove vedi le bandierine è arrivato il turismo», dice un residente puntando l’indice verso la Certosa di San Martino, a indicare la direzione di espansione dell’onda che sale verso quella parte di quartiere ancora abitato da famiglie del sottoproletariato napoletano e da immigrati.
«La convivenza tra il sottoproletariato e la media borghesia ha finora costituito un argine al processo di gentrificazione che in altre città ha svuotato i centri storici di residenti», racconta Marcello Anselmo, storico e giornalista di Napoli Monitor. Ma l’industria del turismo ha accelerato il ritmo del cambiamento e «nel giro di tre anni la città si è trasformata», dice Anselmo.

Il balzo degli annunci
Negli ultimi due anni gli annunci di alloggi su Airbnb a Napoli sono più che raddoppiati, toccando quota 7.169 il 9 novembre scorso. Di questi, circa 5mila sono localizzati nei quartieri delle prime due municipalità e San Lorenzo. Oltre quattromila sono per interi appartamenti, di cui la metà affittati a turisti per più di 60 giorni l’anno - dunque sottratti al mercato ordinario delle locazioni. Oltre metà degli annunci sono di host che gestiscono più di un alloggio. I dati sono estratti dal database della multinazionale, che rifiuta di pubblicarli, e diffusi dal sito Inside Airbnb.
Il processo di turistificazione a Napoli non sarebbe però ancora entrato nella fase di espulsione di attività e residenti. Secondo Anselmo sono ancora i locali a usare Airbnb nei Quartieri Spagnoli per integrare il reddito. Ma lo scenario, ammette, sta cambiando rapidamente. «Gli affitti sono aumentati, in centro è impossibile trovare una casa in affitto, e bisogna considerare che il 50 per cento dei napoletani abita in affitto», più del doppio della media nazionale. Secondo Federalberghi gli 8.565 annunci sui portali web, di cui 1.500 con licenza, sono diventati 10.825 nel giro degli ultimi due mesi.

In cerca di alloggio
La signora Titina, che gestiva una trattoria economica nel centro di Napoli, è stata sfrattata. Il proprietario possiede più appartamenti e intende aprire una casa-vacanze, secondo gli attivisti della rete antisfratto “Magnammece ’o pesone”. Giulia e Roberto hanno avuto da poco una bimba. Dopo aver a lungo cercato una casa in affitto in centro, dove lavorano, si sono arresi al trasferimento in provincia. Sono molti gli studenti che non trovano più un alloggio decente a prezzi accessibili.
Gli effetti del turismo aggravano una questione abitativa pregressa: sono state oltre cinquemila le richieste di sfratto nel 2017, circa 1.500 quelli eseguiti con l’ufficiale giudiziario. Un dato preoccupante se correlato allo stato dell’edilizia residenziale pubblica: 17 mila persone sono in graduatoria per una casa popolare ma le assegnazioni sono praticamente ferme dal 1998. «In compenso», spiega il giornalista locale Riccardo Rosa, «sono cinquemila le persone che possiedono tre o più appartamenti a Napoli. Questo significa che la grande proprietà non è (ancora) finita in mano a grandi agenzie o multinazionali, ma resistono le famiglie di costruttori, palazzinari o multiproprietari». Non per molto, secondo Anselmo: «Due grandi agenzie di Milano hanno rilevato molti appartamenti vuoti in città per affittarli su Airbnb».

