Inchiesta

Vaticano, «I milioni per i poveri in paesi offshore e per operazioni di dubbia eticità»

di Emiliano Fittipaldi   17 ottobre 2019

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Secondo i pm della Santa Sede i fondi extrabilancio dell'Obolo di San Pietro, pari a circa 650 milioni di euro, sarebbero gestiti dalla Segreteria di Stato per business opachi. Le intercettazioni di monsignor Carlino con manager italiani e tutti i particolari dell'inchiesta choc

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Papa Francesco è stato durissimo. «L’illecita diffusione del documento» con cui l’Espresso ha dato conto dell’inchiesta della magistratura vaticana su operazioni immobiliari effettuate dalla Segreteria di Stato, «è paragonabile a un peccato mortale». E così all’inferno - prima ancora che l’indagine bis sulla fuga di notizie cominciasse davvero - ci è finito il comandante della Gendarmeria Domenico Giani. Anche se del tutto estraneo al “leak”, qualche giorno fa il superpoliziotto è stato costretto a dimettersi e lasciare l’ufficio che guidava da tredici anni.

Ora l’Espresso ha ottenuto una nuova documentazione riservata del Vaticano. Che dimostra come i peccati commessi siano assai più gravi di quelli dei whistleblower e che i peccatori - al netto della rilevanza penale ancora tutta da dimostrare - vadano cercati ai piani alti dei sacri palazzi.

Le carte analizzate sono tante. C’è la denuncia del Revisore generale e le accuse arrivate dallo Ior. Report riservati dell’affare immobiliare da 200 milioni di dollari per l’acquisto di un palazzo da 17 mila metri quadri a Londra. E soprattutto le 16 pagine integrali del decreto di perquisizione del Promotore di giustizia con cui sono stati indagati dipendenti della Segreteria di Stato e pezzi da novanta come don Mauro Carlino (l’ex segretario del cardinale Angelo Becciu) e il direttore dell’Autorità di informazione finanziaria Tommaso Di Ruzza, che mostrano come la Santa Sede si trovi di fronte a uno scandalo che ha pochi precedenti nella storia recente. E che potrebbe portare a una drammatica crisi di sistema.

Lo tsunami è devastante. I pm del papa Gian Piero Milano e Alessandro Diddi ritengono aver individuato «gravi indizi di peculato, truffa, abuso d’ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio» in merito a comportamenti di ecclesiastici e laici influenti, mentre un’altra relazione del Revisore ipotizza «gravissimi reati quali l’appropriazione indebita, la corruzione e il favoreggiamento». I business finiti nella lente degli investigatori riguardano non solo l’era di Angelo Becciu alla Segreteria di Stato, ma pure quella del nuovo Sostituto agli Affari Generali, l’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra, fedelissimo di Francesco nominato appena un anno fa.

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L’inchiesta - in cui vengono citati finanzieri d’assalto come Raffaele Mincione e broker meno conosciuti come Gianluigi Torzi - rivela inoltre che la Segreteria di Stato nell’anno di grazia 2019 possieda e gestisca fondi extrabilancio per la bellezza di 650 milioni di euro, «derivanti in massima parte dalle donazioni ricevute dal Santo Padre per opere di carità e per il sostentamento della Curia Romana». Si tratta dell’Obolo di San Pietro, che dovrebbe essere destinato ai poveri e ai bisognosi e che invece il Vaticano investe in spericolate operazioni speculative. Con l’aiuto, in primis, di Credit Suisse, «nelle cui filiali svizzere e italiane risulta versato circa il 77 per cento del patrimonio gestito». Circa «500 milioni di euro», segnala l’Ufficio del Revisore Generale, finiti in operazioni finanziarie che a parere dei magistrati mostrano «vistose irregolarità», oltre ad aprire «scenari inquietanti».

