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Primarie Usa, a chi fa paura Michael Bloomberg

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Miliardario. Magnate dei media. Moderato. L’ex sindaco di New York punta a svuotare i due poli opposti tra loro: trumpiani e socialisti. E la discesa in campo del tycon riduce le chance di Joe Biden

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L'appuntamento è a un isolato dal 16 Court Street, un edificio che i giovani democratici di Brooklyn conoscono bene perché è la sede ufficiale del partito nel cuore del più popoloso borough di New York City. «Non possiamo riunirci lì, abbiamo deciso tutto in fretta, ma la candidatura del vecchio sindaco necessita di una risposta immediata», spiega Evelyn, una trentenne con l’aria un po’ da nerd che è stata tra le promotrici di questa convocazione.

Sono passate solo ventiquattro ore da quando Michael R. Bloomberg - miliardario e filantropo, per dodici anni sindaco della Grande Mela - ha annunciato ufficialmente il suo ingresso nella affollata corsa alla nomination democratica per la Casa Bianca 2020, ed eccoli qui riuniti gli attivisti più sensibili (e critici) sull’argomento. «Andiamo alla Fulton Hall, dove ci siamo visti l’altra sera per il dibattito», propone DeLorean, un giovane afroamericano con un paio di libri sotto il braccio. Proposta accolta, per arrivarci basta una camminata di poco più di dieci minuti e due grandi tavolate sono sufficienti per dare il via al dibattito.

«Credo che questa candidatura non sia un disastro», esordisce Braxton, che non nasconde le sue simpatie per Elizabeth Warren e spera almeno «che con l’ex sindaco in campo la corsa di Biden sia finita». Kilie non è d’accordo. Per lei che si definisce «umanista, progressista e socialista» questa è l’ennesima dimostrazione di quanto sia «andato a destra» il partito di Obama e Clinton: «Se anche un corrotto come Bloomberg si candida con i democratici è la fine. Sembra uno scherzo, non lo è».

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Alla parola “corrotto” gli animi si accendono, a quasi tutti i presenti la candidatura del miliardario newyorchese non piace, il timore vero è che possa «dividere ancora di più un elettorato già diviso e facilitare una nuova vittoria di Donald Trump».

Quello dei giovani democratici di Brooklyn è solo un piccolo esempio di un dibattito che col passare dei giorni sta diventando il focus in campo democratico. Con alcune domande per le quali al momento non ci sono ancora risposte chiare. Perché Bloomberg è sceso in campo solo ora? Pensa veramente di farcela a conquistare la nomination? Un miliardario ancora più miliardario di Trump ha qualche chance di battere il presidente in carica?

I numeri (sondaggi e dati) per il momento non sono a suo favore. Nell’ultimo mezzo secolo non ci sono casi di un candidato entrato in campo così tardi che sia riuscito a diventare il candidato ufficiale del partito. L’elettorato democratico nei 18 Stati che saranno decisivi alle primarie (e attenzione, tra questi non c’è quello di New York) è al 78 per cento soddisfatto degli attuali candidati e ritiene un danno che se ne aggiungano altri. I sondaggi fatti nei mesi scorsi sulla possibile candidatura dell’ex sindaco di New York dicono che a livello nazionale non raggiunge quel 3-4 per cento di voti che sono il minimo per avere una chance ed anche per partecipare ai dibattiti televisivi. Inoltre Bloomberg ha deciso di non partecipare alla primarie di febbraio (iniziano il 3) in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina. E mai nessuno ha avuto la nomination - sia tra i democratici sia tra i repubblicani - evitando di misurarsi in questi Stati piccoli ma tradizionalmente molto importanti. Ultimo esempio quello di Rudolph Giuliani nel 2008. Che evitò Iowa e New Hampshire per concentrarsi sulla Florida (dove era convinto di stravincere) e venne clamorosamente battuto anche lì (candidato contro Obama fu John McCain). Infine il fatto che nell’America “populista” (anche di sinistra) un miliardario (ed ebreo, cosa da non sottovalutare in un periodo di crescente antisemitismo) ha pochissime chance di vittoria: a questo punto si tengono un miliardario già sperimentato come Trump.

Il suo vero tallone d’Achille è probabilmente un altro, quello legato al voto degli afroamericani e dei latinos, decisivi per fare vincere un candidato democratico alla Casa Bianca. Pochi giorni fa Bloomberg, proprio per preparare l’annuncio della sua corsa alle presidenziali aveva voluto visitare il Christian Cultural Center, un campus con annessa mega-chiesa evangelista (la più grande di New York e una delle più grandi degli Usa), che è il cuore delle comunità nera di Brooklyn. Lo ha fatto nel tentativo di cancellare la sua grande macchia nei dodici anni in cui ha governato la metropoli. Bloomberg è considerato - lo confermano anni di sondaggi - il miglior sindaco di New York dai tempi di Fiorello La Guardia. La rinascita della Grande Mela, i nuovi parchi, il suo impegno per il clima e anche l’uso del suo patrimonio personale per aiutare la città lo hanno fatto molto amare. Ma tra gli afroamericani e i latinos resta prima di tutto il sindaco dello “stop and frisk”, la tattica della polizia di New York che permetteva agli agenti di fermare e perquisire chiunque apparisse ai loro occhi sospetto: e al 95 per certo erano neri o latinos.

