
È accaduto e accade alle parole “amore” e “libertà”, come poteva non accadere alla parola “movimento” trasformata in un’esca acchiappavoti?
Quando con un guazzabuglio di ragazzi alla Sapienza di Roma formammo il gruppo “studenti stanchi”, i rivoluzionari di professione ci presero per il culo, come sta accadendo in questi giorni per il guazzabuglio “sardine”. Il commento più gentile fu che sembrava il titolo di una ricerca sociologica. E forse era persino vero, perché lì dentro c’erano frammenti di presente passato e futuro: Fgci, Quarta Internazionale, Autonomia oltre a figli di papà e di nessuno. Soprattutto c’erano sprovveduti, come me, che però avevano capito sulla loro pelle che dopo il crollo del Muro stava per accadere qualcosa di grosso che avrebbe mutato non in meglio forma e funzioni dello Stato, cioè l’esercizio della democrazia.

La riforma voluta dal ministro Ruberti che prevedeva l’ingresso dei privati nei consigli di amministrazione dell’università ne era l’esempio più lampante, era un uomo intelligente e stava iniziando la demolizione del più importante baluardo per una società libera e paritaria: la scuola e l’università pubblica. Il problema è che noi eravamo stanchi già prima che fosse diffuso il testo della sua riforma, per la gestione discutibile delle mense e la mancanza di servizi adeguati alle necessità degli studenti, per i meccanismi di assegnazione delle case dello studente e per l’involuzione del sapere umanistico e scientifico già ampiamente ridotti a pure merci di scambio per il “mercato del lavoro”. Di ragioni ce n’erano per una riforma seria e profonda: infatti noi studenti ci aspettavamo che si mettesse di più al riparo la formazione e la ricerca scientifica da logiche mercantilistiche e strumentali, invece stava per accadere l’opposto, così i torti della riforma ci apparvero talmente grandi da oscurarne le ragioni che pure aveva.
Accadde che i primi giorni del dicembre 1989, a Palermo, dove l’università versava in condizioni pietose anche dal punto di vista architettonico, gli studenti di Lettere, essendo più “stanchi” di noi, occuparono senza indugio. Nei giorni e nelle settimane successive altre facoltà palermitane seguirono l’esempio e il 15 gennaio 1990, dopo affollatissime assemblee nelle quali c’era come sempre il pompiere e l’incendiario all’azione, a Lettere di Roma decidemmo di occupare con lo slogan «chi non occupa preoccupa».
In un solo giorno Lettere si riempì talmente tanto di studenti di tutte le facoltà che dovemmo stabilire subito i turni di pulizia perché rischiavamo che diventasse uno schifo infrequentabile. Pulizie che però fecero regolarmente solo due-tre ragazze, le quali giustamente si ribellarono, ed è una delle cose da dimenticare.
Avevamo nei mesi precedenti gettato le basi per costruire commissioni specifiche sulla riforma, molto partecipate e pressoché paritarie, ce n’era una alla quale partecipavano anche i professori “illuminati”. Avevamo in testa l’ambientalismo più radicale, la denuncia di giornalisti ammazzati dalla mafia, su tutti Pippo Fava che a Comiso aveva fatto il suo. Avevamo tra noi ragazze e ragazzi desiderosi di esprimersi, in quel frangente nacquero o si svilupparono gruppi musicali, teatrali, collettivi cinematografici, gruppi yoga, coordinamenti femminili e femministi, ambientalisti e urbanistici, alcuni di questi hanno svolto un ruolo importantissimo negli anni a venire nella cultura e nelle arti.
Tentammo persino di fare un ragionamento sui movimenti precedenti al nostro, perché ci dicevamo che esiste una specificità dell’essere “in movimento”, esiste una memoria “in movimento” che si contrappone alla “stasi” tipica dell’oppressione, del comando, della politica fatta solo per conquistare e mantenere il potere. Così ci attirammo addosso il mondo con un convegno alla facoltà di Statistica dove furono invitati “reduci” del ’68 e del ’77, tra questi un ex brigatista. Venne giù il diluvio, La Sapienza divenne per una settimana simbolo del nuovo terrorismo. Mi intervistò un tg davanti a Montecitorio mentre litigavo con Marco Pannella e mia madre mi lasciò in segreteria un messaggio disperato, suo figlio era forse un terrorista, o un tossico, visto che aveva barba e capelli lunghi non lavati da qualche settimana? Devo dire che insieme a un gruppo abbastanza ristretto di persone che si occupavano del “centro stampa” e delle relazioni con i media, mi resi subito conto della difficoltà di gestione dell’informazione, al punto che non partecipai alla puntata di Samarcanda che fece entrare il movimento nelle case degli italiani.