Non è tutto. Altri documenti riservati evidenziano come l’investigazione, partita il 2 luglio grazie a una denuncia del direttore generale dello Ior Gian Franco Mammì, sia probabilmente meno accurata di quanto papa Bergoglio - che l’ha autorizzata con un rescritto il 5 luglio - credesse.
Domenico Giani

Studiando le carte e la scansione temporale degli eventi, è evidente che l’inchiesta possa essere usata per sostenere gli interessi particolari delle tante fazioni che si combattono in Vaticano. Un fuoco incrociato che ha coinvolto persino l’Aif, l’organismo antiriciclaggio voluto da Benedetto XVI, il cui direttore Di Ruzza è stato perquisito e sospeso perché sospettato, si legge nelle accuse degli inquirenti, «di aver trascurato le anomalie dell’operazione» londinese e di aver addirittura favorito «in qualità di intermediario finanziario» il manager Torzi.
«Di Ruzza con c’entra nulla in realtà. Così si indebolisce l’Aif, se ne metta in pericolo l’indipendenza con ripercussioni pesanti all’estero» chiosano autorevoli collaboratori del pontefice. «Lo scandalo finanziario è grave, ma non si faccia una caccia alle streghe, sennò precipiteremo tutti nel caos».

IL PALAZZO D’ORO
Partiamo dall’inizio della storia. Dall’ottobre 2012, quando Raffaele Mincione, un finanziere italiano ormai assai noto per aver tentato la scalata alla Popolare di Milano e a Banca Carige, viene contattato da un ex manager di Mediobanca, Ivan Simetovic. «Ivan lo conoscevo da tempo. Mi mise in contatto con Enrico Crasso, allora dirigente di Credit Suisse», spiega all’Espresso Mincione. «Incontrai Crasso nel suo ufficio e mi spiegò che loro gestivano parte importante del patrimonio del Vaticano. Mi chiesero se volevo fare l’advisor per un investimento da 200 milioni di dollari per un’operazione petrolifera in Angola». L’idea della segreteria di Stato, allora guidata dal cardinale Tarcisio Bertone e dal sostituto Becciu (che è stato nunzio in Angola dal 2001 al 2009) era quella di investire in una piattaforma petrolifera al largo delle coste del paese africano. Un business in cui erano già coinvolti l’Eni, la società statale Sonangol (con il 40 per cento a testa) e la Falcon Oil. Una società del finanziere africano Antonio Mosquito. È con lui, mr. Mosquito, che il Vaticano vuole fare l’affare. È a lui che vogliono girare - come evidenziano alcuni documenti riservati della Segretaria di Stato - ben 250 milioni di dollari per comprarsi il 5 per cento delle quote del consorzio.
Raffaele Mincione

Gli uomini di Mincione (che spiegano di non aver mai girato soldi, o meglio“fees”, a Crasso, ma solo a Simetovic per la mediazione iniziale; per la consulenza il Vaticano pagherà Mincione circa 500 mila euro) ci lavorano per oltre un anno. Alla fine, però, il finanziere segnala ai clienti di Credit Suisse che l’investimento sarebbe del tutto «antieconomico», che Mosquito non è affatto solido finanziariamente (era stata assoldata una società d’investigazione finanziaria) e che i denari d’Oltretevere sarebbero stati bruciati in un amen.

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Il Vaticano, dopo più di un tentennamento, decide così - siamo ormai nel 2014 - di rinunciare alla piattaforma petrolifera in mezzo all’Atlantico. È allora che Mincione, dismessi i panni dell’advisor, propone al governo della Santa Sede di investire gli stessi denari (che in euro valevano a tassi di cambio 130-140 milioni in una Sicav in Lussemburgo gestita dalla sua holding WRM). Discute dell’operazione con monsignor Alberto Perlasca, citato nelle carte dell’accusa come frequentatore di Mincione ma ad ora non indagato, e il funzionario della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, considerato dai pm «personaggio centrale nell’operazione londinese descritta» e «titolare di un conto Ior mai movimentato». L’obiettivo finale è quello di vendere al Vaticano il 45 per cento di un palazzo al centro di Londra, al 60 di Sloane Avenue, che lui aveva comprato due anni prima per dare il via a una grande speculazione immobiliare.

Il Real Estate è sicuramente più stabile del prezzo volatile del greggio. E l’affare va in porto. La speranza degli strani soci in affari, i cardinali da una parte e il raider che ha battezzato il suo yacht “Bottadiculo” dall’altra, è quella di aumentare tanto e presto l’investimento grazie alla trasformazione del palazzo del 1911 (un ex deposito di Harrods di 17 mila metri quadri) da commerciale a residenziale. Ristrutturarlo, costruire una cinquantina di appartamenti di lusso, venderli e raddoppiare il capitale investito.