«Adesso mi rendo conto che avrei dovuto agire prima e più in fretta per bloccare lo “stop and frisk”. Mi piacerebbe averlo fatto, ma purtroppo non posso cambiare la storia. Però oggi sono qui per dirvi che ho capito di avere sbagliato, che avevo torto. E mi dispiace molto», ha detto Bloomberg al campus. Scuse che sembrano non avere convinto appieno la comunità afroamericana, anche perché ancora nel gennaio scorso l’ex sindaco, parlando a un convegno, aveva ricordato come quella odiosa pratica di polizia avesse contribuito «a rendere New York sempre più sicura, facendola diventare la meno violenta delle grandi metropoli Usa».

Nonostante tutte queste difficoltà Bloomberg è però convinto di farcela. Per la prima tappa della sua campagna presidenziale ha scelto Norfolk, in Virginia, uno Stato dove i suoi ingenti finanziamenti hanno contribuito alla grande vittoria democratica dello scorso mese (hanno conquistato il Congresso statale). «So vincere perché l’ho già fatto più volte e so come battere Trump», dice. Sicuro di sé, accompagnato da spot televisivi (solo in Virginia spenderà un milione di dollari dei 35 già previsti dalla sua campagna), ha voluto sottolineare (oltre i suoi successi da sindaco) le due questioni su cui il suo impegno è totale: il cambiamento climatico e il controllo delle armi. Sono due temi su cui l’elettorato democratico è particolarmente sensibile e che gli possono permettere di guadagnare velocemente consensi a livello nazionale.

«Oggi abbiamo alla Casa Bianca un presidente, un Commander in Chief’, che non ha alcun rispetto per lo stato di diritto, che non ha nessuna preoccupazione per l’etica e per l’onore, che non crede nei valori che hanno fatto l’America veramente grande». Al D’Egg Diner, un ristorante casual come tanti ce ne sono in giro per l’America, l’ex sindaco di New York ha voluto mostrare il suo aspetto popolare (del resto quando era sindaco andava spesso al lavoro in metropolitana) ricordando come «per anni ho usato le mie risorse personali per le cose che per me contano e sono decisive per il futuro degli Stati Uniti e del mondo, come il problema del clima e quello delle armi».

Saranno soprattutto questi temi (Trump, clima e armi) i cavalli di battaglia di una campagna elettorale che per lui si annuncia particolarmente difficile. Come primo compito ha quello di costruirsi una coalizione all’interno dell’elettorato democratico basata su quelli che vengono chiamati i “lealisti”, cioè i grandi finanziatori che nelle ultime settimane lo hanno più che invitato a scendere in campo. Con una motivazione semplice. La procedura di impeachment di Trump legata alla questione Ucraina coinvolge direttamente il figlio di Joe Biden, l’ex vice-presidente di Obama che è il principale candidato dell’area moderata del partito. Biden è sempre più in difficoltà mentre aumenta la possibilità di un successo alle primarie di Elizabeth Warren, la candidata che insieme a Sanders è la beniamina di un’area radicale (e anche socialista) dell’elettorato che nel corso degli ultimi mesi ha sempre maggiore peso.

Bloomberg è anche convinto che come accadeva nel passato le elezioni si vincano al centro, conquistando il voto dei moderati e degli incerti. Tradizione interrotta dalla vittoria di Trump nel 2016 e che in questi mesi sembrava essere stata spazzata via in un’America polarizzata come non mai. L’ex sindaco di New York, con la sua immensa fortuna personale, non ha necessità di alcuna forma di finanziamenti e quindi può investire nella sua campagna tutte le centinaia di milioni di dollari che gli occorrono. E, come è noto, la Casa Bianca si conquista solo se hai alle spalle grandi finanziatori o una capillare rete di piccoli finanziatori (come aveva Obama e come hanno oggi Sanders e Warren). Per il miliardario filantropo i soldi sono però un’arma a doppio taglio. «Queste elezioni non dovrebbero essere in vendita», ha detto Elizabeth Warren quando ha saputo della candidatura ufficiale di Bloomberg. «Vuole comprare le nostre elezioni», ha chiosato Bernie Sanders. La sfida è aperta.

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