Attualità
ottobre, 2019

Aggressione fascista ai giornalisti Espresso, la stampa compatta con Marconi e Marchetti

La seconda udienza del processo per i fatti del sette gennaio scorso vede la partecipazione come parti civili dei principali organi della categoria. Mentre in Aula i cronisti raccontano i dettagli dell'aggressione

Seconda udienza contro i due neofascisti accusati dell’aggressione del giornalista dell’Espresso, Federico Marconi, e del fotografo Paolo Marchetti il 7 gennaio scorso durante la celebrazione neofascista all’interno del cimitero del Verano a Roma. Durante l’ultima udienza del processo in corso al tribunale di Roma contro i leader neri Giuliano Castellino, Forza Nuova, e a Vincenzo Nardulli, Avanguardia Nazionale, hanno preso la parola i giornalisti. C’erano loro sul banco dei testimoni. Marconi ha parlato per primo: «L’aggressione mi ha segnato profondamente. Ancora oggi fatico a prendere sonno. Ho temuto per la mia incolumità».

Federico Marconi è lucido nella testimonianza dei fatti del Verano. Il pubblico rumoreggia, qualcuno dei fan-camerati di Castellino e Nardulli definisce “politico” il processo, montato ad arte per colpire Forza Nuova, il partito di estrema destra fondato da Roberto Fiore, presente in aula e molto loquace con uno degli imputati durante una pausa del dibattimento. Anche Castellino, il capo romano del gruppo neofascista, arriva in aula. Manda baci al suo pubblico, alla sua compagna, e si fa sentire quando definisce i giornalisti “sbirri”. Piccolo show per mostrarsi ai suoi fedelissimi.

Cronaca
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Segnali di nervosismo prima delle testimonianze delle vittime. E non appena Marconi inizia il suo racconto si capisce perché Castellino si agitati e scalpiti. Presenti in aula anche Beppe Giulietti della Fnsi, Vittorio di Trapani dell'Usigrai, Elisa Mariconla di Articolo 21 e Marino Bisso della rete No bavaglio. Insomma, al fianco di Marconi e Marchetti c'è una categoria compatta. L'Espresso si è costituto parte civile, così come la federazione della stampa italiana e Ossigeno per l'informazione.

Il racconto di Marconi inizia dal principio di quella pomeriggio del 7 gennaio. «La cerimonia fascista al Verano è durata credo una decina di minuti e dopo c’è stato il presente (il saluto romano ai camerati uccisi ndr ). Io avevo iniziato a fare foto e video e dopo aver messo il cellulare in tasca mi hanno fermato. A quel punto c’era un signore che non so chi fosse. Mi intima di fargli vedere le foto. Mi teneva il braccio e non potevo muovermi. Ho provato a spiegargli che stavo solo lavorando. Lui intimava di cancellare tutto. E io non volevo farlo ma ho dovuto, avvertivi nitidamente il suo tono minaccioso. Ho dovuto cancellare alcuni scatti e video. A quel punto si presenta Vincenzo Nardulli. che sempre con tono minaccioso mi chiede chi sono e che ci faccio li. Non ho detto subito chi fossi per paura, sapevo che l’Espresso non era un giornale amato nel mondo neofascista, che qualche tempo prima avevano pure fatto un raid sotto la nostra redazione. Nardulli a un certo punto urla: “Voi non sapete chi siamo noi” e mette la mano nella tasca del giubbotto e tira fuori quello che avevo: chiavi, cose varie. Io tiro fuori il cellulare e lui lo prende dalla mani. Nel frattempo sento in lontananza la voce di Paolo Marchetti, il fotografo. Ho sentito solo “sono un giornalista dell'Espresso, lasciatemi stare”. Subito dopo mi trascinano sul vialetto prendendomi dalla sciarpa. Finché non arriva Castellino che urla: “L'Espresso è peggio delle guardie infami”. Arriva e mi prende con molta forza e mi strattona sul vialetto. Poi sento un calcio forte sul gluteo destro, non so da chi è partito. Loro avevano ancora il mio cellulare. Anche Castellino inizia a guardare le foto. A quel punto mi chiedono di identificarmi. Nonostante la paura gli ho dato la patente, perché non c’è l'indirizzo di casa. Solo che si indispettiscono e mi prendono il portafoglio con la carta identità dove c'è scritto l'indirizzo. Mentre ero circondato mi arriva uno schiaffo sulla tempia, quello è stato molto forte. Mi sono girato un attimo ma non ho visto da chi è partito, però c’erano due persone dietro di me. Uno tatuato in faccia».

L'accerchiamento ai danni di Marconi, le minacce, la violenza, non finiscono qui. «Tra queste foto c’era un parente di Castellino (stavamo facendo un lavoro sulla rete neofascista a Roma) e quando lui vede la foto diventa ancora più minaccioso. A quel punto capisco che sarebbe stato ancora più duro uscire da quella situazione. A un certo punto arrivano delle persone che chiedono il cellulare a Castellino. E mi chiedono di seguirli. Erano agenti delle forze dell'ordine. Le ho seguite e mi hanno fatto allontanare. Mi hanno ridato cellulare e tutto ciò che era mio. Mi hanno chiesto chi fossi. E poi mi hanno fatto uscire dal cimitero».

Terminate la domande del pm, l'avvocato che assiste Marconi e Marchetti chiede al primo se ha temuto per la propria vita. «Quando è successo pensavo che non sarei mai uscito dal Verano», racconta il giornalista, che aggiunge: «Ho vissuto momento di paura terribili, agghiaccianti. Temevo per la mia incolumità fisica. Nei giorni successivi, dopo essere stato anche in ospedale, ero terrorizzato. Dormivo poco pensando ai quei signori che avevano il mio indirizzo. Ero molto preoccupato. Tuttora porto le scorie di quella aggressione. Tuttora non vivo tranquillo. Non voglio più trovarmi in situazioni analoghe. Evito di fare alcune cose che magari prima facevo senza problemi».

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