Con il passare dei mesi, però, i rapporti tra le parti peggiorano. Quando il Vaticano si accorge che i costi di gestione dei fondi lussemburghesi sarebbero troppo alti, Mincione fa notare - in un report - che non sarebbe lui a lucrare, ma che sarebbe la banca svizzera a prendere, tra commissioni e fees per la gestione di tutti i fondi del Vaticano, un tasso altissimo superiore all’8 per cento. Gli extracosti, di fatto, sarebbero a monte.
Pena Parra

La tensione tocca il suo apice nell’estate del 2018: dopo quattro anni il palazzo non rende affatto quanto sperato e la gestione di Mincione è considerata troppo dispendiosa. Quando Peña Parra sostituisce Becciu come Sostituto agli Affari generali della Segretaria, scatta il panico. Il prelato decide di uscire dal fondo lussemburghese di Mincione, l’Athena Capital Global, il più rapidamente possibile. Ma per farlo e non realizzare la perdita decide, a sorpresa, di comprare tutto il fabbricato.

Mincione vende la sua parte, il 55 per cento, con una transazione firmata da monsignor Perlasca il 22 novembre 2018: alla fine il guadagno per il finanziere, tra acquisto nel 2012 e vendita sei anni dopo, è di 130 milioni di sterline secche. «Io non sarei mai voluto uscire, me l’hanno chiesto loro. E l’operazione resta ottima: basta si muovano a ristrutturare e vendere gli appartamenti», chiosa.

IL FINANZIERE MISTERIOSO
Torniamo alle carte dei magistrati di Francesco. Si legge che l’inchiesta penale scatta il 4 giugno 2019. Quando Peña Parra chiede allo Ior, attraverso una lettera al presidente dello Ior Jean Baptiste De Franssu, «di poter disporre, con carattere di urgenza, di liquidità per 150 milioni di euro per non meglio precisate “ragioni istituzionali”», scrivono Milano e Diddi. Il direttore della banca, Mammì, si allarma per la richiesta insolita e risponde picche. Non dà un centesimo e comincia una sua istruttoria. Se il papa si fida ciecamente del direttore generale, i nemici di Mammì malignano oggi che il banchiere di Dio avrebbe solo preso al volo l’occasione per incamerare nello Ior i fondi dell’Obolo, da sempre appannaggio della segreteria di Stato. «Certamente ha detto no a Peña Parra perché non voleva perdere nemmeno un euro dei denari dei conti della sua banca, che ha chiuso il bilancio con un utile dimezzato rispetto al 2018», ci dice velenoso un cardinale influente.

Mammì, chiariscono invece i suoi collaboratori, vuole vederci chiaro. Capisce presto, dunque, che i 150 milioni servono ad estinguere il mutuo che pesava sull’immobile del quartiere di Chelsea, acceso da Mincione attraverso due società lussemburghesi controllate dal colosso britannico Cheyne Capital.

È lo Ior, dunque, che fa scattare la prima denuncia al Promotore di Giustizia il 2 luglio. Il 5 luglio il papa dà il via libera all’inchiesta penale. A ruota segue l’intervento del Revisore Generale Alessandro Cassinis Righini, che in agosto manda ai promotori «nell’esercizio delle proprie prerogative, ed in via del tutto autonoma» una relazione-denuncia sul business milionario londinese.

I pm e la gendarmeria portano avanti le indagini a ritmo serrato (qualcuno dice troppo per analisi complesse) e scoprono quello che molti in Vaticano già sapevano da tempo. Cioè che, uscito di scena Mincione, la segreteria di Stato non si è ripresa il controllo del palazzo, ma s’è affidata a un altro finanziere d’assalto con base a Londra: Gianluigi Torzi.

Un raider tempo fa accusato di aver cambiato le serrature di un cancello di una proprietà immobiliare, impedendo l’accesso alle legittime proprietarie di un immobile vicino la sua villa al mare. E finito lo scorso luglio, ha raccontato il Fatto, nelle liste nere del database WordCheck, «per diverse indagini a suo carico avviate dalla procura di Roma e Larino (per la vicenda della villa, ndr) per reati di falsa fatturazione e truffa».
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Ebbene, gli uomini della segreteria di Stato decidono che Torzi è l’uomo giusto. Come risulta all’Espresso da atti riservati, a fine 2018 l’immobile non è stato rilevato con società riferibili direttamente al Vaticano o all’Apsa, l’amministrazione che per statuto gestisce il patrimonio immobiliare della Santa Sede. Ma è stato acquisito attraverso la Gutt Sa, una società del Lussemburgo «rappresentata» si legge nell’atto transattivo tra Segreteria di Stato e Mincione «dal signor Gianluigi Torzi».

