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Politica
marzo, 2019

I segreti del Pd di Nicola Zingaretti tra uomini, strategie e (soprattutto) nemici

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Da Gentiloni a Bettini, al segretario personale Del Giudice: ecco chi sta consigliano il governatore del Lazio per la scalata al partito democratico. I fedelissimi vogliono costruire una macchina della comunicazione capace di contrastare quella di Salvini e quella della Casaleggio. Mentre Matteo Renzi e Calenda giocano su più tavoli

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Vedendo il bicchiere mezzo vuoto, si può sostenere con più di un’evidenza che il Partito democratico resta in stato catatonico. Un corpo politico moribondo, da cui sembra impresa impossibile cavare un’idea politica, o uno straccio di strategia utile a riconquistare il consenso perduto. Certamente, insistono i pessimisti, privo al suo interno di leader carismatici, capaci di narrazioni alternative che possano impensierire la travolgente propaganda sovranista di Matteo Salvini.

Il bicchiere mezzo vuoto evidenzia che i sondaggi - a tre mesi dalle Europee - inchiodano il Pd a percentuali addirittura inferiori al disastroso 18,7 per cento preso alle Politiche di un anno fa. «In Abruzzo siamo crollati all’11 per cento. La Sardegna? Un amministratore capace come Massimo Zedda s’è beccato 15 punti di distanza dal neoleghista Christian Solinas, uno famoso solo per aver ottenuto una laurea farlocca all’università di Santa Fè in New Mexico. Chi festeggia è un cretino», spiegano con qualche ragione gli sconfortati.
Tutto vero. Ma volendo, si può anche invertire la prospettiva. E asserire, senza passare per pazzi, che in realtà il calice è mezzo pieno. È un fatto che la barca del Pd, nonostante sia senza nessuno al timone dalla bellezza di 11 mesi, sia infatti ancora in campo a regatare. Alle regionali Giovanni Legnini e Zedda, “nascondendo” il partito in una coalizione di centrosinistra larga, plurale e civica, hanno sì perduto contro le destre, ma sono riusciti a surclassare il M5S. Un risultato che solo qualche mese fa sembrava fantascientifico.

Nonostante infinite guerre intestine e odi feroci tra correnti, nonostante arresti eccellenti di parenti importanti e un’opposizione eufemisticamente poco efficace, i democratici vantano ancora uno zoccolo duro di fan: i sondaggi degli ultimi giorni segnalano che poco meno di un quinto degli italiani dice di voler votare Pd. Un partito che sembra il “nero” di Raiuno, che può arrivare a uno share del 19 per cento anche se le trasmissioni si interrompono per problemi tecnici.

Dopo il crac di un anno fa, intendiamoci, il Pd è in macerie. E le primarie del 3 marzo tra Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e la coppia Roberto Giachetti-Anna Ascani rappresentano l’ennesimo, disperato tentativo di ripartenza. Militanti, ottimisti e più di un addetto ai lavori scommettono che, con una campagna elettorale decente e qualche slogan azzeccato, il partito dato per defunto potrebbe il 26 maggio raggiungere, in termini di preferenze, il M5S.

Però tutti, pessimisti o fiduciosi, militanti e politologi, sanno che le Europee sono l’ultima spiaggia per costruire una linea politica chiara e ridare un’anima al partito. L’extrema ratio per disegnare una leadership competitiva; per strutturare una war-room in grado di combattere ad armi pari contro la “Bestia” (la potente macchina del consenso guidata dello stratega di Salvini, Luca Morisi) e contro il sistema comunicativo - in crisi ma ancora poderoso - di Rocco Casalino, Pietro Dettori e gli altri ragazzi della Casaleggio associati.

«Cambiamo tutto!», «Voltiamo pagina», «Prima le persone», «Tempo di ricostruire» sono i motti della campagna del grande favorito alla segreteria Zingaretti. Ma finora non è chiaro che cosa succederà al Pd se il governatore del Lazio dovesse prendere il posto che fu di Renzi. Quali sono i suoi fedelissimi e i suoi veri referenti? Quali sono le idee forti per rilanciare il partito? Quali le proposte per il Paese? E la sua politica delle alleanze? Che schema di gioco stanno mettendo a punto le teste d’uovo di Nicola per giocarsi la rivincita e tornare a Palazzo Chigi?

