Era una zona di passaggio. Ma da quel terribile 14 agosto in cui è crollato il Ponte Morandi è isolata e deserta: i negozi chiudono, le piccole aziende licenziano. «Da un giorno all'altro siamo rimasti tutti senza lavoro e nessuno sembra accorgersi di noi»

«Mia figlia ha 5 anni e non sapevo come spiegarle quello che era successo. Come potevo dirle che il Ponte Morandi, che aveva visto ogni giorno da quando è nata, è caduto? Che su quel ponte sono morte 43 persone? Così le ho detto che il ponte era vecchio e tanto stanco. E che per riposarsi ha deciso di scendere giù». A parlare è Diana, 31 anni, nata e cresciuta in una casa così vicina al ponte Morandi che «quando lo hanno costruito hanno dovuto tagliare un pezzo del cornicione». Diana è una delle 566 persone che dal 14 agosto scorso hanno dovuto lasciare la propria abitazione dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova. «È un’esperienza terribile ritrovarsi senza casa da un giorno all’altro – racconta – Per fortuna in questa tragedia abbiamo scoperto di essere un quartiere molto unito: per ridere diciamo che noi non siamo sulla stessa barca, siamo tutti sotto lo stesso ponte». La casa di Diana si trova a Certosa, uno dei quartieri periferici di Genova, uno dei più popolosi della Valpolcevera che conta oltre 12mila abitanti e che si sviluppa intorno al Ponte Morandi. «Abbiamo passato tutta la vita guardando il Ponte – spiega Diana - lo percorrevamo sempre in macchina, portavamo il cane a spasso lì sotto e ci riparavamo dal sole all’ombra del Ponte. Casa mia è così vicina che ho sempre parlato con gli operai che lavoravano lì sopra: come nei film quando dai grattacieli si parla con il lavavetri».
 
Quello di Certosa è un quartiere storico, quasi rionale, in cui famiglie intere abitano da generazioni e dove ci si conosce tutti. La forza economica del quartiere però è sempre stata quella di essere una zona di passaggio obbligatoria per andare e venire da Genova, in cui chi tornava a casa dal lavoro si fermava per commissioni di ogni tipo. «A Certosa ci sono circa 350 attività commerciali» dice Fabio Carletti, vicepresidente del Municipio V «e per la maggior parte il fatturato si è sempre basato almeno al 50 per cento sul passaggio delle automobili».

Mentre parla Fabio cammina per via Walter Fillak che è chiusa dal 14 agosto. Sono le 18.30, un orario di punta per il traffico. «Qui a quest’ora c’è sempre stato un passaggio di macchine continuo – spiega - E invece dal 14 agosto è sempre così come lo si vede ora: deserto». La viabilità a Certosa è stata interrotta dopo la caduta del ponte e questa zona è ora del tutto isolata dal resto della città. Se prima per attraversare Certosa occorrevano dieci minuti oggi ci si impiega anche un’ora e mezza: un enorme disagio per i residenti e per i commercianti. «Ci sono aziende che purtroppo hanno già chiuso e altrettante che rischiano di dover chiudere nei prossimi mesi - prosegue Fabio guardandosi attorno - Il ponte Morandi purtroppo è crollato, ma ora non possiamo far morire anche Certosa». Fra i molti che subiscono disagi ci sono anche i residenti delle zone limitrofe al cantiere che dovranno cambiare residenza per tutta la durata della demolizione e ricostruzione del ponte. Per loro nella Manovra Finanziaria 2019 non è previsto nessun risarcimento: un grave problema per un quartiere già in difficoltà da tempo.
 
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In via Walter Fillack 168, al limite della zona rossa, si scorge una piccola pompa di benzina, con le macerie del Ponte Morandi alle spalle e le transenne che delimitano il perimetro del distributore. È una mattina piovosa e le gocce d’acqua scorrono copiose sull’ombrello di Toni mentre chiude la porta di vetro del casottino che affianca la pompa. Toni Fontanino, 59 anni, indossa un’impermeabile scuro e ha lo sguardo affranto mentre osserva quello che per tanti anni è stato il suo luogo di lavoro. «Siamo due soci e dal ’90 gestiamo questo distributore di carburante Eni – spiega – Non abbiamo più aperto dal 14 agosto scorso. Abbiamo dovuto sospendere l’attività per un anno. Il mio socio ha trovato un lavoro temporaneo come corriere espresso, ma io ho 59 anni e non ho trovato nulla. Posso solo sperare in un contributo per riuscire a tirare avanti fino a quando non ricostruiranno il ponte». Autostrade per l’Italia negli scorsi mesi ha pagato somme di parziale risarcimento a fondo perduto alle attività commerciali della zona arancione che hanno subito una riduzione a causa della chiusura della viabilità. Purtroppo però la situazione per i commercianti non è riuscita a migliorare nemmeno con questo indennizzo.
 
Come ci racconta Roberta Mariani che dal 1999 è socia e amministratrice unica della piscina comunale di Certosa: «Nei giorni immediatamente successivi alla caduta del ponte abbiamo ricevuto centinaia di richieste di sospensione degli abbonamenti. Abbiamo già registrato un calo del 10-12 per cento e non so quando la situazione potrà migliorare». Alla piscina comunale di Certosa si è registrato un calo soprattutto negli abbonamenti dei bambini: i genitori che dopo la scuola portavano i figli in piscina non possono più farlo se il tragitto da 10 minuti è diventato di un’ora e mezza. Il grave danno che stanno subendo i commercianti di Certosa si estende a tutti i tipi di attività, come ci spiega Marco Finelli, giovane titolare del Bar Giro dal 2011: «Abbiamo sempre lavorato molto con le colazioni, chi andava a lavorare a Sampierdarena passava da via Iori, dove si trova il nostro bar, si fermava per un cornetto e poi proseguiva verso il Ponte Morandi. Ora si passa dall’autostrada o da via 30 giugno, che è stata riaperta da poco e che sembrava dovesse migliorare la situazione. Per noi invece ha solo aumentato il disagio: da qui non passa più nessuno».
 
