Esperienza esistenziale, fatto politico e organizzazione paramilitare. La Resistenza si comprende solo tenendo unite le diverse istanze di chi ha combattuto. E prestando attenzione ai tentativi di denigrarla o semplificarla

Specie ai chiari di luna di quest’altra “notte della Repubblica” che è l’attualità, bisognerebbe avere sempre la pazienza di fare l’elenco delle cose dalle quali chi ha combattuto per la Liberazione ha voluto liberarsi. L’occupante nazista; la “repubblichina” di Benito Mussolini; lo sfruttamento del capitale; la disparità tra donne e uomini; il dominio coloniale dell’Italia…

È ormai un’acquisizione degli studi storici interpretare la Resistenza a questo modo, cioè scomponendola come attraverso un prisma, per scorgervi all’interno le diverse istanze di emancipazione che hanno dato forma a quell’unità di differenze in cui consiste il partigianato. Esperienza esistenziale, fatto imprescindibilmente politico e organizzazione paramilitare, la Resistenza non si capisce se non la si guarda nell’insieme di questi tre livelli. Nemmeno la si capisce se la si rimodella ogni volta all’uso e al consumo del momento, per quanto lo si faccia (talvolta) con le migliori intenzioni.

Ci sono, infatti, due modi di negare la Resistenza, speculari negli intenti, ma non dissimili negli esiti. Uno è l’aperta denigrazione, culto a cui un tempo si votavano i reduci alla Giorgio Pisanò, nel frattempo sdoganato a senso comune. Lo sdoganamento, beninteso, non va imputato solo agli scrittori di bestseller dal punto di vista dei vinti, che semmai l’hanno saputo captare e ne hanno profittato. Va invece ascritto ai cedimenti politici che si sono prodotti a partire dal passaggio di decennio Settanta-Ottanta (“L’aspra stagione” che dà il titolo al libro di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale) e poi con la crisi definitiva della “Prima Repubblica”.

Che cosa fa la vague dei denigratori? Descrive la guerra partigiana come un cumulo di crimini sanguinolenti e inspiegabili: il contrario di una liberazione. Così facendo, nega la dimensione esistenziale della Resistenza, ossia la sua moralità: l’aspirazione, cioè, a un’umanità opposta a quella dell’uomo fascista. Ma, a ben guardare, ne nega anche il valore militare, che era invece fin troppo noto ai nazifascisti (non stupiscano perciò le fantasticherie su via Rasella riciclate di fresco) e lodato dagli alleati. Lodato anche obtorto collo – va detto – perché da Londra e Washington non si vedeva propriamente di buon occhio il tipo di politicità che molte e molti di questi partigiani mettevano nell’agire.

L’altro modo di negare la Resistenza è quello elitista, di chi vede la Liberazione come appannaggio esclusivo di un’avanguardia in armi. Qui è invece la dimensione politica che rischia di finire offuscata: cioè il fatto che l’impresa della Resistenza non sarebbe stata tale senza il progetto di un nuovo Stato, che l’antifascismo politico era andato elaborando nei vent’anni della dittatura e nei venti mesi della Liberazione. Un progetto messo a punto sì da un’avanguardia, ma con una vocazione ugualitaria e universalistica.

Sarebbe comodo se il 25 aprile fosse il giorno a partire dal quale ci si può lasciare il passato alle spalle, perché tutto ricomincia da zero. Ma intendere così questa data significherebbe relegare la Resistenza fuori da una contemporaneità che invece ci appartiene, fosse anche solo perché dobbiamo ancora capirla fino in fondo. E l’oblio è l’inverso della comprensione.

 

*Quello di Luca Casarotti, presidente di Anpi Pavia Centro, è il quinto degli interventi sulle date fondanti della Repubblica affidati all’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. I precedenti su 12 dicembre, 27 gennaio, 10 febbraio e 8 marzo sono sono pubblicati qui. I prossimi saranno su 1° maggio, 2 giugno, 4 novembre.