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Il nuovo millennio cominciò qui con due giornate di guerriglia, un ragazzo ucciso da un carabiniere, un altro in coma, decine di feriti e l’illegale sospensione dei diritti costituzionali (nel 2001, durante e dopo il G8 dei capi di Stato che lanciarono la globalizzazione mondiale). Poi il lavoro precario entrò perfino negli ospedali e i laureati, che da praticanti negli Stati Uniti guadagnavano oltre tremila dollari al mese, una volta tornati a casa si ritrovarono a mantenere la famiglia con 800 euro in busta (dal 2007 a oggi). Arrivò il peggio della crisi e la recessione deformò per sempre la geometria operaia che con Torino e Milano componeva l’antico triangolo industriale (dal 2010 in poi). Sembrava passata grazie al porto, alle merci, ai cantieri navali - ed ecco l’anno scorso la mazzata del ponte Morandi, il crollo alla vigilia di Ferragosto, quarantatré morti, i feriti, gli sfollati e i trasporti ancora adesso sospesi su quarantacinque metri di vuoto. Nessun’altra città italiana ha ospitato e sofferto tutto questo in meno di vent’anni.
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Eppure il 2019 a Genova è cominciato con un miracolo laico. Un solo aggettivo, la parola “solidale” che nessun regista di successo oserebbe mettere nel titolo di un suo film, ha smosso diecimila genovesi. E li ha portati in corteo a manifestare pacificamente contro il rancore, la rabbia, il sovranismo: sentimenti che, dal blocco della nave Diciotti carica di profughi al decreto sicurezza del governo, contagiano ormai ogni ragionamento pubblico.
Diecimila persone su 580 mila abitanti: il comitato “Genova solidale” con le semplici parole del suo nome ci è riuscito. L’ultimo sabato di gennaio abbiamo visto la sinistra ligure sfilare in cerca di una voce comune. C’erano il mondo cattolico, i volontari, le cooperative, studenti, pensionati, gente comune, chi non ha paura a definirsi ancora comunista e quanti, per il colore della pelle, il profilo del viso o la lingua, rientrano nella categoria degli immigrati. Anche se chiamarli stranieri è una nostra forzatura: pure loro, dopo anni precari di lavori e fatica, sono genovesi come i genovesi.
È la stessa composizione della piazza di diciotto anni fa: quando nei giorni ancora allegri alla vigilia del G8, il premier Silvio Berlusconi chiese per ragioni televisive di togliere il bucato dai davanzali e la città rispose con una parata di mutande stese. Poi arrivarono i black bloc, le molotov, i pestaggi in caserma e la festa finì. Ma quell’alleanza pacifica, vittima delle violenze di allora, è ancora viva. Perché succede a Genova e non nel resto d’Italia?
«Lei l’ha letta la lettera che il comitato ha inviato al Secolo XIX?», domanda il dottor Campus, mentre la cerca tra le carte che circondano il computer sulla sua piccola scrivania di casa. Abita con la moglie e i tre bambini in un palazzone, in cima a una salita sopra il quartiere Marassi. Un chirurgo di 49 anni, dopo ventuno di carriera come lui, in un’altra generazione si sarebbe probabilmente trasferito in uno di quei lussuosi appartamenti affacciati sul mare lungo corso Italia, in mezzo a imprenditori e commercialisti. La lenta discesa nella scala sociale dei nuovi medici italiani ha invece trattenuto Riccardo Campus e la sua famiglia sulle alture della città, in una zona molto più popolare e a buon mercato. Dal suo condominio al massimo si vede il torrente Bisagno. E quando ci sono manutenzioni da fare, il vecchio tubo che si rompe, il muro da stuccare, le pareti da ridipingere, il pediatra diventa idraulico, muratore, imbianchino. Il bilancio familiare non fa mancare nulla: due macchine, una domenica ogni tanto a sciare, le attività sportive dei figli. Ma deve rientrarci proprio tutto, anche il risparmio con i lavoretti fai da te. «Ecco la lettera», dice alla fine, dopo averla trovata.
L’ONDA DELLE PAROLE
L’ha scritta un professore di liceo, Domenico Saguato, uno dei fondatori di Genova solidale. Comincia così: «Le parole sono importanti. Le parole producono nella mente onde sia in superficie che in profondità, provocano reazioni, richiamano suoni e immagini, analogie e ricordi, paure e speranze...».
