Dal movimento No Tav alla Siria, per la lotta partigiana dei Curdi contro Daesh. Cinque ragazzi di Torino rischiano ora una sentenza per “pericolosità sociale”. Le loro storie e il disegno di Zerocalcare

Jak e Paolo insieme ad altri compagni

Eddi, Davide, Jacopo, Jak e Paolo. Cinque ragazzi italiani che rischiano la sorveglianza speciale. Accusati di essere socialmente pericolosi. La loro colpa: sono andati in Medio Oriente a combattere, a fianco dei curdi, lo Stato Islamico. Quel Califfato che ha martoriato quelle terre e che ha seminato terrore in Europa, a Parigi, Bruxelles, Londra, Barcellona.

Idealisti, generosi, arrabbiati. In Italia, i cinque ragazzi erano impegnati attivamente in movimenti sociali e di protesta. Poi la causa curda: tre di loro hanno combattuto nelle Ypg, l’Unità di protezione del popolo curdo, una nelle Ypj, l’Unità di protezione delle donne. A Jacopo si contestano invece i servizi giornalistici pubblicati sul suo blog.
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Per la procura di Torino è necessaria la misura di prevenzione, che comporta l’espulsione da Torino per due anni (pena prorogabile), il sequestro di patente e passaporto, l’obbligo di firma e di dimora, oltre al divieto di svolgere attività sociali e politiche: i loro articoli, l’aver partecipato a manifestazioni, la capacità di usare armi acquisita in terra siriana sarebbero prove della loro pericolosità. «L’accusa sostiene che le competenze maturate sul piano militare potrebbero essere riversate nel contesto No Tav», spiega Claudio Novaro, avvocato che difende tre di loro. «Questa idea apodittica poteva avere senso ai tempi della lotta armata e delle Brigate Rosse. Oggi un’analogia simile non si spiega se non per una deliberata volontà di criminalizzare il conflitto sociale».

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Un processo alle intenzioni e alle idee, lo ha definito il giurista Ugo Mattei, primo firmatario di un appello in loro favore, sottoscritto da oltre trecento personalità del mondo della cultura. «Considerato l’accanimento dimostrato fin qui nel perseguire i No Tav», sostiene Mattei, «c’è il rischio di vedere utilizzato il diritto penale come arma per impedire qualsiasi soggettività politica o manifestazione di dissenso». La prossima udienza per decidere sulla Sorveglianza speciale è fissata a Torino per il 25 marzo.
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Paolo detto “Libertà”

«Ho conosciuto la società del Rojava, anticapitalistica, ecologista e femminista, dopo un’esperienza nei campi profughi in Turchia, nel 2014. Già in quel momento ho preso la decisione di arruolarmi», dice Paolo, attivista da sempre, anche nel movimento No Tav, che per anni ha frequentato la casa occupata Barocchio di Grugliasco. Per mesi è stato ai domiciliari per disordini con la Polizia davanti al carcere Le Vallette di Torino. Prima aveva solo l’obbligo di firma, ma restare in Siria ha peggiorato la sua condizione.

È partito da Pachino, in provincia di Siracusa: per questo è per tutti Paolo Pachino. Padre venditore ambulante: «Preoccupati della mia scelta come ogni genitore, non mi hanno impedito di fare ciò in cui credo». Paolo è appassionato di cucina: «A 14 anni ero già ai fornelli, a 18 mi sono spostato a Torino per fare il cuoco». Oggi di anni ne ha 28. Sul profilo Facebook ha il volto di Cem, una combattente ventenne delle Ypj, caduta ad Afrin. «In Siria è tutto collettivizzato, le risorse sono divise tra le famiglie», racconta. Lui arriva ad agosto 2016, rimarrà quasi un anno. Prima tappa, la formazione: per gli internazionalisti, coloro che vengono da Paesi stranieri, bisogna imparare la lingua, il kurmanji. «Nessuno parla inglese, pochi arabo». Infine il contestato addestramento militare: «Come si monta e smonta un’arma. Tra gli “internazionali ci sono inglesi, statunitensi e francesi. Quest’ultimi sono la maggioranza». Chi combatte ha un nome curdo, quasi a sancire una seconda rinascita. Paolo è detto Azadì, libertà: «Sono stato io a deciderlo: è il concetto che più mi rappresenta». La notte del 25 aprile 2017, Paolo sta per tornare, ma i turchi bombardano il comando generale dell’Ypg e l’accademia delle Ypg a Karacock. Quella internazionalista dove dorme è risparmiata: «Ci aveva salvati il fatto di provenire da Paesi più influenti». Ci saranno 32 morti. Parte di nuovo a marzo 2018 e torna a novembre. «Rifarei tutto. Mi sentirò Ypg a vita, non è un esercito invasore, colonialista o militarista, ma di liberazione. Il mio pensiero ogni giorno va ai miei compagni, vivi e martiri. La lotta è vita, la vita è amore, l’amore è rivoluzione».