Mi resi conto già i primissimi giorni della delicatezza del compito, quando il pubblicitario Ferri venne a proporci di adottare come simbolo del movimento la pantera nera delle Black Panther e ci propose di depositare il marchio per autofinanziarci, ma noi rifiutammo orgogliosamente di “privatizzare” alcunché. Ferri però ci aveva visto giusto, l’associazione tra la pantera nera che negli stessi giorni era fuggita in cerca di libertà da un’abitazione privata e la ricerca di libertà degli studenti italiani fu un colpo di genio, che era nell’aria ma sarebbe stato difficile “brandizzarlo” meglio di così. E facemmo poi la famosa scoperta del fax come strumento di comunicazione paritario e orizzontale. Ero sempre al centro stampa quando arrivò un documento programmatico scritto dai palermitani che impegnò un rotolo di carta termica e una settimana per leggerlo.
Devo confessare una certa allergia alla retorica del bel tempo che fu che scatta in automatico quando si tratta di rievocare fatti storici, anche quelli che ci toccano personalmente. Le uniche rievocazioni che mi hanno sempre commosso, anche se istituzionalizzate e ritualizzate, sono quelle per la Resistenza, il momento in cui una generazione dovette decidere se andare inesorabilmente verso la perfetta dittatura militare o mettere in gioco la vita per andare verso l’imperfetta democrazia.
Però non mi pare affatto sbagliato dopo 30 anni cercare di comprendere cos’è stato il movimento della Pantera che si esaurì lentamente in meno di un anno ma che credo sia penetrato più a fondo di quanto non sembri nella società italiana costituendo una delle poche forme di resistenza alla deriva semi-autoritaria che ha preso piede nel paese dopo Tangentopoli, è per questo che aderisco volentieri e sostengo le iniziative che si vanno progettando. Tra l’altro lo sviluppo in Italia del Movimento dei Movimenti che approdò e naufragò a Genova nel 2001 non è estraneo a quella esperienza del ’90.
I movimenti sono per natura imprendibili, come la pantera nera che nessuno ha mai più trovato, ma qualcosa lasciano, perlopiù qualche seme. È l’immobilità che crea solo gas tossici, che avvelena le coscienze e che crea quel mugugno inespresso che poi viene strumentalizzato da furbacchioni aspiranti politici o aspiranti capi per i propri fini.
I movimenti poi cambiano i destini degli individui che li compongono. Quando una notte Guido Aristarco, il mio professore di Storia del cinema, entrò nella sua stanza per salvare le proprie cose personali da un possibile furto nell’università aperta a tutti, mi trovò in un sacco a pelo sulla sua scrivania con una ragazza riccia che diventò paonazza nel vederlo. Mi illusi per un anno almeno che non mi avesse riconosciuto, poi quando andai a chiedergli la tesi mi restituì un paio di asciugamani che aveva fatto lavare e aveva conservato in un pacchetto di carta. Su quegli asciugamani c’erano le mie iniziali, che mia madre aveva ricamato per non farli confondere con le pezze dei miei compagni di convitto.
Quel gesto di rispetto nei miei confronti mi commosse a tal punto che stringemmo un rapporto di amicizia che ha poi determinato le mie scelte future: dedicare la mia vita al cinema e all’insegnamento del cinema. Certo, non potevo confessare ad Aristarco che dopo che uscì da lì, anche a causa di un sax che nel silenzio della notte fonda, dal tetto di Medicina occupata diffondeva le note di “Equinox” di John Coltrane, io e la ragazza riccia avevamo fatto l’amore sulla sua scrivania. Però gli confessai che quella notte avevo pensato che avessero ragione i padri di tutte le rivoluzioni: è dura la lotta, ma ne vale la pena.