Non hanno la velocità delle parole digitali, masticate da Matteo Salvini e distribuite dagli algoritmi alle bocche dei tre milioni 610 mila 556 follower che il vicepremier-ministro dell’Interno vanta su Facebook. Sono invece parole lente da pronunciare ovunque, con «l’obiettivo di portare nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei quartieri una voce a favore dell’accoglienza, della solidarietà e della tolleranza», come è scritto sulla prima pagina Internet del comitato.
La semina però non s’inventa nei pochi giorni di un congresso di partito. Parte da molto lontano. Dalla storia multietnica di una città portuale. Dai testi proletari di Fabrizio De André. Da una fedeltà personale alla pazienza. E riaffiora nei vicoli. Oppure nei padiglioni dello splendido Museo del mare, che accanto alle testimonianze con foto, lettere e voci degli emigranti italiani di un tempo, ha avuto il coraggio culturale di affiancare i filmati, i racconti e i pezzi di legno dei barconi di quanti negli ultimi anni sono emigrati verso di noi. Non è poi così casuale che Genova sia anche la città di attivisti dei diritti umani contemporanei. Come Alessandra Ballerini, l’avvocato che ha evitato che venisse archiviato come incidente l’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano torturato e ucciso a 28 anni al Cairo da funzionari dello Stato egiziano.
«Ci sono andato anch’io alla manifestazione e ho portato i miei bambini», racconta il dottor Campus: «Muovere diecimila persone a Genova contro il razzismo è stato un grande risultato, che non ha avuto il meritato risalto nazionale». Ma in un’epoca sempre più lanciata alla ricerca del consenso digitale, dalle pagine Facebook della Lega alla Piattaforma Rousseau del Movimente 5 Stelle, ha ancora senso scendere in piazza? Non è da nostalgici degli anni Settanta, un po’ come ascoltare musica su dischi di vinile o fare fotografie con la pellicola?
«Rispondo prima di tutto da pediatra: siamo tra i Paesi europei che hanno fatto meno investimenti sulla famiglia e sulle nascite. Se vogliamo che la società continui a funzionare, è necessario che entrino persone. Il progetto nazionalista di Salvini non risponde alle esigenze e danneggia il futuro del Paese. Il suo è solo un modo per prendere voti facili: ma non risolve i problemi, non forma i nuovi lavoratori, non include gli stranieri. Manca manodopera, mancano cittadini. Non siamo nelle condizioni di poter rifiutare nuova immigrazione: quella che c’è adesso non basta a mantenere attivi i servizi. Venga con me un sabato mattina a fare jogging sul lungomare di corso Italia. L’invecchiamento della popolazione è ormai tangibile. Non vedo correre ventenni, non vedo giovani, vedo solo capelli bianchi, persone anziane e anche anzianissime».
Genova e la Liguria hanno l’età media più alta d’Italia: 48,2 anni, su una media nazionale di 44,4. Il 28,4 per cento dei liguri ha più di 65 anni. E solo l’11,3 per cento ha un’età compresa tra 0 e 14 anni, contro una percentuale nazionale del 13,5: in Nigeria bambini e ragazzini sono il 42 per cento, in Senegal 41,85, in Ecuador 27,52, in Albania 18,37, giusto per indicare alcune delle nazionalità che compongono la città.
LA PIRAMIDE DEI BAMBINI
La popolazione è in calo costante dal 1971. Da allora Genova ha perso 236.872 abitanti. Così come tutta la provincia. L’andamento coincide con la piramide dell’età della popolazione italiana residente. Un diagramma classico della demografia che deve il suo nome alla forma. Solo che da anni nei rapporti dell’Istat la piramide assomiglia sempre più a uno scoglio eroso alla base o alla sagoma di una nave vista di prua. Dopo i figli del boom economico, che oggi hanno tra i 40 e i 54 anni, più si scende per età più il diagramma si restringe: tanto che i futuri italiani, i bambini tra 0 e 4 anni, sono circa la metà dei quarantenni o dei cinquantenni di oggi.