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Purtroppo fra le attività della zona che hanno subito un grave danno c’è anche chi ha già la certezza che non sarà più possibile rialzarsi. In molti hanno già chiuso i battenti e spedito la lettera di licenziamento ai propri dipendenti. È il caso della storica ditta Vergano, che da più di 60 anni vende materiale edile e che si trova nella zona arancione, al limite con quella rossa. Vergano ha 5 dipendenti: 2 segretarie e 3 magazzinieri, ma per loro la situazione è drasticamente cambiata dal 14 agosto. Ne parliamo con Fabrizio Giambarresi, 45 anni, magazziniere presso l’azienda.  «Dalla caduta del ponte non vendiamo più – dice Fabrizio - Continuiamo a tenere aperto, ma ben sapendo che al massimo riusciremo ad arrivare solo alla fine dell’anno. Già due dipendenti hanno ricevuto la lettera di licenziamento e noi tre saremo i prossimi. Io non voglio aiuti, chiedo solo di poter lavorare. Mi sento più sfollato degli sfollati: da un giorno all'altro siamo tutti senza lavoro e nessuno sembra accorgersi di noi». A essere in gravi difficoltà è anche il mercato di Certosa, nato nel dopoguerra e in cui lavorano più di 20 persone. “Abbiamo già dovuto salutare molti clienti che non torneranno più – spiega Federica Filanti, presidente del consorzio Mercato di Certosa - perché hanno dovuto cambiare casa oppure perché non riescono più a raggiungerci con l’auto. E non sembra che la situazione potrà migliorare presto”.
 
A pochi minuti da Certosa, in via Luigi Maria Levati, si trova un’area dismessa che è diventata un museo a cielo aperto. Poggiate su questo grande spiazzo nel bel mezzo della zona industriale di Genova si trovano le macerie del ponte Morandi. Tutta l’area è stata circondata da grandi teli scuri per impedire che gli autisti si fermino a bordo strada a osservare, ma nonostante i teli i cumuli di macerie son ben visibili e le persone che si fermano sono moltissime. Le macerie sono divise in tre enormi cumuli. Il primo è un ammasso grigio composto dalle pietre e dal cemento del viadotto. Il secondo ha il colore della ruggine e si staglia altissimo contro il cielo azzurro, sono i fili che costituivano l’ossatura del ponte. E infine c’è il terzo cumulo: disposte ordinatamente, tutte numerate, ci sono le carcasse delle macchine che quel giorno si trovavano sul ponte e che sono franate a terra. Alcune vetture hanno solo i vetri frantumati, altre invece sono completamente accartocciate sulle proprie lamiere e le macchie di sangue sono visibili in molti punti.
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«Non ci dimentichiamo mai che 43 persone su quel ponte hanno perso la vita. Noi sfollati mugugniamo, ci lamentiamo, ma non dimentichiamoci che siamo vivi». Virgilio Tasso ha 68 anni e abitava in via Porro, proprio «sotto quel moncone di ponte che è caduto». Virgilio ha il viso abbronzato e dei grandi occhi azzurri, ha il fisico robusto di un uomo di mare. Si è trasferito nel ’71 a Certosa, scelto come quartiere insieme alla moglie per mettere su famiglia e crescere i figli. Ora anche lui fa parte degli sfollati in attesa di una nuova casa. «Ho 68 anni, tutti vissuti a Genova, ho sempre lavorato come portuale – racconta con voce spezzata – A questo punto della mia vita volevo solo rilassarmi e godermi la vecchiaia.»

Mentre parla Virgilio si trova nel punto esatto di via Fillack in cui comincia la zona rossa, si appoggia alle transenne mentre intorno a lui i vigili del fuoco controllano che nessuno oltrepassi quel muro invisibile. “So che sembra stupido, ma mi si spezza il cuore a pensare che demoliranno le nostre case. L’altra notte ho scritto una canzone. Ho modificato le parole di una storica canzone genovese “Piccon dagghe ciannin” che racconta di quando negli anni ’50 un intero colle della città venne demolito. L’ho adattata alla caduta del ponte”. Virgilio si guarda intorno e comincia a cantare con voce profonda: “In ta cá duve mi o acatœ– La casa che mi comprai / che a l’è en via Porru – che è in via Porro / a stan caciandu zu con e rûspe / la stanno demolendo con le ruspe. Oua sun triste/Ora mi sento triste/ sun murte quarantatrei persune/ sono morte quarantatre persone/ pe nu mette a postu u ponte/ per non mettere apposto il ponte/ e chesta gente ki gnianca a cianzemu/ e queste persone noi le piangiamo. Oua mi digu/ Ma io dico/ chestu punte i l’an feitu vegnii zu/ questo ponte l’han fatto crollare/ e oua niatri semu sfulà/ e ora noi siamo sfollati/ e nu seimu duve anà, cianzemu e pensemu au tempu/ non sappiamo dove andare, piangiamo e pensiamo al tempo”.