Di sicuro Zingaretti non può indossare i panni dell’homo novus come fece il Rottamatore di Rignano sull’Arno. Classe 1965, il fratello del commissario Montalbano fa politica da quando ha vent’anni. Ha militato nel Pci, e governa nella Capitale, prima in Provincia poi in Regione, dal lontano 2008. Punti deboli indicati da antipatizzanti e addetti ai lavori: poco carismatico per trascinare le folle, eccessivamente prudente, troppo di sinistra.

Renzi e il suo alfiere Giachetti lo ripetono da mesi: «Non ci fidiamo di Nicola, vuole far rinascere il Pds. Così siamo destinati all’irrilevanza». Per danneggiare quello che considera l’avversario più pericoloso per il suo futuro politico, l’ex segretario ha diviso le truppe tra la mozione di Martina (appoggiata da Graziano Delrio, Luca Lotti, Lorenzo Guerini e Matteo Richetti) e quella del duplex Giachetti-Ascani, sostenuta da pezzi da Novanta del Giglio magico come Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi. Obiettivo finale: evitare un plebiscito per Nicola, e restare ago della bilancia al congresso che verrà.

Renzi, in effetti, non è affatto sicuro di fondare un nuovo partito personale: i rilevamenti degli istituti demoscopici non premiano l’operazione, mentre i finanziatori latitano (Matteo ha chiesto consigli per lanciare un fundraising a tappeto anche all’ex presidente della Cassa depositi e prestiti Claudio Costamagna e a Gabriele Lucentini, ex capo delle relazioni istituzionali di Cdp). Uscendo ora dal Pd, inoltre, l’autore di “Un’altra strada” rischierebbe di non toccare più palla nemmeno nel suo feudo di Firenze, dove il 26 maggio il sindaco Dario Nardella si giocherà la rielezione.

Di fronte agli attacchi degli avversari, Zingaretti ribatte che, all’inverso, il suo sarà un partito assai più aperto di quello renziano. Capace di allargarsi al mondo cattolico, al civismo progressista, a esperienze movimentiste. Una sorta di vecchio Ulivo dentro un unico contenitore, il Pd appunto, perno di un centrosinistra “senza trattino” capace di allearsi con i fuoriusciti di Leu e con il nascente polo di +Europa e “Italia in Comune” di Federico Pizzarotti.

La lista per le Europee a cui Zingaretti e i suoi uomini lavorano da settimane dovrebbe dare subito il senso della svolta. Nella lista aperta sognerebbe l’inserimento non solo di “federatori” come l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che sarà capolista al Nord, ma anche quello di personaggi della società civile come Ilaria Cucchi (che però ha già declinato l'offerta), che combatte da anni per ottenere giustizia per l’uccisione del fratello Stefano, o Giuseppe Antoci, l’ex presidente del Parco dei Nebrodi in Sicilia che nel 2016 scampò a un attentato mafioso.

Una lista che manterrà il simbolo del Pd: anche se Zingaretti ha firmato il manifesto di Carlo Calenda “Siamo Europei”, non sembra avere alcuna intenzione di sciogliere il partito nel listone calendiano. «Carlo è iscritto al Pd, ed è una grande risorsa. Noi vorremmo fosse capolista dell’Italia centrale. Ma nelle fila del Partito democratico», ragionano dall’entourage del governatore laziale. In effetti, il “fronte repubblicano” dell’ex ministro dello Sviluppo economico, accolto inizialmente con entusiasmo dai media e da pezzi della Confindustria (in primis Alberto Bombassei e altri liberali centristi, che hanno promesso appoggi e finanziamenti) si è via via indebolito. Non solo perché appare improbabile che un segretario che ha appena vinto le primarie consegni le chiavi della sua nuova casa a chi non ha nemmeno partecipato alla tenzone. Ma anche perché la coalizione immaginata da Calenda ha perso per strada quasi tutti i pezzi: i Verdi, +Europa e pure Pizzarotti hanno escluso di voler partecipare a un rassemblement insieme ai democratici.

