Dopo il salvataggio pubblico della Carige ligure, ora anche la Popolare di Bari ha bisogno urgente di nuovi capitali. E si affida a un amministratore delegato appena multato dalla Consob e indagato dalla magistratura

Ci sono Paesi in cui il capo di un’azienda sanzionato dalle autorità di controllo lascia immediatamente l’incarico. Può anche capitare che il manager in questione faccia un passo indietro, senza perdere il posto, in attesa che la situazione si chiarisca.

L’Italia invece, a quanto pare, gioca in un campionato a parte. Un mese fa, la Popolare di Bari, grande banca del Sud che naviga da tempo acque tempestose, ha richiamato in servizio il suo ex direttore generale, multato a settembre dalla Consob. Ci è scappata pure una promozione, mentre un giudice d’appello ha per il momento sospeso l’efficacia del primo verdetto. Vincenzo De Bustis, questa volta con i gradi da amministratore delegato, è così tornato al vertice dell’istituto pugliese che ad aprile del 2015 lo aveva congedato senza troppi complimenti, per altro gratificandolo con una buonuscita vicina al milione di euro.

A richiamarlo in servizio è stato Marco Jacobini, patron della famiglia che da decenni tiene in pugno l’istituto pugliese. De Bustis, 68 anni è un banchiere di lungo corso e dalle sette vite. Il suo nome compare nelle cronache di due decenni fa spesso associato a quello dell’allora potentissimo Massimo D’Alema, suo amico personale. L’ascesa del manager era partita dalla Banca del Salento, da cui nel 2000 spiccò il volo verso il vertice del Monte dei Paschi, a lungo riserva di caccia del Pds -Ds-Pd. Una volta lasciata la poltronissima di Siena, dopo alterne vicende professionali l’ex pupillo di D’Alema è approdato nel 2011 alla corte degli Jacobini.

L’aspetto più paradossale della vicenda è che proprio De Bustis tra il 2013 e i 2015 gestì l’affare che, oltre a innescare l’indagine della Consob, ha provocato gran parte dei guai in cui ora si dibatte la Popolare pugliese. E cioè l’acquisizione della disastrata concorrente abruzzese Tercas. Dopo un primo stop ordinato dalla Commissione di Bruxelles, la complicata operazione è andata in porto con il pieno sostegno di Bankitalia ai primi del 2016 e ha avuto l’effetto di scaricare sul compratore una montagna di spazzatura finanziaria rivelatasi molto difficile da smaltire. Nessun problema, a quanto pare.

Nel dicembre scorso l’ex direttore generale è tornato al comando della Popolare pugliese con il mandato di rimettere in carreggiata una macchina che da anni sbanda vistosamente tra guai di ogni tipo. Compresa un’inchiesta della magistratura che vede indagati, tra gli altri, il presidente Marco Jacobini con i suoi figli Luigi e Gianluca, entrambi vicedirettori generali, oltre allo stesso De Bustis, per una serie di reati (truffa, falso in bilancio ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti) che riguardano la gestione dei crediti e la compravendita di titoli ai clienti dell’istituto di credito.

Un altro colpo all’immagine della banca è arrivato ai primi di gennaio, quando si è appreso delle dimissioni di Giulio Sapelli, l’economista nominato vicepresidente della popolare pugliese appena un mese prima. La scelta di un professore molto apprezzato dalla Lega come Sapelli, per qualche giorno a maggio addirittura in corsa per la presidenza del Consiglio al posto di Giuseppe Conte, era stata letta come una mossa di avvicinamento al governo in una fase a dir poco cruciale per il futuro dell’istituto. Il consigliere dimissionario non ha reso note le ragioni della sua scelta. Difficile non notare, però, che il vicepresidente ha lasciato l’incarico proprio in coincidenza con l’arrivo di De Bustis.

Azionisti in rivolta
Il nuovo amministratore delegato si trova ora ad affrontare una situazione che ben conosce, se non altro perché, come detto, una parte dei problemi della banca è emersa per la prima volta durante la sua precedente gestione. Un’inchiesta dell’Espresso aveva raccontato, già nel giugno del 2016, le crescenti difficoltà della Popolare guidata da Marco Jacobini e famiglia: i bilanci deludenti, l’aumento delle sofferenze sui prestiti, le manovre sui titoli. Tutto questo mentre migliaia tra i 70 mila soci della Popolare, comprensibilmente preoccupati, non riuscivano a liquidare le loro azioni per mancanza di compratori. Una lunga serie di operazioni straordinarie varate nei mesi scorsi, dalla vendita di crediti deteriorati (in gergo non performing loans, Npl) e il ricorso massiccio al credito interbancario per fare provvista di liquidità, non sono bastati per mettere in sicurezza i conti.
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2/6/2016

La Popolare di Bari ha bisogno urgente di mezzi freschi per uscire dalle secche in cui si è arenata. Indiscrezioni di fonte finanziaria rivelano che servirebbero almeno 500 milioni, da raccogliere sul mercato sotto forma di nuove azioni e di obbligazioni. La banca d’affari Rothschild e la società di consulenza Oliver Wyman sono da tempo al lavoro per contattare possibili investitori e mettere a punto un piano di rilancio. La rimonta, già complicata di per sé, si sta però rivelando ancora più difficile del previsto per via delle crescenti tensioni sul mercato. Da settimane l’attenzione del mondo finanziario è concentrata su Genova dove, con Carige, va in scena un altro salvataggio a spese del contribuente. Questa volta però, dopo i casi delle popolari venete e di Mps, la regia è affidata al governo Lega-Cinque Stelle (quelli che «mai più un euro alle banche»).

