La potente Popolare della città, governata ?da mezzo secolo dalla stessa famiglia, si prepara ?a trasformarsi in una società per azioni. Tra bilanci in perdita e manovre sui titoli. Perché nulla cambi nel più grande istituto di credito del Sud
Crisi, quale crisi? Marco Jacobini parla di sviluppo, crescita, espansione. L’ultimo erede della famiglia che da oltre mezzo secolo tiene in pugno la Popolare di Bari si aggrappa a un’altra acquisizione per allontanare incubi e fantasmi. «Vogliamo CariChieti», ha detto di recente Jacobini, candidando l’istituto che presiede all’acquisto della piccola banca abruzzese azzerata dal decreto del governo del novembre scorso.
Vista dalla Puglia, la crisi delle Popolari gronda promesse e propositi di riscossa. E a dire il vero, fino a poche settimane fa, da queste parti arrivavano solo gli echi lontani della tempesta che nel giro di pochi mesi ha spazzato via Vicenza e Veneto Banca, oltre all’Etruria, frantumando equilibri consolidati nel tempo, come dimostra la prossima fusione tra Popolare Milano e il Banco Popolare con base a Verona. A Bari, però, adesso la musica è cambiata. A fine aprile è arrivato il taglio del valore delle azioni: da 9,53 a 7,5 euro, con una perdita secca del 21 per cento in un sol colpo. Una sorpresa difficile da digerire per gli oltre 70 mila soci della Popolare di Bari, che con quasi 15 miliardi di attivi, 385 filiali, oltre 3 mila dipendenti, è la più grande banca del Sud, una delle poche rimaste indipendenti.
Negli ultimi tre anni l’istituto guidato da Jacobini ha raccolto quasi 800 milioni piazzando titoli tra migliaia di risparmiatori. Nel 2014 sono state vendute anche 200 milioni di obbligazioni subordinate, un investimento ad alto rendimento (6,5 per cento annuo) ma anche meno sicuro dei classici bond, come hanno scoperto a loro spese nei mesi scorsi i clienti degli istituti liquidati, primi tra tutti quelli di Banca Etruria. Risultato: le fila dei soci di Popolare Bari si sono ingrossate a gran velocità. Nel 2010 il capitale era diviso tra meno di 50 mila investitori, contro i 70 mila attuali. Il fatto è che le azioni dell’istituto pugliese non sono quotate in Borsa. Chi vuol vendere o comprare, quindi, deve bussare in banca. Anche il prezzo è fatto in casa, nel senso che la quotazione viene stabilita di anno in anno dagli amministratori e poi sottoposta al giudizio dell’assemblea per il via libera definitivo. Insomma, il sistema è lo stesso che ha già dato pessima prova di sé nelle recenti crisi di Veneto Banca e della Popolare Vicenza, letteralmente travolte dalla fuga in massa degli azionisti.
A Bari tutto, o quasi, è filato liscio fino al 2015. Poi, messi in allarme da ribaltoni e crisi varie nel mondo bancario, sempre più soci hanno chiesto di liquidare in tutto o in parte il proprio investimento. Del resto, come risulta dagli stessi prospetti informativi degli ultimi aumenti di capitale della Popolare pugliese, il prezzo delle azioni messe in vendita negli anni scorsi era stato calcolato in base a parametri di bilancio simili, anche se di poco inferiori, a quelli di altri istituti non quotati come le già citate Popolare Vicenza e Veneto Banca, che poi non hanno retto alla prova della crisi. Così, per far fronte alle richieste, nel corso del 2015 l’istituto con base a Bari ha comprato azioni proprie messe in vendita dai soci per un valore di quasi 15 milioni. «Tutto sotto controllo», hanno gettato acqua sul fuoco Jacobini e i suoi collaboratori. Il 18 marzo scorso, però, in una sola giornata sono passate di mano oltre 2 milioni di azioni della Popolare. Un boom senza precedenti. Tra gennaio e febbraio il mercatino interno riservato ai soci aveva aperto i battenti solo cinque volte, con scambi al lumicino: poche decine di migliaia di pezzi.
La sorpresa aumenta se si considera che l’asta del 18 marzo è stata l’ultima occasione per vendere i titoli al prezzo di 9,53 euro. Gli scambi infatti sono ripresi solo il 13 maggio. Nel frattempo però, il 24 aprile, l’assemblea ha fissato la nuova quotazione, pari, come detto, a 7,5 euro. In altre parole, il fiume dei soci in uscita si è ingrossato proprio alla vigilia del ribasso. Ce n’è quanto basta per alimentare sospetti e interrogativi sull’identità dei fortunati venditori, che hanno incassato in totale circa 20 milioni di euro. A comprare, secondo quanto spiegano a Bari, è stato il gruppo assicurativo Aviva, che poche settimane prima aveva siglato un’alleanza commerciale con l’istituto pugliese. Anche la posizione degli acquirenti appare però piuttosto singolare. In pratica, d’accordo con la banca, Aviva avrebbe comprato titoli che nel giro di un mese si sono svalutati del 20 per cento per decisione della banca stessa. A prima vista non sembra granché come affare per celebrare l’intesa strategica appena firmata.
