
Alcuni di questi mali sono tipici della Spagna, un Paese che torna a votare il 10 novembre per la quarta volta in quattro anni, la seconda nel 2019, con due legislature durate appena pochi mesi, ma anche con una crescita economica che da tempo è stabilmente sopra il due per cento, con un altissimo tasso di disoccupazione e di povertà. Altri, invece, incrociano l’Italia. Non di una democrazia degli idioti, in realtà, parliamo a proposito della crisi italiana, ma di democrazia dei vuoti. È il filo che tiene insieme gli eventi della settimana che si chiude, alcuni di effetto nullo ma di significato storico. Di un tramonto, più che di un’alba nuova.
Il voto della Camera di martedì 8 ottobre che ha approvato definitivamente il taglio dei parlamentari, salvo sorprese e un eventuale referendum, portando il Parlamento a seicento seggi (400 deputati, 200 senatori), è solo l’ultimo capitolo di un lungo processo. Il Movimento 5 Stelle ha festeggiato il sì dell’aula di Montecitorio con una manifestazione in piazza, con un forbicione a tagliare le poltrone sullo striscione. Come se i 345 eliminati fossero occupanti illegittimi, mangiatori di denaro pubblico, spreconi da eliminare.
Nulla è stato invece detto su chi resta: i seicento salvati dalla mannaia della riforma. Non c’è nessuna garanzia che saranno più forti, più autorevoli, più necessari per i cittadini che andranno a eleggerli nelle prossime consultazioni politiche, e non ci può essere perché non è questo il fine di chi ha esultato per la riduzione. Non si pensa a un Parlamento più prestigioso, ma a Camere mutilate di un pezzo senza guadagnare nulla da un’altra parte, l’anticamera di future campagne anti-parlamentariste. In dibattito arriverà a breve la riforma elettorale, la condizione che il Pd ha posto a M5S per abbandonare il no al taglio dei parlamentari e spostarsi sul sì dopo tre voti contrari, a dimostrazione che i sì e i no non sono questioni di principio (Stefano Ceccanti, deputato del Pd e costituzionalista, ha citato nel suo intervento in aula Groucho Marx: «Abbiamo i nostri principi, ma se volete li possiamo cambiare»). Ma con varie gradazioni e livelli, in nessuno dei testi proposti nell’ultima legislatura, dall’Italicum al Rosatellum passando per un sistema tedesco che tedesco non era e che alla Camera non superò la prova del primo voto segreto, era affermato il principio che la scelta dei parlamentari sarebbe tornata ai cittadini e non ai capi-partito. Non il vecchio e famigerato voto di preferenza, ma uno strumento che restituisse ai parlamentari superstiti il contatto con la realtà.
Ancora una volta, dunque, si punta sul vuoto, che è così raggelante ma anche così rassicurante. Le riforme sul federalismo del 2001 o quella del Senato del 2015-2016 che voleva Matteo Renzi sono fallite o sono state rigettate dagli elettori perché non miravano a un rafforzamento del sistema in tutte le sue componenti, ma al suo indebolimento per favorire di volta in volta uno dei promotori del cambiamento. Poi è arrivato Davide Casaleggio, sulle orme del padre, che di tutti i riformatori del vuoto è il più esplicito: «Oggi grazie alla rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile», ha detto un anno fa, prevedendo che al Parlamento sarebbe rimasto «il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti». E avvertiva: «Tra qualche lustro è possibile che non sia più necessario nemmeno in questa forma».

I suoi parlamentari, in buona parte, si sono molto impegnati molto a realizzare questa profezia. Ma a votare, gioiosamente o meno, per certificare la loro inutilità o irrilevanza sono stati nell’ultima votazione i deputati di tutti i gruppi, con l’eccezione di +Europa: il Pd e Forza Italia, la Lega e Liberi e Uguali, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e Italia Viva di Matteo Renzi. Tagliare una parte per non cambiare il resto, un tripudio di gattopardismo riverniciato da cambiamento. Una strategia degli scafisti, buttare una parte dei migranti in mare per alleggerire lo scafo o intralciare le operazioni di soccorso, trasferita nelle aule parlamentari. Cui hanno aderito, per ragion di partito e di sopravvivenza, quelle forze politiche che hanno fatto della difesa della democrazia parlamentare e del primato della politica il loro tratto costitutivo.
È da decenni che si procede così. Il vuoto del Parlamento, trattato come una trave polverosa invasa dalle termiti, richiama il vuoto del potere, emerso nella sua gravità con un governo che ha alle spalle soltanto un mese di vita.
Le difficoltà sulla manovra economica, con poche risorse per misure che cambino nel concreto la vita dei cittadini e molte mancate risposte, sull’ambiente, sulle disuguaglianze: ne parlano sull'Espresso Gloria Riva, che anticipa il rapporto di Legambiente sulla legge di bilancio, Fabrizio Barca, Federica Bianchi, con un servizio sulle difficoltà della ricca Lombardia nella stagione del crollo dell’export, e Giuseppe De Marzo, che invita a partecipare alla giornata del 17 ottobre di mobilitazione per l’eliminazione della povertà. Negli stessi giorni l’intreccio del Russiagate americano con la bassa cucina domestica, il complicato caso del professore maltese John Mifsud, legato agli inglesi, docente alla Link Campus university presieduta dall’inaffondabile Vincenzo Scotti che era già ministro quarant’anni fa, conferma la debolezza, la fragilità del premier in carica, l’avvocato-professore Giuseppe Conte, pronto a mettersi disposizione nei confronti degli Usa, anche se non si è ancora capito bene per fare che cosa.