In Liguria l’esecutivo gialloverde è già intervenuto con un decreto ad hoc che estende la garanzia dello Stato alle obbligazioni emesse dall’istituto in difficoltà. Tutto questo però non basta per tappare una volta per tutte le falle in bilancio. E allora, in una spirale di dichiarazioni che spesso si contraddicono tra loro, c’è chi, come il vice premier Luigi Di Maio, arriva a prospettare la nazionalizzazione di Carige. A Bari non siamo ancora a questo punto, anche se tra gli azionisti che temono di perdere per intero il loro investimento sono in molti a invocare il salvataggio pubblico. Gli Jacobini tirano diritto, per nulla turbati, almeno in apparenza, dalle nubi di tempesta che si stanno addensando intorno alla loro banca, l’unica di peso nazionale sopravvissuta ai fallimenti e alle vendite in serie che negli ultimi decenni hanno fatto piazza pulita degli istituti di credito controllati e gestiti a Sud di Roma.
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Va detto che la strategia dell’arrocco ha fin qui garantito qualche successo. La Popolare di Bari, insieme a quella di Sondrio, è per il momento riuscita a sottrarsi alla trasformazione in società per azioni così come previsto dal decreto varato dal governo di Matteo Renzi nel gennaio del 2015 per gli istituti (dieci in tutto) con oltre 8 miliardi di attivo. Dopo una lunga serie di ricorsi, la questione è infine approdata alla Corte di Giustizia europea che si pronuncerà nei prossimi mesi. Nel frattempo, un prezioso assist del governo Conte, sotto forma di emendamento al cosiddetto decreto Milleproroghe, aveva già posticipato al 31 dicembre 2018 il termine ultimo entro cui varare la nuova spa.

I conti non tornano
Adesso però sono i numeri, quelli di bilancio, a far vacillare il trono degli Jacobini. I dati dell’ultima relazione semestrale, chiusa nel giugno scorso, sintetizzano una situazione allarmante. Le nuove svalutazioni su voci dell’attivo come crediti e avviamento hanno fatto salire le perdite a 139,2 milioni in sei mesi. Tenendo conto delle rettifiche già messe a bilancio, la quota dei prestiti classificati come deteriorati, cioè quelli che rischiano di non essere rimborsati (in tutto o in parte), si aggirano intorno al 18 per cento dei finanziamenti alla clientela, un livello tutt’altro che rassicurante. Nei primo semestre del 2018 sono peggiorati anche gli indici che misurano l’adeguatezza del patrimonio. Per il momento, comunque, questi valori restano superiori (ma di poco) ai minimi regolamentari prescritti dalle autorità di vigilanza. Appare quantomeno preoccupante un altro dato segnalato dalla semestrale. Il rapporto tra i costi operativi e il margine di intermediazione, cioè gli utili lordi, ha raggiunto quota 83 per cento. Significa che il motore della banca viaggia con il freno a mano tirato, perché le voci di spesa, dal personale agli altri oneri amministrativi, si mangiano quasi per intero i profitti ricavati dalla gestione del denaro. Per gli istituti più efficienti questo indicatore non supera il 50 per cento.

In attesa della pubblicazione del nuovo piano industriale, prevista nelle prossime settimane (ma era già stato annunciata per l’autunno scorso), è quindi facile immaginare che eventuali possibili grandi investitori, in Italia e all’estero, non facciano la fila per scommettere il loro denaro sul salvataggio della Popolare di Bari. A maggior ragione in una fase di grande incertezza sui mercati, con le quotazioni dei Btp, risollevatesi solo in parte dopo il crollo dell’ultimo trimestre del 2018, che continuano a zavorrare i conti del sistema bancario italiano. Come se non bastasse, il caso pugliese sembra nascere dallo stesso intreccio perverso tra localismo esasperato, inamovibilità dei vertici e cattiva gestione dei crediti che nel recente passato ha innescato la crisi, e poi il fallimento, della Popolare Vicenza di Gianni Zonin e di Veneto Banca, per quasi vent’anni guidata dal patron Vincenzo Consoli.

