Quando Enes Kanter, il cestista turco dei Boston Celtics,si è schierato a favore della causa curda contro l’aggressione militare turca, la domanda che gli veniva posta più di frequente era questa: «Ma perché prendi posizione, tu che sei una star del basket in Usa e potresti vivere una vita tranquilla?». Kanter ha sempre risposto che per lui era impossibile tacere perché nelle prigioni turche ci sono migliaia di detenuti innocenti, la cui unica colpa è aver criticato il governo di Erdogan.
Allo stesso modo, quando lo scrittore e giornalista turco Ahmet Altan è stato scarcerato - solo per pochi giorni - dall’ingiusta detenzione cui è costretto dal 2016, ha detto di non riuscire a gioire pienamente perché il suo pensiero andava alle migliaia di persone ingiustamente detenute.
Dalle parole di Kanter e di Altan è evidente che bisogna raccontare cosa accade nelle prigioni turche, che bisogna spiegare chi è detenuto e perché.
Zehra Dogan è un’artista curda con cittadinanza turca, condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di prigione per un disegno che rappresenta Nusaybin, città resistente a Sud-Est della Turchia, abitata prevalentemente da curdi e teatro di una terribile strage di curdi già negli anni ’90. Nel marzo del 2013, dopo decenni di conflitto, era iniziato un processo di pace tra il governo turco e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), ma le speranze sono durate poco: nel 2015 ricominciano gli scontri e Nusaybin è di nuovo sotto l’assedio dei militari dell’esercito di Erdogan. Ai giornalisti è impedito l’accesso alla città, ma Zehra Dogan ci va lo stesso perché sa che con i suoi disegni può testimoniare ciò che sta succedendo e raccontarlo al mondo.
A Nusaybin c’è un coprifuoco perenne e Zehra, come tutti, è costretta a vivere rifugiata in casa. Per far arrivare i suoi disegni fuori da quell’inferno, li scannerizza e li pubblica su Twitter.
Quando, il 19 luglio 2016, termina il coprifuoco, la città è irriconoscibile, ridotta in macerie sotto cui giacciono i corpi delle vittime curde, spesso giovanissime. Un report dell’Onu conterà 1.786 edifici distrutti a Nusaybin e fino a 500.000 sfollati in tutta l’area.
È in quei giorni che sull’account Twitter delle polizie speciali turche, Zehra vede una foto scattata proprio a Nusaybin, accompagnata da commenti vittoriosi. Zehra decide di ridisegnarla, ribaltando il punto di vista: non più quello dei carnefici, ma quello delle vittime. I carri armati delle forze armate governative diventano enormi scorpioni che mangiano persone e i vessilli dell’esercito turco solo la rivendicazione orgogliosa della distruzione.
Pochi giorni dopo, il 21 luglio 2016, Zehra viene arrestata. Nell’interrogatorio le chiedono insistentemente: «Perché disegni?». In questa domanda non c’è solo la volontà di trovare “prove” contro una “dissidente”, ma c’è anche tutto il disprezzo nei riguardi di una donna che attraverso la scelta artistica prende posizione, difende la sua identità, ma soprattutto non nasconde o dissimula le sue idee. Zehra viene processata e condannata per “propaganda terroristica”; va in carcere per un disegno e dunque vivrà il carcere da artista per raccontare, nel modo che le riesce meglio, ciò che accade tra quelle quattro mura precluse a ogni sguardo, perché ogni detenuta è una magnifica storia di lotta, dolorosa sì, ma carica di vita. Una storia che deve essere raccontata. Stando lì, in carcere, Zehra può essere testimone altrettanto necessaria come lo era stata fuori durante l’assedio. Userà ogni tipo di materiale per dipingere: come supporto lenzuola, asciugamani, giornali; come pennelli penne di uccello e per colori cibo, cenere, capelli, sangue mestruale.
Zehra Dogan è stata rilasciata il 24 febbraio 2019 e oggi vive a Londra; le sue opere vengono esposte e raccontano il dramma di un paese che non tollera la dissidenza e la punisce con la detenzione. Di più, le sue opere sono preziosissime perché raccontano uno dei luoghi meno conosciuti che esistono, anche nelle democrazie più avanzate, il carcere.
Siamo lontani dalla Turchia di Erdogan, lo so, ma anche in Italia il carcere è un buco nero, sconosciuto, raccontato solo dai Radicali. È dunque con immenso piacere che ho accolto la nomina di Pietro Ioia a garante dei detenuti per il Comune di Napoli. Ioia è un ex detenuto che ha percorso una strada lunga, difficile e tormentata che lo ha portato a essere, oggi, un anello di congiunzione tra il dentro e il fuori. È di ponti che abbiamo bisogno: il tempo delle fortificazioni è finito.