Inchieste
13 novembre, 2019

«Noi, malati di tumore, perseguitati dalle aziende per cui lavoriamo»

Ilustrazione di Simone Rotella
Ilustrazione di Simone Rotella

Orari impossibili, mansioni punitive, privacy violata. Così le imprese tendono a sbarazzarsi dei dipendenti malati. E spesso ci riescono

Ilustrazione di Simone Rotella
Il cancro e il lavoro. Il male del secolo e l’umanità in azienda. Chi viene colpito da un tumore deve lottare spesso due volte: contro la peggiore delle malattie, e contro mobbing e cinismo sul posto di lavoro. Diventa un fardello, un intralcio al totem produttivo. Viene adibito a funzioni durissime, come se avesse ormai le ore contate, o destinato a compiti perfettamente inutili. E pensare che la cura di un paziente oncologico passa anche per il potere continuare a svolgere le normali attività di tutti i giorni. Comprese quelle lavorative.

C’è chi è costretto a licenziarsi, e c’è chi resiste, magari al prezzo d’aggravarsi di salute. Il cancro in età lavorativa è un problema che nel nostro paese coinvolge più di un milione di persone (dati dell’ associazione italiana registri tumori). L’ultima indagine Favo-Censis ci racconta che ben 274 mila connazionali sono stati licenziati o indotti alle dimissioni dopo una diagnosi tumorale. I casi sono a migliaia, ma restano per lo più sommersi. La stragrande maggioranza preferisce infatti non palesarsi: si vergogna di questo «cancro aggiuntivo» che divora le sue speranze. Qualche lavoratore ha però accettato di raccontarci la sua storia.

Gloria ha 45 anni e lavora nella grande distribuzione organizzata, come cassiera in un ipermercato. Passa le merci allo scanner dei prezzi. Ha avuto due tumori al seno, più una recidiva. In tutto tre operazioni, di quelle invasive. «Ho dovuto ricostruirmi entrambi i seni, e anche un braccio e un pezzo di schiena. Ma sulle prime l’azienda per cui lavoro non mi ha riconosciuto la malattia. Per loro, i miei erano interventi di chirurgia plastica. Roba estetica, insomma. Roba da pazzi». Poi ha inizio il carosello, o meglio, il «martirio invisibile» degli orari impossibili. «Ero appena uscita da un ciclo massiccio di chemio e radio. Avevo diritto a due ore al giorno di riposo, grazie alla legge 104. Ma la mia azienda ha cominciato a crearmi degli orari assurdi, concepiti apposta per portarmi al licenziamento. Invece di dividermi il monte-ore equamente, me ne mettevano poche un giorno e tante un altro. Non consentendomi così di fruire delle due ore quotidiane di riposo prescritte per legge».

In alcuni giorni Gloria riposa solo un’ora, in altri le canoniche due; ma nel frattempo il suo orario è stato allargato, alla chetichella, a dismisura. Adesso la donna lavora non più quattro, ma anche cinque o sei ore al dì. A un certo punto getta la spugna e si licenzia. «Certo, mi aiutava molto il fatto di uscire di casa, la ricerca di una parvenza di normalità… ma non ce la facevo più ad andare avanti a quelle condizioni. Con quei turni massacranti e schizofrenici. Alla quinta ora di fila, mi diventava tutto pesante e insostenibile. Con le operazioni che ho avuto io, poi, scansionare i prodotti a un ritmo vorticoso al codice a barre è una tortura medievale. Mi hanno costretta, di fatto, ad andarmene, a mettermi in malattia». Oggi Gloria è in cura dallo psicologo. A farle male, più della malattia, è stato il comportamento machiavellico del suo ex datore di lavoro.

Molti tengono segreta la malattia, temendo lo stigma aziendale. E c’è ancora chi si mette in ferie per effettuare gli esami e le cure di prassi. Eppure esiste tutta una serie di diritti conquistati nel corso del tempo. La leva su cui poggiano è quasi sempre la legge 104 del 1992, che tutela le persone disabili. I lavoratori malati di cancro possono essere equiparati ai portatori di handicap gravi, e in quanto tali lavorare nella sede più vicina al loro domicilio, svolgere mansioni adeguate alla loro capacità lavorativa (a parità di stipendio), essere esentati dai turni di notte e avere accesso al part-time durante i trattamenti. Sempre grazie alla 104, i malati oncologici fruiscono di permessi retribuiti, pari a due ore al giorno come abbiamo visto nel caso di Gloria o a tre giorni continuativi o frazionati.

