Così un segno positivo, antico come il genere umano, è stato sequestrato per sempre dai nazisti. Senza possibilità di redenzione. Storia e significati spiegati dal grande art director Steven Heller

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Una sera di inverno 1922 un viaggiatore arriva a Uffing, sobborgo di Monaco di Baviera. La villa degli Hanfstaengl, nobili tedeschi, è illuminata a festa. È molto atteso l’ospite, a cui il padrone di casa fa da consigliere e comunicatore. Ogni tempo ha la sua Bestia, ma questo tempo più di altri. Ecco arrivare l’uomo in questione, se questo è un uomo. Lo aspettano come un messia. Sembrerebbe ridicolo: è tragico. Su consiglio di Hanfstaengl, indossa una divisa militare, nello stivale destro ha infilato un frustino in pelle di ippopotamo e ha ridotto i suoi tristi baffi spioventi a un quadrotto di peli, con cui intende segnare la storia del pianeta. Ci riuscirà. È Adolf Hitler.

Decorato di guerra, a capo di un partito securitarista, sovranista, razzista, anticomunista, tutto votato ai tedeschi che vengono prima degli altri - è l’uomo nuovo, sarà l’uomo forte. Fa innamorare di sé le persone, con la sua parlata enfatica e monocorde, rotta da apici isterici. Si trova a cena dai coniugi Hanfstaengl per incontrare i finanziatori del suo progetto politico: industriali, ceto abbiente, élite. Porta con sé un tubolare dal contenuto misterioso. Lo accompagna il fido Rudolph Hess, che considera un genio e dal quale è considerato a sua volta un genio. I quindici commensali nella villa sembrano adorarlo. Gli pongono domande sulla realizzazione di un colpo di Stato che la finisca con la fiacca democrazia tedesca. Ed ecco il colpo di teatro. Hitler estrae dal tubolare quindici vessilli, uno per ciascuno dei convenuti. È la prima apparizione della bandiera nazista. La illustra a questi complici e investitori: il campo rosso intende sottrarre consenso ai bolscevichi, il cerchio bianco rappresenta l’élite. Al centro c’è la croce uncinata: ed è davvero al centro di tutto. Adolph Hitler pone fine a un simbolo che appartiene al genere umano da millenni. Se ne appropria, lo stupra, lo porta al compimento. Comincia da lì. Non finirà più.
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«Non finirà più di irradiare il male in cui è stata inscritta, la svastica. È un simbolo perduto per sempre», dice Steven Heller, una delle leggende planetarie nell’art direction. Per più di trent’anni ha lavorato al New York Times, ha curato decine di mostre di livello internazionale, ha fondato il corso in design alla School of visual arts di New York. Lo venerano ovunque gli art director, i designer, i grafici. Si trova a Milano, invitato da Mimaster, realtà di formazione internazionale per illustratori. Tra i molti titoli di cui è autore Heller c’è “The Swastika and Symbols of Hate”, di cui sta per uscire una nuova edizione riveduta, per i tipi di Allworth Press. Da quasi vent’anni questo testo seminale non smette di insistere sulle inquietudini di chi, ovunque nel mondo, osserva moltiplicarsi le apparizioni della svastica su muri, manifesti, website e pagine social. Genealogia e interpretazione del simbolo più cruciale nella storia dell’uomo, a parte la nuda croce da cui deriva direttamente, questo catalogo sulla svastica appare tanto completo quanto destabilizzante, perché i tempi sono appunto destabilizzanti.
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«Se penso che sono stati miei colleghi designer ad avere lavorato tanto bene sul simbolo nazista, avverto un acuto senso di disagio». Non fu un professionista del visual a elaborare il vessillo con cui Hitler si intitolò un utilizzo definitivo della croce uncinata: la bandiera fu realizzata dal dentista del futuro führer, Friedrich Kröhn. Poco importa, poiché il fatto è che la svastica, segno arcaico e positivo per millenni, almeno fino a quella notte bavarese in cui Hitler se ne appropria, mutandone per sempre il carattere, manifesta l’enorme potere di chi sui simboli opera. Una materia scivolosa, una responsabilità enorme, che la storia rischia di portare a rovina.
«Avviene lo stesso con le parole. Victor Klemperer, nel suo sconvolgente “La lingua del Terzo Reich”, mostra come la voce della distruzione occupi il linguaggio quotidiano, lo eterodiriga, si depositi cancellando il passato intero di una terminologia. Dire “ebreo” è ben diverso che pronunciare “l’ebreo”, isolando ed enfatizzando, escludendo e votando il soggetto all’esperienza della violenza». La lingua dei simboli è tuttavia ancora più arcaica e universale, profonda e rischiosa da maneggiare. La svastica è ricca o, meglio, era ricca di una tradizione benigna, profondamente positiva, legata al sentimento dello spazio e del tempo - un patrimonio e un matrimonio totalmente disarticolato e mandato a putrefazione dall’evento nazista, che ne ha prosciugato i significati e ha determinato un ribaltamento radicale. «È quella che io chiamo devoluzione del simbolo. I movimenti antisemiti, nel cuore dell’impero asburgico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo traducono in simbologia politica un’elaborazione fittissima di supposti maestri dell’esoterismo e di ideologi che, nel nazismo, troveranno valorizzazione e compimento».
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Nel 1907 la svastica sventola a Vienna dai palchi in cui arringa Lanz von Liebenfels, occultista ed ex monaco cistercense, fondatore di una setta che elabora una teoria ariana della svastica. Si tratta di uno slittamento storico privo di ritorno, il momento in cui un simbolo viene occupato per sempre da una volontà di perversione, che trasmuta una forma, certamente mai innocente, come del resto qualunque forma comporta il proprio lato in ombra, l’alito raggelante del male. Il simbolo, quando è sorgivo e universale, si incarica di una simile follia: mostrare nascondendo, sintetizzare ciò che è benigno con l’oscurità, per significare la totalità, per rendere conto dell’interezza di ogni cosmo possibile.