La Gutt, scrivono poi i pm nel decreto di perquisizione, sarebbe la «società che ha svolto la funzione di soggetto intestatario fittizio» delle altre società, quasi tutte in nel paradiso fiscale dell’isola di Jersey, che attraverso scatole cinesi «posseggono l’immobile londinese».

Ma come mai il Vaticano «ha finanziato» Torzi, come si legge nell’accordo transattivo firmato da monsignor Perlasca in persona e benedetto da Peña Parra, e usato la sua Gutt schermandosi dietro di lei? Perché gli ha dato dal 3 dicembre 2018 in gestione il palazzo appena comprato, tanto da essere pure «pienamente autorizzato a negoziare il presente accordo quadro e qualsiasi altro documento necessario ai fini della transazione» con Mincione?
Giovanni Angelo Becciu

Torzi è un uomo vicinissimo al finanziere di WRM, come pensa qualche investigatore in Vaticano, oppure è entrato nel business grazie ad entrature Oltretevere, come quella con il misterioso architetto Luciano Capaldo? Quest’ultimo, secondo le accuse, «sembrerebbe aver avuto un ruolo fondamentale nell’intera operazione». Non solo perché componente del board della società inglese London 60 Limited (insieme ai monsignori Carlino e Josep Lluis Serrano Pentinat) creata dalla Segreteria nel marzo del 2019 per prendersi finalmente – come vedremo – le quote della Gutt, ma perché secondo i magistrati Milano e Diddi «risulta socio di riferimento unitamente al signor Torzi della Odikon Service e della Sunset Enterprice». Due società su cui indagano i pm, che nel 2017 e nel 2018 avrebbero ricevuto 7,6 milioni di euro per aver «offerto assistenza finanziaria all’Ospedale Fatebenefratelli (applicando commissioni monstre del 20 per cento, ndr) per la cartolarizzazione dei crediti nei confronti della Regione Lazio».

L’affaire con il nosocomio cattolico non è comunque nel fuoco investigativo. Lo sono, invece, le attività di Vincenzo Mauriello, minutante della Prima Sezione dell’Ufficio guidato dal cardinale Parolin, e soprattutto quelle di monsignor Carlino, che è stato intercettato per settimane, a partire dal settembre 2019. Ex segretario di Becciu, dalla scorsa estate promosso capo dell’Ufficio informazione e documentazione della Segreteria di Stato, secondo le carte dell’accusa Carlino si muove «con particolare disinvoltura nelle alte sfere della gerarchia dello Stato», in una «incessante attività dallo stesso posta in essere con personaggi del mondo della finanza per realizzare nuove iniziative di tipo imprenditoriale». Il 2 settembre il monsignore in effetti incontra il presidente della Snam Luca Del Fabbro, con cui «tratta di nuove operazioni che si dovrebbero realizzare con un certo Casiraghi e con la moglie di Raffaele Mincione... con tale Preziosi di Genova (verosimilmente Enrico Preziosi imprenditore di riferimento della Giochi Preziosi)». Certamente don Carlino è considerato uno degli assoluti protagonisti della storiaccia del palazzo londinese. (Qui la replica della moglie di Raffaele Mincione)

LA GUERRA DELL’AIF
Ma le carte segnalano che persino l’Aif avrebbe svolto «un ruolo non chiaro» nella vicenda. L’organismo presieduto da René Bruelhart avrebbe infatti «trascurato» le anomalie dell’operazione immobiliare e il direttore Di Ruzza avrebbe «intrattenuto una corrispondenza con lo studio inglese Mischon De Reya (i legali chiamati dalla Segretaria di Stato per seguire la famosa transazione con Mincione e Torzi, ndr) con la quale l’Aif sembrerebbe aver dato il via libera all’operazione di acquisto». Non solo: Di Ruzza avrebbe pure «confezionato e sottoscritto su carta intestata una lettera di “delega ad operare” a favore di Gianluigi Torzi in qualità di intermediario finanziario. In tal modo dando il proprio avallo all’operazione dai contorni opachi».

