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Cultura
dicembre, 2019

La storia raccontata da The Irishman non è andata affatto così

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Il più grande studioso del capo dei camionisti Usa contesta il film di Martin Scorsese. Tutta la pellicola si basa sulla confessione del presunto assassino. Che ha diverse contraddizioni

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«Bob, sei stato imbrogliato». È il 2 dicembre 2014. Al ristorante “Old Europe”, al 2434 di Wisconsin Avenue, nord di Washington, fa il suo ingresso Robert De Niro. Il posto è kitsch e il cibo approssimativo. In compenso, nella sala principale, l’atmosfera è calda, resa vivace dalla presenza di cento scrittori tra i più noti degli Stati Uniti, che lì s’incontrano due volte all’anno per il loro “Authors dinner” - a giugno e, appunto, l’ultimo mese dell’anno - per una serata conviviale. Tra un piatto e l’altro chiacchierano il re dei thriller Jeffery Deaver; il principe della serie su Condor e Cia, James Grady; chi, come, James Bamford, ha rivelato le deviazioni della Nsa, l’organismo della sicurezza nazionale; o chi, Jeff Stein, ha denunciato gli orrori dei Berretti verdi nella guerra in Vietnam.

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18/12/2019
De Niro, dopo essersi prestato agli inevitabili selfie, si apparta in un angolo con Gus Russo, autore di libri su John Fitzgerald Kennedy, che l’ha invitato per presentargli Dan Moldea, firma autorevole del giornalismo investigativo, gran cerimoniere dell’evento in programma. Il celebre attore di New York è curioso di discutere proprio con Moldea, uno dei maggiori esperti di mafia, ma, soprattutto, autore di un testo su Jimmy Hoffa, leggendario leader dell’International Brotherhood of Teamsters (Ibt), il sindacato dei “teamsters”, cioè i camionisti, organizzazione da lui dominata tra gli anni ’50 e ’60: sparito sulla scena di Detroit il 30 luglio 1975 e ufficialmente dichiarato deceduto nel 1982. Un mistero mai risolto. Si era comunque ipotizzato che la sua scomparsa fosse legata alla volontà di Hoffa di ritornare alla guida dei “teamsters” dopo la condanna, da lui subìta a metà degli agli anni ’60, tra l’altro, per frode sulle pensioni: in tutto 13 anni, poi ridotti dalla grazia concessa dall’allora presidente Richard Nixon.

Nel 2007 De Niro aveva acquistato i diritti di “I heard you paint houses”, scritto da Charles Brandt, avvocato ed ex viceprocuratore generale del Delaware, e pubblicato nel 2004 con quel titolo originale, per trarne un film, il futuro “The Irishman”, poi uscito a fine 2019. Tema spinoso, che abbraccia un periodo drammatico e sanguinoso negli Stati Uniti. Decenni di omicidi siglati dalla mafia italo-americana con il contributo dei “teamsters” e dei suoi dirigenti. Brandt sostiene la tesi che Jimmy Hoffa, definito da Bobby Kennedy «l’uomo più potente degli Stati Uniti dopo il presidente», sarebbe stato ucciso da un gigantesco irlandese, braccio destro di Hoffa. Frank Sheeran, questo il suo nome, lo ha ammesso proprio a Brandt, aggiungendo anche di essere il killer di un’altra ventina di persone.
Jimmy Hoffa

De Niro ne è sicuro: «Questo è il libro, questa è la storia dell’omicidio di Hoffa». Sentito dall’Espresso sulla ricostruzione del colloquio, Moldea così controreplica all’attore: «Con tutto il rispetto, Bob, tu non sai di che cosa stai parlando, tu non conosci questo caso come lo conosco io. Qui io non gioco un ruolo secondario. Sei stato ingannato». Gus Russo è sorpreso. De Niro anche: «Non sono stato ingannato. Posso mostrarti la sceneggiatura». Moldea: «Ce l’ho già, me l’ha fornita un amico. Inoltre, se tu me la dessi, mi chiederesti di firmare un “accordo di non rivelazione” (Non disclosure agreement, ndr). Ma non lo farò. Voglio essere libero». In un’intervista di metà novembre De Niro commenta la sua posizione su Moldea: «Dan è uno scrittore molto stimato, un’autorità su Hoffa. Non ho problemi con chi non è d’accordo con me. Il modo in cui Sheeran descrive ciò che è accaduto a Jimmy Hoffa è plausibile, ha molto senso».

