La storia dei ragazzi migranti cacciati dal sindaco, accolti dalla città

Quattro dei migranti che hanno trovato ospitalità a Castell'Umberto
Quattro dei migranti che hanno trovato ospitalità a Castell'Umberto

Castell'Umberto è un paese di tremila anime sui monti Nebrodi dove due anni fa arrivano trenta giovani. Il primo cittadino vuole respingerli ma la popolazione fa il contrario: l'inizio di una vicenda meravigliosa di lotta e di umanità

Quattro dei migranti che hanno trovato ospitalità a Castell'Umberto
L’orrore comincia sempre con l’equivalenza tra un essere umano e un numero. Un numero impresso sulla pelle, un numero attaccato al collo con un cartello, un numero di passaporto. Se accetti questa premessa, poi non devi fare altro che compiere delle semplici operazioni. Aggiungere, sottrarre, dividere, moltiplicare. Nell’astrazione del calcolo matematico i numeri si distanziano dalle persone e vivono di vita propria. Diventano la legge senza giustizia e diritto della forza.

Eppure, a ben vedere, il fascino della matematica non sta nell’aridità del calcolo, bensì nella meraviglia dell’ esplorazione del non noto, nel viaggio nell’infinito, nella scoperta dell’unicità di ogni numero. E allora se vuoi rovesciare l’orrore nella pietà, se vuoi sostituire all’odio la comprensione, se vuoi mettere il diritto prima della forza, devi capovolgere quel paradigma: «La vita umana non si può calcolare come un numero. Per questo nessuno deve essere abbandonato in mezzo al mare», mi dice Alessandra Sciurba, attivista di Mediterranea Saving Humans, appena scesa dalla Sea Watch 3 al largo di Siracusa e dopo aver presentato un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani per sapere «se il governo italiano, impedendo lo sbarco, stia violando i diritti fondamentali delle persone soccorse».

Incontrare quegli esseri umani prigionieri di un’Italia truce e disumana, significa mettere le persone al posto dei numeri. Guardare negli occhi, stringere una mano, carezzare un viso. Incontrare qualcuno che deve essere salvato per salvare non solo la sua vita ma anche la propria umanità: «Nei loro occhi c’è il terrore, sui loro corpi i segni delle violenze che hanno subito. Hanno paura e non ce la fanno più. Per loro, a un passo dall’Europa dei diritti umani, è inconcepibile essere respinti», racconta Alessandra dopo avere incontrato i minori bloccati sulla nave. Ma, dietro quella nave, trasformata nel galleggiante palcoscenico di una disumana dimostrazione di forza senza diritto, si muovono, come ombre cinesi, i protagonisti di altre storie. Uomini e donne impegnate nel rovesciare il paradigma dell’Italia truce. Prima gli essere umani, sembra dire questa storia che voglio raccontarvi, che ho scoperto in Sicilia grazie agli attivisti di Mediterranea.

 «Con un atto unilaterale senza preavviso un minuto fa la prefettura di Messina mi ha semplicemente informato che trenta immigrati in nottata saranno trasferiti presso l’hotel “Il Canguro”. Non ritengo questo un atto di coinvolgimento istituzionale corretto per gli ovvi motivi di ricaduta sulla nostra comunità. La gestione è stata data ad una cooperativa di Palermo. Mi sto recando immediatamente sul luogo dove indossando la fascia tricolore bloccherò l’ingresso con la mia autovettura della struttura alberghiera e li rimarrò»: così, con virile sprezzo del pericolo, parlava la notte tra il 14 e il 15 luglio del 2017 l’eroico Vincenzo Leonetto Civa, sindaco di Castell’Umberto, piccolo centro di 3 mila anime sui Nebrodi, in provincia di Messina, dove la prefettura aveva deciso di collocare temporaneamente un gruppo di minori giunti dalla Libia. Insieme al sindaco arrivano altre persone che protestano contro questa “invasione”. L’hotel Canguro in realtà, dal punto di vista amministrativo è nel comune limitrofo di Sinagra, ma insiste prevalentemente su Castell’Umberto. Il circo mediatico dà il meglio di sé e quella notte Castell’Umberto diviene l’ennesimo simbolo della «invasione dei migranti. La destra cavalca la protesta.