L’Occidente inizia a intestarsi la svastica a partire da un ritrovamento archeologico entrato nel mito, mentre dal mito proveniva direttamente. Nel 1874 Heinrich Schliemann individua reperti istoriati, mentre identifica la Troia omerica. Su quei reperti compare la svastica. Segno augurale, simbolo di fertilità, legato a divinità femminili di qualunque pantheon elaborato nei cinque continenti, la croce uncinata rappresenta il corso del sole e del tempo, lega il neolitico all’epoca minoica, la gnosi iraniana ai buddhismi cinese e giapponese, i Maya ai vichinghi e, secondo lo storico Charbonneau-Lassay, al Cristo. L’esegeta René Guénon ne parla al femminile e al maschile, individuandone la geometria sacra: come il punto al centro del cerchio e come la ruota, la svastica risale a ere preistoriche e appartiene a una tradizione primordiale, che riappare ovunque e in ogni era, per manifestare le origini e l’esito dell’universo. «È una storia praticamente irricomponibile, perché arriva a coincidere con la vicenda umana nella sua interezza. Ciò che possiamo raccontare con precisione è la devoluzione del simbolo: diviene il rappresentante del male assoluto, viene impegnato nello sterminio di milioni di persone. I simboli sono in generale rioccupabili, ma non la svastica: non c’è redenzione possibile», constata amaramente Heller.
E si moltiplicano, reclamano nuovi spazi, le svastiche. Le radici occulte del nazismo e l’ostensione hitleriana vengono rilanciate dall’utilizzo che la cultura pop pratica sul simbolo. C’è un momento di intensa liberazione dei segni, dei marchi, degli antesignani dei brand. Una stagione in cui si persero i confini del simbolico e le rune della guerra si rovesciarono, il topolino disneyano divenne emblema della rivoluzione sessuale, il potere floreale degli hippy deflagrò, per essere repentinamente catturato dal mercato e ridotto a logotipo, a meme, a consumo di massa. Era la cosiddetta “summer of love”, l’eroica estate di San Francisco nel 1967. La cultura psichedelica e quella rock si preparavano a vedere le SS effigiare nel logo dei Kiss, i teschi himmleriani marchiare i Grateful Dead, l’apocalisse premere dalle note dissonanti dello “Helter Skelter” a cui inneggiavano i Beatles. «Quella stagione termina con una svastica o, meglio, con quello che si crede essere una svastica: il tatuaggio sulla fronte di Charles Manson, il satanista organizzatore del massacro di Cielo Drive a Los Angeles, in cui perse la vita la giovane moglie di Roman Polanski, Sharon Tate, incinta. Il sangue dell’attrice ventiseienne servirà a vergare sui muri della sua villa slogan infernali».
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È un segno dei tempi la devoluzione del simbolo, su cui Heller impernia la sua storia della svastica. Rimossa, essa ritorna. Quando il rimosso torna, lo fa con una potenza inusitata e una diffusione inarginabile. C’è una sezione impressionante in “The Swastika and Symbols of Hate”. Sono rappresentate una dietro l’altra alcune delle sigle dell’alt-right americana, le fazioni suprematiste che figliano autori di stragi, terroristi bianchi, fanatici del Bund tedesco, più criminali che nostalgici: un’infinita variazione su svastica e rune accompagna queste organizzazioni ai limiti della legge, filiazioni del verbo nazista, che non decresce e anzi aumenta con l’incremento di un disagio nel cuore e ai margini del capitale. Il capitalismo, che nutrì e fece prosperare Hitler e il suo mito atrabiliare, è il medesimo fomentatore degli eredi di quella cupa leggenda, preannuncio del prossimo sterminio, generalizzato e incombente nei caratteri littoriani e gotici che accompagnano le molteplici riedizioni della svastica e della sua evoluzione in croce celtica, tanto negli Usa quanto in Germania come in Italia.