Sia come sia, De Niro si è buttato sulla produzione di “The Irishman”, con la regia di Martin Scorsese, ritagliando per sé la figura di Frank Sheeran, e coinvolgendo attori amici come Al Pacino, nella parte di Jimmy Hoffa, Joe Pesci in quella di Russell Bufalino, siciliano di nascita, capo della famiglia Bufalino, attiva in alcune zone degli Stati di Pennsylvania, New Jersey, New York e Florida. Il film, 3 ore e mezzo di durata, è stato proiettato, solo per alcuni giorni, in selezionati cinema americani ed europei, ed è ora in circolazione, dalla fine di novembre, in abbonamento soltanto sul circuito Netflix, che ha investito nella pellicola 160 milioni di dollari, una cifra monstre.
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La reazione di Dan Moldea, originario dell’Ohio, su questo argomento, che quasi ritiene di sua “proprietà”, va spiegata. Quando dà alle stampe la sua prima opera, “The Hoffa Wars-The Rise and Fall of Jimmy Hoffa”, è il 1978, appena tre anni dopo la sparizione del boss di Detroit: un racconto sui misfatti dei “teamsters”, legati al crimine organizzato, oltre 500 pagine, mille interviste. Lui si paragona al capitano Achab di Melville: Jimmy Hoffa è la sua “balena bianca”, una caccia in corso ormai da 44 anni. E quando compare la prima edizione di “I heard you paint houses”, si dedica a un’altra caccia, agli errori, alle contraddizioni e alle discrepanze del suo contenuto, poi riversate nel film.

Con L’Espresso Dan Moldea insiste su un punto: «Tutto ruota su una sola fonte, Frank Sheeran. Ma Sheeran non ha ucciso Hoffa. Ha cinicamente confessato di averlo fatto solo per denaro. Era vicino alla fine, malato, doveva lasciare qualcosa alla famiglia, grazie alle royalties ricavate dalla vendita del libro e dei diritti cinematografici per “The Irishman”, prima di morire nel dicembre 2003». Stando alle sue dichiarazioni-fiume, però, Sheeran fa di più. Non soltanto si attesta la titolarità del delitto Hoffa, ma anche quella del delitto Briguglio cioè il noto Sal (Sally Bugs), un boss dei teamsters di New Jersey, nel marzo 1978.
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Quel fatale 30 luglio 1975, quando per Jimmy Hoffa sta per suonare la campana, sulla scena del crimine, in una casa, peraltro vuota di Detroit, in Beaverland Street, secondo Sheeran, citato da Brandt, ci sono, oltre a Sheeran stesso, uno dei due fratelli Andretta (Steve e Tommy), oltre ad altri nelle vicinanze. Ma c’è una grossa lacuna in questa versione. Brandt scrive, riferendo le parole di Sheeran: «Jimmy Hoffa fu colpito due volte dietro la testa, sopra l’orecchio destro, dalla distanza giusta, altrimenti la “pittura” ti schizza addosso. Il mio amico non ha sofferto». Perché, osserva Dan Moldea, Sheeran non ha detto “io ho sparato”, in prima persona?