Ora, proviamo invece a invertire il punti di vista, vediamo le cose con gli occhi di chi è appena arrivato, già stremato e impaurito da una lunga odissea. Racconta Alfa, uno dei ragazzi: «Quella notte, quando siamo arrivati, ho visto tutta quella gente fuori dal centro e pensavo che fossero lì per accoglierci, poi quando ho capito che invece protestavano contro di noi ho capito che non potevamo uscire e ho avuto paura».

A quel punto però, scatta anche qualcos’altro, di segno opposto. Racconta Sonia Randazzo, avvocata, una delle promotrici del coordinamento Senza Frontiere: «Ci siamo resi conto di quanto orrenda fosse la sensazione di vivere in un posto che, all’improvviso, rigurgitava razzismo. Di colpo i nostri concittadini parlavano di forni crematori, di ruspe, di fucili, di stermini. In quel clima, l’idiota che prima si sarebbe vergognato a dire certe cose si è sentito legittimato. Vivere queste sensazioni in una piccola comunità era insostenibile; eravamo sull’orlo del baratro, e su quell’orlo abbiamo raccolto ogni briciola di lucidità rimasta ed abbiamo capito che se tutto fosse passato in silenzio, non sarebbe più stato possibile tornare indietro. Abbiamo deciso di reagire nonostante tanti fossero gli attestati di stima e le dichiarazioni di solidarietà, tra i quali spiccavano quelli di Casa Pound, Forza Nuova e Matteo Salvini. Lo stesso Matteo Salvini che voleva “lavarci con la lava”, all’improvviso si era svegliato twittando “solidarietà” a Castell’Umberto».

Un modo per speculare, in maniera razzista e per soli fini elettorali, su una vicenda che stava facendo fare i conti con umanità e paura a quasi tremila anime. Sin dal primo istante, abbiamo sentito il bisogno di urlare a gran voce che il nostro paese è umano, ed a passare per razzista non ci sta proprio. Che nessuno di noi era ciò che volevano far apparire per becere ragioni di visibilità. Era il momento in cui non si poteva più dire “Non sono razzista, ma”, in quel momento quei “ma” non erano ammessi».

Il rifiuto dunque di accettare quella distorsione d’identità proiettata dal circo mediatico, senza negare però le paure generate e, anzi, affrontandole direttamente. «In meno di 48 ore», racconta Sonia, «abbiamo convocato un’assemblea cittadina. La sala consiliare e i corridoi del Comune erano colmi di gente accorsa da tutto il paese e dai paesi limitrofi, la diretta streaming ha avuto problemi per l’alto numero di utenti connessi».

A quel punto succede qualcosa. Quell’assemblea non è solo uno sfogo. Alcuni cittadini, riuniti nel Coordinamento Senza Frontiere, non si limitano alle parole. «Visto che il Comune non intendeva offrire nulla, e che la cooperativa non proponeva alcun piano di inserimento di quei ragazzi», racconta Filippo Filippeschi, «abbiamo pensato di fare qualcosa in prima persona. Senza chiedere soldi pubblici o interventi delle autorità, basandoci solo sulle nostre forze».

Comincia un percorso quotidiano fatto di incontri, discussioni, occasioni, pratiche. «Ognuno mette a disposizione quel che sa e che può fare non solo e non tanto per assistere, bensì per consentire a ciascuno di questi ragazzi di camminare con le proprie gambe. Non eravamo certo sicuri di farcela, però eravamo certi di doverci provare», spiega Filippo. Così fioriscono iniziative, il tempo si riempie di cose da fare, di mestieri da imparare, di luoghi da scoprire. Sì anche di luoghi da scoprire, affinché tra quelle montagne ciascuno di quei ragazzi possa scoprire nuove cose, rintracciare assonanze e evocare ricordi della propria terra. È così che Franco Blandi, insegnante, una vita da militante e dirigente politico della sinistra messinese, decide di fare un corso di fotografia, cui si iscrivono i ragazzi migranti, ma anche abitanti del luogo: «Il corso di fotografia comprendeva lezioni in aula e uscite sul territorio, abbiamo creato un legame che resterà», mi spiega Franco.