Non è vera “condivisione”
In Italia Airbnb conta 400 mila annunci. Oltre la metà, il 62,22 per cento, è di gestori di più di un alloggio; il 76,68 per cento di annunci è per interi appartamenti, quasi due terzi (il 64,58 per cento) è per alloggi disponibili per oltre sei mesi l’anno, quindi non abitati. Nonostante la retorica comunitaria, la multinazionale degli affitti brevi si rivela alla prova dei dati non uno strumento di condivisione e redistribuzione quanto di concentrazione della ricchezza, proveniente dalla rendita immobiliare, nelle mani di pochi host che gestiscono più proprietà.
Gli affitti salgono, i prezzi aumentano e i negozi chiudono. In via San Sebastiano, tradizionalmente la via dei negozi di strumenti musicali, i muri sono tappezzati di annunci per valutazioni gratuite degli appartamenti. Le serrande abbassate delle attività che hanno chiuso si alternano a paninerie, friggitorie e tutto il repertorio del food and beverage turistico che sta rendendo le città indistinguibili. «Sono rimasta solo io», dice Annamaria, che ha un negozio di casalinghi in via dei Tribunali. «Ormai qui non c’è più un posto dove fare la spesa, bisogna andare al supermercato fuori dal quartiere».
I negozi superstiti si adattano. L’edicola di Antonio in via Toledo vende cartoline, statuette di Pulcinella, bicchieri da limoncello, piatti con immagini del Golfo. Sugli scaffali della ferramenta di Piazzetta Nilo magliette di squadre di calcio, cappelli, grappoli di aglio e cipolla di plastica. I magneti da frigo sono ovunque, tutti uguali, sulle bancarelle, dove giovani migranti lavorano sottopagati e in nero.

«Il cambiamento nel cuore dell’area Unesco di Napoli è evidente», dice la ricercatrice Alessandra Caputi, che dal novembre scorso sta censendo le attività commerciali nella zona dei Decumani per documentare la trasformazione.
Caputo è tra le promotrici di SET (Sud Europa di fronte alla Turistizzazione), una rete di associazioni e collettivi di alcune città italiane e spagnole tra cui Venezia, Madrid, Barcellona, Lisbona, e Napoli, dove la rete si è riunita lo scorso 10 ottobre per analizzare l’impoverimento che l’industria del turismo infligge alle città.
All’evento ha partecipato anche Tomaso Montanari, tra i promotori della proposta di legge per la tutela dei centri storici dell’Associazione Bianchi Bandinelli. L’obiettivo è rilanciare la funzione residenziale dei centri storici, anche per fasce sociali più deboli, con la sospensione dei cambi di destinazione d’uso e un programma straordinario di edilizia residenziale pubblica.
Il silenzio della piattaforma
«Napoli è una città a turismo relativamente giovane, ma gli effetti della trasformazione sono evidenti», concorda Enrico Panini, vicesindaco e assessore al Bilancio di Napoli. «Nel lungo periodo la locazione breve espelle le persone dai luoghi abitati, salvo che non siano turisti o persone ricche. Per questo stiamo lavorando a una delibera, per programmare l’offerta commerciale e governare il fenomeno delle locazioni brevi». Il problema è «il vuoto più assoluto di legislazione nazionale: limitare il numero di notti consentite su Airbnb non è infatti competenza legislativa locale». Inoltre, continua Panini, «occorre una maggiore collaborazione con le piattaforme», che invece non forniscono i dati. «Questo, dal punto di vista della trasparenza e del rapporto con le pubbliche amministrazioni, non va bene nel modo più assoluto».
Lo scorso luglio New York ha imposto ad Airbnb di pubblicare i dati. San Francisco, la città natia di Airbnb, ha fissato da tempo i criteri per distinguere tra annunci occasionali di privati e quelli commerciali. Qui gli affitti brevi sono consentiti per un massimo di 120 giorni l’anno con l’obbligo di residenza, nel caso di interi appartamenti, secondo la policy “one home-one host”. I limiti mirano a frenare l’accaparramento di intere case da parte dei grandi proprietari, un fenomeno che incrementa le disuguaglianze sociali a discapito della classe media. Limiti di tempo tra i 90 e i 120 giorni sono stati introdotti anche in molte città europee come Londra, Parigi, Amsterdam.
In Italia Firenze, Milano, Torino, Palermo, Bologna e Napoli hanno stretto accordi con Airbnb per il versamento dell’imposta di soggiorno. Che, però, non sempre è investita sul territorio. È questa l’idea dietro Fairbnb, una piattaforma cooperativa creata da un urbanista olandese. I primi affitti turistici “etici” su Fairbnb partiranno a gennaio in quattro città pilota tra cui Venezia e Bologna. Il 50 per cento dei proventi delle commissioni sarà investito in progetti locali a scopo sociale.
Napoli è ancora in tempo per fermare la Disneyficazione del centro storico. Ma, affinché il rinascimento sia per tutti, bisogna agire in fretta.