«Sa cosa significa questo?», chiede il dottor Campus: «Ora le rispondo da medico di medicina generale: significa che quando diventeremo vecchi, non verrà nessuno a cambiarci il catetere. Significa che l’Ungheria, dopo aver chiuso le frontiere, ha dovuto alzare gli straordinari a 400 ore all’anno perché non hanno abbastanza lavoratori. Significa che se cade un palo della luce, mancheranno operai e per un mese non andrà nessuno a ripararlo». Il degrado delle infrastrutture e la scarsa manutenzione, proprio a Genova, hanno già superato il punto di non ritorno.
IL CROLLO E POI L’INSONNIA
Un’analisi delle conseguenze su bambini e adulti del crollo del ponte Morandi è stata pubblicata in questi giorni dai Quaderni dell’Associazione culturale pediatri, in un articolo firmato da Riccardo Campus, Alessandro Giannattasio e altri colleghi: «I dati raccolti hanno evidenziato: 196 adulti con sindromi di agitazione e/o disturbi del sonno; 44 adulti con assunzione di ansiolitici; 73 bambini con possibili sintomi psicosomatici: 39 per cento cefalea, 38 dolori addominali, 55 disturbi del sonno, 10 disturbi del comportamento».
L’invecchiamento generale della popolazione avrà presto conseguenze gravi anche sull’assistenza sanitaria. Secondo un recente studio dell’Associazione medici dirigenti, entro il 2025 non solo molti di noi rischiano di non avere il dottore della mutua, ma in Italia mancheranno sedicimilacinquecento specialisti: 4.180 in medicina d’urgenza, 3.323 in pediatria, 1.828 in medicina interna, 1.395 in anestesia e rianimazione, 1.274 in chirurgia generale e così via. È ormai considerato inevitabile un crollo della qualità generale del sistema: perché la velocità dei processi non concederà il tempo necessario al trasferimento di competenze dai medici più anziani a quelli con meno esperienza.
IL TURNO IN CARCERE
A questo si aggiunge la prevista carenza di medici di base: dovuta anche alle eccessive restrizioni nei numeri di accesso ai concorsi regionali degli ultimi anni, che ora si dimostrano insufficienti a coprire le future necessità.
Allo stesso tempo il precariato, con cui la sanità ha necessariamente aggirato il blocco delle assunzioni, costringe medici come il dottor Campus a inseguire contratti a termine: la guardia medica nei fine settimana, i turni di assistenza in carcere, le sostituzioni dei colleghi in ferie, più qualche prestazione privata da pediatra per arrotondare lo stipendio. «Un tempo per essere medico di base bastava la laurea», spiega Campus, «oggi non ci sono abbastanza posti nelle scuole regionali di medicina generale. I concorsi premiano il voto di laurea e la giovane età. Se sei un medico esperto, magari già specializzato in chirurgia o medicina interna, questo non vale nulla per il punteggio. Così colleghi che da anni fanno la guardia medica e tengono in piedi il sistema sanitario nazionale, perdono posizioni nella graduatoria perfino da precari. Eppure i medici per tamponare le carenze ci sarebbero».
«Ce ne siamo occupati per il sindacato Snami», continua il pediatra genovese, «abbiamo aperto la pagina Facebook “Voglio studiare”. La soluzione c’era: prevedeva, per i prossimi tre anni, la frequentazione del corso regionale di medicina generale, come sovrannumero e senza borsa di studio, per i medici precari che hanno almeno un anno di lavoro convenzionato e hanno ottenuto un punteggio sufficiente. Ma qualche dubbio di costituzionalità e le proteste di alcuni giovani colleghi che si sentivano scavalcati hanno convinto il ministero a rinviare il provvedimento». Ovviamente agli ultrasettantenni tutto questo fa un po’ paura. Anche perché a Genova l’aspettativa di vita si è allungata a 83 anni, ma gli ultimi studi dell’Istituto dei tumori evidenziano un peggioramento dello stato di salute: significa che si vive di più, ma ci si ammala prima. Comunque la maggioranza del governo gialloverde sembra molto attenta alla Liguria. Anche se la mancanza di medici e le conseguenze sugli sfollati del crollo del ponte non sono al momento in cima all’agenda. La questione questa settimana è il Festival di Sanremo. Come dire: cantate che vi passa purché, come prevede la nuova proposta di legge della Lega per i programmi alla radio, una canzone su tre sia italiana.