«Sono stati tutti bravi, bravi, bravi», racconta Omar, 19 anni, che prosegue: «Ho lasciato la Libia nel maggio del 2017. Eravamo in 120, prima su un gommone, avevano i bastoni per picchiarci e costringere le persone a scendere; poi siamo saliti su una barca. Non sapevamo cosa ci attendeva al di là del mare. In due sono morti, noi ce l’abbiamo fatta e siamo sbarcati a Lampedusa. Ho fatto l’esame di italiano, vado in biblioteca a studiare, ho conosciuto ragazzi della mia età, così imparo meglio la lingua, perché vorrei restare in Italia. Ho anche imparato a giocare a calcio».

Spiega Benedict: «In Nigeria facevo l’insegnante e allora qua mi sono messo a insegnare l’inglese. Anche agli italiani, ma ora fa freddo e abbiamo dovuto chiudere». Ricorda Alfa: «Sono arrivato dalla Guinea a 16 anni. Ho studiato informatica e lavoravo in un negozio di elettronica. Ho imparato la lingua, il mio sogno è continuare a studiare informatica e aprire una mia azienda. La mia mamma qua si chiama Sarina e grazie a lei non ho più paura». Sarina è una dolcissima signora dai capelli bianchi, ex parrucchiera, che alla domanda sul perché abbia deciso di aiutare questi ragazzi risponde con disarmante semplicità: «Perché, scusa, cos’altro potevo fare?».

«È successa una cosa straordinaria: ad accogliere i ragazzi non sono stati i soli membri del nostro Coordinamento, ma quasi l’intera comunità umbertina. Grazie all’iniziativa “Aggiungi un posto a tavola”, da noi promossa e portata avanti per molti mesi, i ragazzi sono stati ospiti dei pranzi domenicali delle famiglie del paese. Questa iniziativa ha permesso, anche a chi quei picchetti li aveva organizzati, di conoscere lo “straniero” e di non averne più paura», dice Sonia.

Innumerevoli compleanni, feste, corsi, libri e foto dopo, l’incantesimo potrebbe sembrare finito: l’hotel ha chiuso, molti di quei ragazzi hanno perso il diritto alla protezione umanitaria e si sono dispersi, altri sono in attesa dei ricorsi. Raccontava Sonia nei giorni in cui entrava in vigore il decreto sicurezza: «Oggi nessuno di noi è più un volto uguale a tutti gli altri, ogni viso ha il suo nome e la sua storia, ma in questi giorni viviamo l’insostenibile peso di dover tranquillizzare gli animi dei nostri amici che tra qualche giorno verranno portati via. Forse verranno portati via nel silenzio della notte, come sono arrivati, trattati come merci. Se per le istituzioni nulla è cambiato rispetto a quel 14 luglio 2017, per noi è cambiato tutto, e quel tutto è una grande e coloratissima matassa di vite ed emozioni che, con tanta fatica, abbiamo costruito insieme».

Sei di quei ragazzi però, malgrado leggi disumane, cinismi istituzionali e indifferenza, sono rimasti, hanno trovato amici, lavoro, affetti. «Alfa e Adam», mi racconta Filippo, «lavorano in un biscottificio che fa prodotti di qualità e di eccellenza, anche grazie a dei corsi di formazione che sono stati attivati. Humar fa il badante di una persona disabile, Michael fa il collaboratore domestico, Benedict e Seku cercano un lavoro, possono insegnare». Conclude Sonia: «Per noi, quel 14 luglio, questi ragazzi erano dei visi sconosciuti difficili da distinguere, dei nomi troppo complicati da pronunciare, e degli occhi pieni di paure e speranze impossibili da decifrare. Anche noi, per loro, eravamo così. Giorno dopo giorno, fra feste di compleanno e cinema, lezioni di italiano (per loro) e lezioni di inglese (per noi), fra una partita a pallone e una gara al gioco del fazzoletto, non ci siamo solamente conosciuti, ma siamo diventati amici, confidenti, rifugi. Siamo diventati famiglia».

LEGGI ANCHE

L'edicola

25 aprile ora e sempre - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 18 aprile, è disponibile in edicola e in app