Da giorni, mentre l’esercito della Turchia entrava in Siria e in Germania tornava il terrorismo anti-ebraico nel giorno dello Yom Kippur, mentre il quotidiano cattolico Avvenire denunciava la presenza in Italia dei più efferati trafficanti di uomini libici mentre si criminalizzavano le Ong nel Mediterraneo, la nostra intelligence è stata strattonata di qua e di là, pro o contro il presidente Donald Trump, pro o contro i democratici americani, pro o contro gli ultimi presidenti del Consiglio italiani. Specializzato in equilibrismi, il premier Conte ha provato ad accontentare i desideri dell’amministrazione Trump cercando al tempo stesso di non passare per un governante che in cambio dell’appoggio dell’inquilino della Casa Bianca cede sugli interessi nazionali, con la pericolosa evocazione di Sigonella, il no di Craxi a Ronald Reagan che secondo alcuni costò al leader socialista l’inchiesta di Mani Pulite anni dopo.
Quello che resta in una vicenda ancora tutta da chiarire è una sensazione desolante: capi dei servizi in rivalità tra di loro, l’università dell’intelligence, una parola che suona meglio di spioni, la sovranità del paese che è sempre stata limitata, dal 1945 ancora di più, ma che ha sempre potuto contare su classi dirigenti creative, che nei confini dati dalla storia e soprattutto dalla geografia nel cuore del Mediterraneo, in mezzo alle due frontiere tra l’Est e l’Ovest e tra il Nord e il Sud, si industriavano per utilizzare tutti i margini di movimento di cui potevano disporre. E spesso non finiva bene, come sembrano dimostrare le stragi impunite degli anni Settanta o l’eliminazione violenta di Aldo Moro.
Oggi è più farsa che dramma. I capi delle potenze mondiali dispongono della nostra sovranità, a metterla in vetrina sono stati i sovranisti. Trump gioca con “Giuseppi” Conte, l’ex avvocato-del-popolo, poi riformatore del paese, oggi in bilico forse per le troppe promesse da onorare. Putin pesa come un fantasma sul destino del principale oppositore del governo Conte 2, il leader leghista Matteo Salvini.
Festeggiamo in questi giorni, si fa per dire, un anno dalla visita dell’allora ministro dell’Interno della maggioranza gialloverde a Mosca, per presenziare all’ormai noto meeting di Confindustria Russia in cui Salvini ebbe a dire di trovarsi al sicuro sotto l’ombrello protettivo di Mosca piuttosto che nelle capitali dell’Europa occidentale, l’opposto di quanto affermato da Enrico Berlinguer nel 1976. La mattina dopo lo sherpa salviniano Gianluca Savoini si mise incautamente a trattare con una delegazione russa le cifre e le modalità di elargizione di un contributo milionario per la campagna della Lega alle elezioni europee del maggio 2019, per costruire una nuova Italia e una nuova Europa. Qui all’Espresso abbiamo seguito passo passo quel viaggio e quella vicenda con i nostri cronisti Giovanni Tizian e Stefano Vergine e in questo numero facciamo un nuovo passo in avanti, con l’inchiesta di copertina di Paolo Biondani che svela inquietanti punti di contatto tra due operazioni in apparenza lontanissime, il Russiagate della Lega e lo scandalo Eni che coinvolge un manager importante di una società-chiave del colosso petrolifero italiano a partecipazione pubblica. Che è al centro di un’altra indagine giudiziaria, a Milano. Dove ricompaiono lo stesso manager, la stessa società dell’Eni e lo stesso schema che fa da sfondo alla trattativa tentata dal leghista Savoini.
Trump e Putin, visti dall’Italia, appaiono come dei dell’Olimpo che giocano con i poveri mortali che occupano di volta in volta Palazzo Chigi o il Viminale, la posizione di capo del governo o dell’opposizione. Ma sono, ancora una volta, pure immagini del vuoto in cui si muove la nuova maggioranza Pd- Movimento 5 Stelle, con l’aggiunta di Renzi.
La settimana che si apre vedrà lo scontro televisivo tra i due Mattei, Renzi e Salvini, nello studio di Bruno Vespa. E poi il gran finale nelle piazze, in piazza San Giovanni a Roma il Capitano leghista, nella Mecca del renzismo, la stazione Leopolda di Firenze, l’ex premier con il suo nuovo partito. In competizione, in gara, in conflitto tra di loro, eppure pronti a scambiarsi i ruoli, con l’obiettivo di tornare a scontrarsi in futuro, nelle urne, quando saranno usciti di scena quelli che i due Mattei considerano semplici comprimari, a partire dall’attuale presidente del Consiglio.
La scena è perciò in apparenza ben occupata da leader, ex leader, aspiranti leader, capi e capetti, truppe in movimento, auto-candidati al Quirinale, spin doctor, social manager (c’è l’inchiesta di Mauro Munafò e Susanna Turco sull'Espresso di questa settimana), intellettuali organici, mediatori d’affari, vecchie volpi e nuovi cortigiani. Ma restituisce, nel complesso, lo spettacolo di un palcoscenico vuoto. Di un paese che parla d’altro. La democrazia dei vuoti.