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Charles Brandt ha una risposta, che riferisce all’Espresso: «L’ha detto a me in una conversazione registrata in video». E rievoca anche i suoi rapporti con Frank Sheeran, come è nata la loro collaborazione: «Era il 1991, mi contatta, in Delaware, Angelo Bruno (nel film di Scorsese è interpretato da Harvey Keitel, ndr), capo della sua famiglia a Filadelfia. Vuole aiutare Frank Sheeran, in prigione con una condanna pesante»: 32 anni, di cui 12 ancora da scontare. Frank aveva letto un libro di Brandt del 1988, “The right to remain silent”. Ha seri problemi di salute e pensa di rivolgersi proprio a quell’avvocato. Che riesce a farlo rilasciare. Sheeran, accusato di essere coinvolto nella scomparsa di Jimmy Hoffa, vorrebbe scrivere un libro che lo scagionasse e, in cinque ore di colloquio espone la sua idea a Brandt, che non l’appoggia, rendendosi conto di un fatto: quell’uomo, quel criminale ha dei rimorsi, sente il bisogno di aprirsi, come, otto anni dopo, nel 1999, farà. È il preludio a “I heard you paint houses”.

L’accenno a “imbiancare case” (“to paint houses”), alla “pittura che ti schizza addosso”, come avviene nella casa di Detroit di Jimmy Hoffa, ha un significato ben preciso. Infatti, quando, negli anni ’50, Russell Bufalino prende sotto la sua ala protettrice Frank Sheeran, fino ad allora autista di camion e ladro di polli o quarti di bue, lo fa per una sorta di simpatia nei suoi confronti. Vede in lui un personaggio, cattolico peraltro, come gli irlandesi, che spiccicava perfino un po’ di italiano, appreso durante la Seconda guerra mondiale, dopo lo sbarco in Sicilia, con puntate fino a Catania, dove Russell era nato. Inoltre, segnala questo omone alto 1,90, per eventuali “servizi”, proprio a Jimmy Hoffa. Che lo accoglie con una frase da prova del fuoco: «Mi dicono che imbianchi le case (in inglese “I heard you paint houses”)». Per “pittura” si intende “il sangue che schizza sulle pareti e cola sul pavimento quando spari a qualcuno”. Pronta la risposta di Sheeran: «Mi occupo anche dei lavori di falegnameria», in pratica di bare e sgombro di cadaveri. L’esame è superato. Frank Sheeran è arruolato, diventerà l’uomo di fiducia di Jimmy Hoffa nel sindacato dei teamsters, infiltrato dalla mafia. E quell’espressione ispirerà il titolo del libro di Brandt.

Già, il sangue di Hoffa: per quale ragione non ce n’è sulla famosa scena del crimine? Sheeran afferma che nell’atrio, sul pavimento, sarebbe stato posto uno strato di linoleum per raccogliere il corpo dopo l’esecuzione. Ma i dubbi restano, e non solo per Dan Moldea. Su sollecitazione di un servizio di Fox News, è stato usato il luminol, uno spray chimico che “illumina” le tracce di sangue. Anche ?agenti della Bloomfield Township Police Department del Michigan sono intervenuti in loco, consentendo di asportare parti dell’impiantito di legno. Hanno poi chiesto all’Fbi di analizzarli. Finalmente, nel febbraio del 2005, arriva il responso. Doccia fredda: il campione di sangue rinvenuto non corrisponde a quello di Jimmy Hoffa.