E tuttavia il discorso e la panoramica che Heller produce sulla svastica ha un punto cieco. Non si riesce a pieno a comprendere cosa sia la svastica da Hitler in poi, se non si denuncia come la croce uncinata sia il tentativo di opporsi alla croce cristiana. Non nel senso che ci sia puzzo di zolfo nell’operazione simbolica nazista (e c’è ben più che un vapore tossico intorno al simbolo che Goebbels impose ovunque, in Germania e nella storia ventura). Non è vedendo Hitler come anticristo, che si può giungere a una comprensione profonda del fenomeno. Va invece rilevato un errore, che testimonia dell’infinita stupidaggine dei circoli nazisti: la loro croce è semplicemente successiva a quella primaria, che è appunto la cristiana. Ne è un’elaborazione postuma: la croce cristiana si vede aggiungere dei peduncoli. Il valore spirituale di un simbolo coincide con la sua capacità di coprire le distanze dello spazio e del tempo, insieme al potere di indurre all’azione. La risposta, a quella che Heller definisce come irredimibilità della svastica, risiede nell’inviolabilità della croce semplice. Sul piano storico e su quello simbolico Hitler perde la sua grande guerra al Cristo. E bisognerà osservare con sguardo acuminato i tentativi continui con cui le destre intendono appropriarsi della croce cristiana, che abbia attaccato un rosario o meno.

È un tempo di simboli, quello attuale, e non c’è da sorprendersi se la cifra stilistica dei nostri giorni risieda nell’emissione rinnovata del simbolo, questo aggeggio che il passato recente, non soltanto quello italiano, ha considerato un armamentario vintage, da irridere o da decostruire ironicamente. Quando la storia assume i contorni del dramma, i simboli mostrano la loro facies aeterna. Tornano, non smettono di tornare. La politica nazionale è ormai una lotta tra chi utilizza i simboli (il negro, l’omosessuale, l’arma, il confine, il crocefisso, la gogna) e chi non sembra più capace di riprodurne la potenza. Lo spirito umano non abbandona i suoi codici. Li offusca, per ritrovarli intatti. In una foresta di simboli, dove sono ubiqui i logo dei produttori (di scarpe da tennis, di mele computeristiche, di bottigliette a vaga forma di donna), la civiltà di massa si è illusa di avere seppellito ciò che è primario, incoercibile, fatale. L’uomo simbolico è più vasto dell’uomo del capitale, così come la croce nuda è più radicale di quella uncinata. In questo scontro tra simboli, tra redenzione e impossibilità della medesima, si rinnova il tempo e l’epoca si espone al rischio del collasso o al pertugio che conduce al futuro.



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“La svastica e gli altri simboli dell’odio” è il titolo del saggio di Steven Heller uscito negli Stati Uniti in una nuova edizione riveduta e ampliata per Allworth Press.
Heller racconta la storia e i misteri del simbolo della svastica, ne analizza gli usi religiosi e commerciali prebellici e l’appropriazione e l’uso improprio della forma da parte dei nazisti fino alle sue applicazioni contemporanee come icona razzista e apolitica.
Le immagini di questo articolo sono tratte dal libro che Steven Heller ha presentato in una serie di lectures tenute presso la scuola Mimaster Illustrazione di Milano.