Un’accusa grave che ha portato una perquisizione dell’ufficio del direttore, la sua sospensione dal servizio e il sequestro di documenti secretati dell’Aif.
Papa Francesco

Ora risulta all’Espresso che ci siano però altre evidenze non citate dai magistrati. Se è vero che Torzi ha avuto dalla Segreteria di Stato, per cedere al Vaticano il patrimonio della sua Gutt e il controllo del palazzo londinese che aveva ottenuto per motivi inspiegabili a fine 2018, una commissione da ben 10 milioni di euro, è pur vero che gli uomini di Peña Parra avevano sottoscritto a favore del finanziere vincoli contrattuali stringenti, per di più sotto una giurisdizione estera.

«Il Sostituto», spiegano oggi dalla Segretaria di Stato, «lo scorso marzo si accorge che Torzi, scelto da lui, Perlasca e gli altri laici pochi mesi prima, fa di fatto il padrone a casa loro. E che liberarsene d’emblée non sarà affatto semplice». Il rischio è quello di dover sborsare una buonuscita assai più onerosa di quella alla fine concessa: inizialmente le richieste di Torzi per far uscire la sua Gutt dalla gestione del palazzo, raccontano in Vaticano, sarebbero infatti esorbitanti.

Per risolvere il pasticcio, così, Peña Parra a marzo corre proprio negli uffici dell’Aif per fare una segnalazione ufficiale sui dissidi con Torzi e l’affare londinese. Il direttore, risulta all’Espresso, avverte subito le autorità antiriciclaggio inglesi e lussemburghesi e ad aprile invia due lettere ai legali britannici del governo vaticano che stanno trattando con gli avvocati di Torzi. Nella prima chiarisce che l’Aif, nella vecchia transazione a favore della Gutt, aveva individuato una serie di irregolarità, e aveva suggerito di bloccare l’operazione, annunciando infine di aver aperto un’indagine antiriciclaggio chiedendo cooperazione ai colleghi d’Oltremanica.

Non sappiamo se Torzi, venuto a conoscenza della mossa dell’Aif, abbia deciso così di convenire a un nuovo accordo e accettato la somma (comunque enorme) che gli era dovuta da contratto per uscire dall’affare. È sicuro però che nella seconda lettera Di Ruzza non autorizza alcuna fee - come invece sembrano sospettare Mammì, il Revisore generale e i pm - ma spiega solo che, nel caso il patrimonio della Gutt fosse tornato gratis a una società del Vaticano, e Torzi avesse lasciato la proprietà e il controllo dell’immobile in via definitiva, le parcelle a suo favore già previste dai contratti di fine 2018 (quando nessuno sapeva nulla di quanto stava accadendo nella Segreteria di Stato) sarebbero potute essere pagate. Concludendo con la notizia che l’indagine finanziaria sarebbe comunque proseguita: la speranza degli investigatori dell’Aif era quella di tracciare il flusso dei soldi con la collaborazione delle Uif estere, per capire se parte dei 10 milioni dati a Torzi sarebbero rimasti sui conti del finanziere. O movimentati a favore di qualcun altro dentro il Vaticano. Paradossalmente l’inchiesta sugli investigatori dell’Aif ha per ora bloccato il lavoro dell’intelligence dell’autorità.

Ad oggi non sappiamo se i gendarmi, da pochi giorni guidati dal nuovo comandante Gianluca Gauzzi Broccoletti, abbiano trovato nuovi elementi corruttivi che inchiodino gli indagati o altri personaggi rimasti nell’ombra. Sappiamo con certezza che l’inchiesta dimostra come centinaia di milioni di euro destinati agli ultimi e ai poveri vengono ancora gestiti con opacità e nessuna trasparenza, come se il Vaticano fosse una merchant bank di un Paese offshore. Ed evidenzia come carte giudiziarie rischino di essere usate per regolamenti di conti tra le sacre mura. Per Francesco non sarà facile, davanti al nuovo scandalo, districarsi tra nemici veri, falsi amici, buoni suggeritori e cattivi consiglieri.

AGGIORNAMENTO 30 OTTOBRE La replica di Maddalena Paggi Mincione