C’è poi il cosiddetto «periodo di comporto», la cui durata varia a seconda del tipo di contratto collettivo nazionale di categoria. Nel corso di questa fase, il lavoratore (a cui verrà corrisposto un salario ridotto) è libero di assentarsi senza che l’azienda possa licenziarlo. Superato il tetto massimo consentito, è invece possibile cacciarlo anche se è ancora malato. Nel commercio e nei servizi, e nel settore privato, il periodo di comporto dura 180 giorni, diluiti in un anno solare. Nel pubblico impiego sale a 18 mesi (sempre frazionati) nel triennio. Nel caso dei metalmeccanici e degli autotrasportatori, il periodo di comporto è secco (un unico, lungo blocco di allontanamento dal lavoro) e oscilla in base all’anzianità di servizio del lavoratore malato. Il limite invalicabile è di un anno di assenza semi-retribuita.

Antonietta ha trentacinque anni. È, o meglio era, una commessa. Pesa 45 chili: ha difficoltà a nutrirsi a causa di un linfoma. Può mangiare solo a orari fissi. Dovendosi assentare per le sue cure, si è vista bollare come assenteista, con tanto di campagna denigratoria orchestrata dall’alto, nonostante i vertici la conoscessero bene la verità. «Molti miei colleghi stavano cominciando a crederci alle parole dei nostri capi, che mi dipingevano come una negligente, “quella che non lavora mai”. Manco andassi a ballare in quelle ore, e non a bombardarmi di chemio». La sua odissea è punteggiata da mille episodi spiacevoli, umiliazioni e variazioni speciose sul tema: «Cercavano di procurarmi inciampi con gli orari, e guadagnarmi una visita era, ogni volta, una battaglia. “Dammi prima il certificato”: era questo il loro mantra-standard». Eppure la certificazione è appannaggio del medico aziendale, e non può o non dovrebbe finire sotto gli occhi del management. Altrimenti vivremmo in un Stato di polizia sanitaria, e i lavoratori sotto ricatto. Anche lei va dallo psicologo.

«Lo Stato dovrebbe intervenire urgentemente. Soprattutto nel privato. Occorrono regole e paletti. È una guerra che noi combattiamo e combatteremo nei posti di lavoro, ma non è sufficiente», spiega Francesco Iacovone del direttivo Cobas nazionale, tra i più attivi su questo fronte. I malati oncologici dovrebbero lavorare il giusto, senza queste montagne russe ingenerose e insalubri. Per fortuna non funziona sempre così: esistono aziende, come le cooperative di consumo, che tutelano chi ha un tumore, e garantiscono loro il mantenimento dell’occupazione anche dopo il periodo di comporto. C’è inoltre un aspetto su cui riflettere: perché la tutela arriva al massimo a 18 mesi, quando un malato di cancro può dirsi guarito solo dopo cinque anni e prima di allora le recidive sono in agguato?».

Mario ha 56 anni, e un tumore alla prostata. Ha un contratto a tempo indeterminato come addetto amministrativo in un negozio di un brand del lusso. Il suo era un lavoro di responsabilità. Stava in ufficio, dietro le quinte. Ma da quando s’è ammalato gli tocca infilare i soldi nella cassa continua del bancomat, e basta. Davanti allo sguardo indiscreto dei colleghi e soprattutto dei clienti di passaggio. Perché dopo l’operazione soffre di incontinenza, corre in bagno ogni mezz’ora. Un pubblico ludibrio che si ripete tutti i giorni. E sta lì ad aspettare che la cassiera gli passi l’incasso per versarlo. Prima e dopo non ha nulla da fare. «Mi fanno fare soltanto questo e mi sento inutile, superfluo. Ed è così imbarazzante far vedere a tutti che non sto bene. Cosa darei per tornare nel guscio protettivo del mio ufficio, alle mie vecchie mansioni». Mario è seguito da uno psichiatra.

L’articolo 32 della nostra Costituzione mette la tutela della salute tra i diritti fondamentali della persona. Ecco perché esiste, per esempio, il sopraccitato periodo di comporto. Ma non basta, e la dignità di questi malati gravissimi è troppo spesso calpestata. Serve una legge nazionale organica, perché i diritti fin qui acquisiti sono frutto dei piccoli frammenti finiti all’interno di qualche legge di riforma del lavoro, del livellamento allo status di disabile o portatore d’handicap, dei vari contratti collettivi nazionali e del «buon cuore» delle singole aziende.

La stessa Aimac, l’associazione italiana dei malati di cancro, chiede da tempo una legge-quadro sul malato oncologico. «La disabilità oncologica è la nuova disabilità di massa, ma questo paziente ha esigenze peculiari perché la sua malattia ha un andamento ciclico e altalenante», ha dichiarato Elisabetta Iannelli, vicepresidente dell’Aimac. «Le leggi vigenti sono pensate invece per le cronicità stabilizzate». A rimetterci è soprattutto il mondo del lavoro. Da un tumore si può guarire, dal «cancro in azienda» no.

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 25 aprile, è disponibile in edicola e in app