Per superare di slancio l’europeismo di Calenda c’è qualche influente consigliere di Zingaretti che suggerisce di estremizzare il concetto, candidando nelle liste del Pd personalità che non hanno passaporto italiano. «Il miglior esempio di europeismo è metterlo in pratica», ripetono al governatore. Che nicchia, ma non esclude la mossa che sarebbe clamorosa.

L’obiettivo primario della squadra di Zingaretti è quello di portare il Pd al 20 per cento. Mediaticamente, sarebbe già un segno di vita. Contemporaneamente, è necessario ridisegnare da cima a fondo un partito allo sbando. I fedelissimi che lavorano al progetto vanno divisi in due gruppi: da un lato coloro che ricoprono ruoli “operativi”, dall’altro i consiglieri politici. Cioè gli amici, intellettuali e big della sinistra a cui l’ex capo dei giovani comunisti chiede suggerimenti su programmi e contenuti.

Zingaretti è infatti un leader atipico: non ha mai avuto un vero e proprio cerchio magico, paragonabile a quello che gravitava intorno a Renzi o a quello che sta fagocitando Luigi Di Maio. «Nicola è una monade. Non è mai esistita una corrente degli “zingarettiani”. Ci sono persone a cui lui affida dei compiti precisi, ma la struttura è fatta a compartimenti stagno. Spesso i suoi principali mentori non si conoscono nemmeno», spiega chi lavora con lui da tempo.

Uomo ombra di Zingaretti è certamente Stefano Del Giudice, il suo segretario personale. Qualcuno lo paragona a Franco Bellacci, il factotum e gestore dei profili social di Renzi. In realtà, Del Giudice vanta con il suo leader un legame ancora più stretto. «Stefano gli filtra ogni telefonata, qualsiasi appuntamento. Anche se qualcuno riesce a scavalcarlo, parlando direttamente con Nicola, lui viene sempre a saperlo. In automatico».

Se Del Giudice è un Mr Wolf che gestisce l’agenda e risolve problemi dai tempi della Provincia di Roma, il pacchetto di mischia è composto anche dal portavoce Andrea Cappelli, dal vice capo di Gabinetto Andrea Cocco e da Carlo Guarino, che cura social e comunicazione. Punta di diamante della comitiva è l’ex di Rifondazione comunista Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione Lazio e coordinatore dei 700 comitati di “Piazza Grande” (questo il nome dato agli eventi della mozione; per manifestazioni e spot finora sono stati spesi 70 mila euro).

Marco Miccoli, ex deputato, Michele Meta e Mario Ciarla sono invece i tre luogotenenti che devono battere il territorio per costruire una rete che vada al di là del Grande Raccordo Anulare. Profili, secondo i critici, troppo deboli per avere a che fare con mammasantissima come Vincenzo De Luca o i Pittella in Basilicata.
Le teste politiche che stanno disegnando alleanze e strategie sono invece altre. In primis Paola De Micheli, una dei pochi parlamentari piddini (una trentina) su cui Zingaretti può contare al 100 per cento; poi David Sassoli, diventato gli occhi e le orecchie di Nicola a Bruxelles; Pierfrancesco Majorino e Lia Quartapelle, avamposti in una regione chiave come la Lombardia; e soprattutto Valentino Valentini, braccio destro del governatore Catiuscia Marini in Umbria. Produttore di Sagrantino e giovanissimo ex sindaco di Montefalco, Valentini ha cervello fino e idee iperprogressiste, e spinge affinché Zingaretti sposi politiche economiche e sociali che riportino nell’alveo del Pd gli ultimi e i lavoratori dei ceti mediobassi. «Quelli», ripete, «che Renzi ha lasciato per strada e che hanno cercato nuova rappresentanza politica nei Cinque Stelle».