Come ovvio, i problemi della gestione Jacobini non nascono in questi mesi. I crediti deteriorati si sono accumulati per effetto di scelte compiute in anni lontani, quando nell’annuale assemblea dei soci si sprecavano gli applausi per gli amministratori e le azioni venivano vendute senza problemi a decine di migliaia di clienti convinti di investire in un istituto solido, una banca del territorio lontana dalle trame imprevedibili e pericolose dell’alta finanza. Eppure, già nel 2013, quando i soci facevano la fila allo sportello per comprare i titoli, un’ispezione della Banca d’Italia aveva attribuito alla Popolare di Bari un voto pari a 4, corrispondente a una valutazione “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) fino a 6. Pochi mesi dopo quella bocciatura, la stessa Bankitalia ha però dato via libera, anzi, ha calorosamente sollecitato, l’intervento dell’istituto pugliese per salvare Tercas prossima al crack. Per far fronte agli oneri dell’intervento, Jacobini ha chiamato a raccolta i soci a cui sono state vendute azioni e obbligazioni subordinate per oltre 800 milioni tra il 2012 e il 2015. Gli stessi titoli che si sono poi trasformati in merce invendibile.

Incroci pericolosi
Il sistema ha retto fino a quando la massa dei crediti difficili da recuperare non ha superato il livello di guardia. Ogni prestito ha la sua storia, più o meno fortunata, ma dalle carte che L’Espresso ha potuto esaminare emergono nomi che rimandano ad altre vicende recenti della finanza nazionale. Un filo rosso porta a Sorgente, il gruppo immobiliare controllato da Valter Mainetti. Negli anni scorsi la Popolare di Bari ha investito oltre 100 milioni nei fondi gestiti da Sorgente sgr. La stessa società che in dicembre è stata commissariata su decisione della Banca d’Italia «per gravi violazioni normative e irregolarità nell’amministrazione». Mainetti, che ama ricordare il suo antico rapporto con il barese Aldo Moro, di cui fu assistente universitario, è molto legato alla Puglia. Negli anni scorsi aveva anche acquistato una quota del 30 per cento de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano del capoluogo pugliese. Gli affari con la Popolare di Bari hanno preso forma svariati anni fa e già nel 2013 la Vigilanza della Banca d’Italia, nel rapporto ispettivo sulla banca degli Jacobini, aveva segnalato «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Ora che Sorgente sgr è stata commissariata, un provvedimento duramente contestato da Mainetti, si tratta di capire quali potranno essere (se ci saranno) le ripercussioni sui conti della Popolare.

Dal groviglio di affari, pegni e garanzie incrociate descritti nei documenti ufficiali dell’istituto pugliese si dipana un’altra trama che porta fino alla Popolare Vicenza, travolta tre anni fa da un crack miliardario. Si scopre infatti che nella lista dei grandi debitori della Popolare di Bari, per un totale che supera i 100 milioni di euro, compare il gruppo che fa capo ai Fusillo, costruttori e immobiliaristi pugliesi con ottimi agganci anche a Roma. Ebbene, come L’Espresso aveva suo tempo svelato, gli stessi Fusillo sono stati finanziati per una cinquantina di milioni anche dalla Popolare di Vicenza. È stato un gioco di sponda. La banca veneta ha sottoscritto quote di fondi maltesi col marchio Futura, che a loro volta hanno comprato obbligazioni emesse da Maiora e Fimco.

Il guaio è che queste due società, entrambe controllate dai Fusillo, adesso si trovano sull’orlo del fallimento e al momento non è chiaro se i soldi arrivati da Vicenza, via Malta, potranno mai essere restituiti. Ci si può chiedere per quale motivo un istituto di credito veneto abbia deciso di sostenere aziende così lontane dal proprio territorio. Una risposta chiara ancora non c’è, forse arriverà dal processo per la bancarotta della Popolare che è alle prime battute a Vicenza. Agli atti delle indagini, però, restano decine di telefonate tra De Bustis e manager di vertice della banca di Zonin. In sostanza, tra il 2013 e il 2014, l’allora direttore generale della Popolare di Bari ha avuto contatti frequentissimi con i suoi colleghi di Vicenza, gli stessi che hanno gestito i rapporti con i fondi Futura e quindi i finanziamenti alle società pugliesi dei Fusillo, a loro volta indebitate con la banca degli Jacobini.

A fine 2012 De Bustis, da poco approdato a Bari, aveva rilevato azioni di Methorios, società romana di cui all’epoca era influente azionista Alfio Marchini. Il quale, pure, lui è stato finanziato per decine di milioni dalla Popolare di Vicenza, con i soliti fondi Futura che hanno comprato quote di Methorios. Dunque, ricapitolando, De Bustis si era messo in società con i veicoli finanziari maltesi, gli stessi che investivano, con i soldi della Popolare di Zonin, nelle aziende dei Fusillo, indebitatissime con la Popolare di Bari. Un corto circuito piuttosto singolare. E anche sfortunato, visto che quasi tutti i partecipanti a queste giostra milionaria ora sono falliti (Popolare Vicenza) oppure rischiano grosso (le società dei Fusillo). Si salva De Bustis, l’inaffondabile, in viaggio da Bari a Bari. Nel mezzo una banca in crisi e centinaia di milioni bruciati nel gran falò dei prestiti sballati.