Le manovre sui titoli sono andate in scena pochi giorni prima di un’altra brutta notizia. A fine marzo la Popolare di Bari ha annunciato il bilancio peggiore della sua storia: 475 milioni di perdite, ridotti a 297 milioni grazie ad alcune partite fiscali positive (e una tantum) per 177 milioni. Il vistoso peggioramento rispetto al 2014, che si era chiuso con 24 milioni di profitti, è dovuto in parte (271 milioni) alle rettifiche sui valori di alcune attività in bilancio. Per esempio, la quota di controllo nella Cassa di Orvieto e una rete di filiali comprate a peso d’oro alcuni anni fa e oggi molto svalutate alla luce di una situazione di mercato ben più complicata. Grandi pulizie anche nel portafoglio crediti. Rispetto al 2014, gli accantonamenti sui prestiti a rischio sono più che raddoppiati, arrivando a 246 milioni. A Bari sostengono che la cura da cavallo ha già dato i primi effetti e segnalano, senza però fornire cifre precise, che i risultati dei primi mesi dell’anno si sono fin qui rivelati migliori rispetto alle attese. La salita più difficile, però, deve ancora cominciare. Nel 2014 la Popolare pugliese è sbarcata in Abruzzo per scongiurare il crac di Banca Tercas, sede a Teramo, distrutta da anni di gestione dissennata. Il salvataggio è stato finanziato in parte dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) che ha corretto in corsa il suo intervento (265 milioni di contributi) dopo lo stop della Commissione europea per un presunto aiuto di Stato. L’istituto guidato da Jacobini ha fin qui investito circa 325 milioni nell’operazione Tercas, che però viaggia ancora a rilento. L’anno scorso il bilancio si è chiuso in utile per 10 milioni solo grazie a 56 milioni di benefici fiscali straordinari.
La strada verso il rilancio è quindi ancora lunga, ma intanto la Popolare pugliese è attesa al varco della trasformazione in società per azioni. Il decreto del governo che obbliga le 10 maggiori banche cooperative a diventare Spa, risale all’inverno del 2015. A Bari però se la sono presa comoda e l’assemblea per deliberare il cambio di statuto andrà in scena non prima del prossimo ottobre. Dopo di allora, sulla carta, tutto è possibile. Perfino che una cordata di nuovi soci prenda il controllo del gruppo. Al momento, per la verità, il ribaltone appare piuttosto improbabile. Il presidente Marco Jacobini guida un consiglio di fedelissimi e si è già assicurato la successione con la nomina dei suoi due figli: Gianluca (39 anni) è stato da poco nominato condirettore generale e suo fratello Luigi, invece, è vicedirettore generale.
Tutto in famiglia, insomma, per un assetto di vertice che non ha eguali nel variegato universo del credito. Nel 2015 è stato promosso amministratore delegato un manager esperto come Giorgio Papa, 60 anni, una carriera con incarichi importanti nel gruppo Banco Popolare e anche in Finlombarda, la holding controllata dalla regione Lombardia. Una nomina politica, quest’ultima, decisa dalla giunta di centrodestra nell’era di Roberto Formigoni. Papa ha preso il posto di Vincenzo De Bustis, un banchiere di lungo corso,partito dalla Puglia (Banca del Salento) per approdare nel 2000 al vertice del Monte Paschi di Siena con la benedizione dell’allora potentissimo Massimo D’Alema. De Bustis, insediatosi nel 2011, ha dato le dimissioni ad aprile 2015 ed è stato liquidato con una buonuscita («incentivo all’esodo», si legge nelle carte) di 975 mila euro.?D’altra parte, nell’anno nero della Popolare di Bari, tutti i manager di punta hanno visto aumentare il loro stipendio, a cominciare dal presidente Marco Jacobini, che ha guadagnato 700 mila euro, 50 mila in più del 2014. Busta paga più pesante anche per i figli del presidente: il condirettore generale Gianluca ha guadagnato 453 mila euro contro i 354 mila del 2014, mentre il fratello Luigi è arrivato a 410 mila euro, con un aumento di oltre 50 mila euro rispetto all’anno prima. I manager, insomma, non possono lamentarsi: compensi più alti per tutti. I soci, invece, forse la pensano diversamente. Le loro azioni ora valgono il 20 per cento in meno e con l’aria che tira il futuro pare quanto mai incerto.