La Zingaretti Economy sarà affare anche di Antonio Misiani, deputato, che spinge sulla green economy e sull’“economia giusta” basata su investimenti pubblici, una tassazione più equa, un reddito di inclusione più generoso e l’abiura definitiva del Jobs Act. Il colpo di genio, quello che fa sognare il popolo e gonfiare le urne, come è stato per il reddito di cittadinanza per il M5S e Quota 100 per la Lega, i ragazzi del governatore romano non l’hanno ancora però avuto. Una provocazione esplosiva alla Alexandria Ocasio-Cortez (la parlamentare democratica di New York che ha ipotizzato di tassare i super ricchi con un’aliquota dell’80 per cento) viene giudicata troppo divisiva. E anche le soluzioni alla complessa questione dei flussi migratori restano nebulose.

Sulle alleanze future, invece, Zingaretti ha meno dubbi: per ora non si può dire esplicitamente, ma dialogare con il pezzo più a sinistra dei Cinque Stelle, quello degli ortodossi di Roberto Fico e dei dissidenti, non solo è possibile, ma doveroso. Qualcuno scommette che in caso di caduta del governo Conte Nicola non direbbe subito no a un esecutivo Pd-M5S per evitare nuove elezioni. Soprattutto se a chiederlo fosse il presidente Sergio Mattarella (a proposito: i rapporti con il Quirinale sono mediati dal consigliere Giovanni Grasso), è possibile che i parlamentari piddini vengano davvero scongelati.

Fantapolitica, per ora. Zingaretti nell’immediato pensa ad altro. Con Paolo Gentiloni (che dovrebbe diventare presidente del Pd) e Romano Prodi, i suoi principali padrini politici, ragiona dei confini ampi che dovrà avere il nuovo partito. Mentre il maestro Goffredo Bettini gli ricorda, come un mantra, la sua vecchia lezione: «Cautela sempre, mai esporsi finché non si è certi della propria forza». Con lo storico Umberto Gentiloni, suo amico personale, dibatte del programma elettorale. Con la vicepresidente dell’Emilia-Romagna Elisabetta Gualmini e la giuslavorista Lucia Valente di politica economica e del rilancio del tema del lavoro. Con Ezio Curzio, funzionario della Fao in eccellenti rapporti con capi di Stato di mezzo mondo, di politica internazionale ed europea.
Anche pezzi del mondo cattolico, come il cardinale Gianfranco Ravasi, Ernesto Preziosi di Argomenti 2000, l’arcivescovo Bruno Forte e monsignor Nunzio Galantino, guardano la sua scalata con interesse crescente. Paolo Ciani, consigliere regionale e membro della Comunità di Sant’Egidio, è uno dei pontieri di Zingaretti nell’associazionismo cattolico, terrorizzato dal boom della destra sovranista.

Per combatterla nel Pd sanno che bisognerà ricostruire da zero l’immagine del partito e del suo timoniere. Su Facebook Martina ha 91 mila follower, Giachetti 76 mila, Zingaretti 240 mila. Numeri ridicoli rispetto a quelli di Salvini e Di Maio, che viaggiano tra i 2 e i 3,5 milioni. Gli zingarettiani spiegano che il loro capo non farà mai uso bulimico o “pop” del web e della televisione («sarebbe sbagliato forzare la sua natura, otterremmo l’effetto-boomerang di Mario Monti che per sembrare più alla mano si fece intervistare con un cagnolino sulle gambe»).

Ma ammettono - in primis il consulente Francesco Taddeucci dell’agenzia SuperHumans - che bisognerà costruire un profilo accattivante e diffonderlo ovunque. Puntare sull’eroe “buono”, “umile ma determinato”, e semplificare il linguaggio politico (da Barbara D’Urso Zingaretti ha evitato in effetti messaggi complessi, riuscendo però a guadagnare dal pubblico in studio due applausi contro le 21 ovazioni dedicate a Salvini un mese prima) sarà solo il primo passo. Come gli ha suggerito anche il politologo Mauro Calise, «serve una vera rivoluzione comunicativa». E la creazione di un team di specialisti capace di monitorare il sentiment dell’elettorato, di produrre contenuti di propaganda innovativi, di imporsi sulla rete senza fare uso di eccessi (il bagno nella piscina gelata di Calenda è già leggenda) e fake news. In caso contrario, il fallimento è già scritto. E tutti vedranno solo un bicchiere vuoto.

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Aggiornamento del 4 marzo 2019
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