Si ritorna così al tema centrale, quello della credibilità di Sheeran. Dan Moldea, durante le sue indagini, l’aveva intervistato, del resto come molti altri protagonisti della “Hoffa connection”. Esattamente nel marzo 1978, con qualche brusco ricordo: «Il suo avvocato aveva minacciato di querelarmi perché nel mio website stavo accostando il nome del suo cliente a cospirazioni varie. In una lettera sosteneva che Sheeran aveva fornito al governo le prove che quel giorno non era nemmeno a Detroit». Ma c’è di più. L’irlandese Sheeran, che per Rudy Giuliani, procuratore di New York negli anni ’60, ora avvocato del presidente Trump, era uno dei due non italiani nella lista delle famiglie mafiose dei Bonanno, Genovese, Colombo o Lucchese, ha l’ossessione di rivelare, a modo suo, le proprie imprese, infarcendole di fantasie. E così, mentre è in prigione, convince un suo vecchio compagno di cella, John Zeitts, un veterano del Vietnam, a raccogliere le sue memorie, mai pubblicate perché era nel frattempo subentrato Charles Brandt nella stesura di “I heard you paint houses”. Dan Moldea ricorda: «In quel testo Sheeran negava qualsiasi responsabilità nell’omicidio Hoffa, attribuendola invece a Sal Briguglio. Peggio ancora, veniva tirato in ballo, come mente del delitto, John Mitchell, ex procuratore generale degli Stati Uniti. Ridicolo». L’avvocato Mitchell, poi travolto dallo scandalo del Watergate, finisce dietro le sbarre.
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È così che Dan Moldea, personalmente convinto che sia stato Briguglio a uccidere Hoffa, scatena la guerra sui retroscena della “Hoffa connection”. Senza nessuna paura. D’altra parte, con i teamsters ha una frequentazione di lunga data. Fin dal 1974, quando, in un garage della sua città, Akron, si era visto consegnare da un sindacalista locale, uno dei primi “whistleblowers”, insomma un dissidente, il “libro nero” dei conti dell’organizzazione: i contributi versati dagli iscritti erano impiegati per finanziare, a tassi vergognosamente bassi, i casinò di Las Vegas, alcuni tele-evangelisti e società controllate dalla mafia americana. Uno scoop eccezionale per un giovane universitario, aspirante giornalista. Ma che era costato a lui, un gigante di due metri e 100 chili di peso, un pestaggio cruento.

Oggi, “Achab” Moldea, memore dei suoi trascorsi pericolosi, si ostina a cercare: dov’ è finito il corpo di Jimmy Hoffa? Sheeran sostiene che è stato cremato presso un'agenzia funebre di Detroit, senza dettagli? Moldea non ci crede. Segue invece un’altra pista, sulla base di indizi forniti da una sua vecchia fonte, poi morta, Philip (Brother) Moscato, un “soldato” della famiglia Genovese e partner di Sal Briguglio: titolare, insieme a Paul Cappola, di una discarica in New Jersey, la “Brother Moscato’s dump”. Ed è il figlio di Paul, Frank, a ricevere le confidenze del padre sul letto di morte: il cadavere di Jimmy Hoffa sarebbe stato portato di notte in una limousine, infilato in un grosso fusto, e seppellito in quell’area. Lo scorso fine settembre Frank ha guidato Dan Moldea sul posto, si è lasciato riprendere in video, indicando il punto in questione e firmando una testimonianza giurata, registrata presso un notaio.

Intanto il libro “The Irishman” (Fazi editore in Italia), negli Stati Uniti, è balzato in testa alle vendite nella classifica “non fiction”, trainato dal successo del film, che lo stesso Dan Moldea giudica bellissimo. Charles Brandt accenna anche agli accordi sui proventi: «Una parte andrà alle figlie di Frank». L’anticipo è stato sui 20 mila dollari, mentre per i guadagni sui diritti cinematografici la cifra si aggira su120 mila dollari. Con la sua attività legale ha già guadagnato molto, «milioni di dollari», sottolinea, non ha bisogno di questi soldi. Si ritiene infatti molto soddisfatto, assicura, per aver risolto il puzzle Hoffa, come anche altri famosi casi criminali, chiariti da Frank Sheeran. Ad esempio, quello del mafioso Crazy Joey Gallo, massacrato dallo stesso Sheeran nel 1972, all’uscita dal ristorante Umberto’s Clam House, a Little Italy. Ma quello che l’avvocato Brandt tiene a rimarcare è la sua strategia: premere su Sheeran per indurlo a confessare i suoi reati, poco per volta. Proprio confessare, come ha fatto Sheeran prima con un prete, quando ormai stava per morire, e subito dopo con lui. Anche un membro della famiglia Bufalino avrebbe confermato che quanto è stato descritto nel libro è vero. Vero? Non vero?

Anche Martin Scorsese si è posto questa domanda, rispondendo così al Corriere della Sera: «Nel mio film seguo quanto scritto da Charles Brandt a proposito della fine di Jimmy Hoffa, ma non voglio spacciarla per verità».

Ha collaborato Fabrizio Calvi

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