Jak, albero e fuoco

«La giornata tipo di un combattente delle Ypg inizia alle sei, corsa ed esercizi. Una colazione a base di uova, formaggio, cetrioli, pomodori, pane e l’immancabile çhai. Poi la guardia, turni giorno e notte, due ore a testa, e si aspetta». Inizia così il racconto di Jak-Fabrizio Maniero, 43 anni, originario dell’astigiano. «Vengo da una famiglia di tradizioni comuniste, dalla parte dei lavoratori e degli operai. Da piccolo, feste dell’Unità e primo maggio. Poi mi sono avvicinato all’anarchismo: la condivisione al di là del denaro». Una delle prime segnalazioni da parte delle forze dell’ordine l’ha avuta nel 2016: «Facevo volantinaggio contro l’ennesimo ecomostro per le Olimpiadi a Torino. È indecente e criminale sperperare soldi pubblici quando le scuole cadono a pezzi e gli ospedali chiudono. Così come bucare una montagna piena di amianto. Ho una laurea in scienze biologiche e un dottorato in Oncologia, poi dieci anni tra medie e superiori a insegnare. Si muore per i tumori dell’amianto».

Da tredici anni vive nella casa occupata Mezclal di Collegno alle porte di Torino. «Mi definisco squatter e anarchico. E antifascista». È partito nel novembre 2014 con Paolo per il Bakur, la zona curda della Turchia, come giornalista per Radio Black Out, emittente legata ai centri sociali dell’area piemontese: «Facevo racconti giornalieri di quello che accadeva. Ho visitato il campo profughi di Suruç, amministrato dal governo turco. C’erano bambini a piedi nudi nel fango al freddo. Rinchiusi con le loro famiglie. Vergognoso». Con la rete organizza la “Carovana per il Rojava”, ottomila euro di aiuti. Vuole fare di più. «Quando entro in Siria cambia tutto. Lì vedo per la prima volta Kobane, liberata da tre mesi e rasa al suolo, ricordo l’odore forte della distruzione, delle bombe, del cemento e pezzi di corpi tra le macerie, erano quelli di Daesh». Per tornare la Turchia è chiusa, l’alternativa è dall’Iraq. Da lì si offre volontario nelle Ypg e combatte per quasi un anno. Anche per lui addestramento e un nuovo nome, Cekdar Aghir, albero e fuoco, che gli affida il suo capo gruppo. Jak arriva a ottobre 2016. Come Paolo entra nella fanteria, il tabur, un’unità composta da 20-30 persone. Poi ci sono i gruppi speciali, con armi pesanti, i cecchini e i preziosi sminatori. Si vive nella stessa base, si fa tutto insieme. «Per giorni interi solo il deserto. Aspetto e aspetto, poi si combatte. Lontano dai villaggi, per non dare un pretesto ai turchi per bombardare. Decido con Paolo di fondare l’unità antifascista internazionalista, base di appoggio per gli italiani». Partecipa all’operazione Eufrate per la liberazione di Raqqa, la capitale del Califfato. «Ai miei ho sempre detto che aiutavo i rifugiati, come potevo raccontare di essere in prima linea? Spesso l’Isis usava civili come scudi, ci minacciava». Nel suo tabur in un solo giorno muoiono sette persone. L’aviazione Usa, con l’appoggio di Francia e Gran Bretagna, colpisce dal cielo. «Ci coordinavamo tramite gps, ma sono morte intere unità». La liberazione avrà un prezzo altissimo: i morti ufficiali sono 3.500, di cui 1.130 civili. «Un giorno abbiamo soccorso un membro di Daesh, un ragazzo con due proiettili nella gamba, lo abbiamo curato e mandato via. Nessuno di noi ha mai avuto gesti vendicativi, ci sono linee precise nello Ypg. Porto con me due lezioni. La vita comunitaria, l’opposto dell’individualismo egoistico in cui viviamo. E la gioia, nonostante tutto».
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Davide, lo scrittore
«Doveva essersi sentita perduta Valeria Solesin sentendo urlare “Allah akbar”». Il viaggio di Davide Grasso, trentottenne di Cuneo, inizia da Parigi, quando decide di vedere «i luoghi colpiti da quei trogloditi. Ho pensato molto a Valeria: dottoranda a Parigi come lo ero stato io. Con lei e le vittime avevo stabilito un legame. I giovani europei avevano pagato. Noi, la generazione Erasmus, emigrante e fuori sede. Scelti perché espressione di un modo di vivere inaccettabile». Scrittore, laureato in filosofia a Torino, è stato due volte in Siria. La prima per sette mesi, combattente per lo Ypg. I genitori, entrambi insegnanti delle scuole medie, ora in pensione, «sapevano che ero partito per fare un reportage. Quando ho spiegato che mi sarei fermato di più, non erano contenti. Ho detto che correvo il rischio di perdere la vita. Non avrei mai voluto, se la situazione fosse peggiorata, che l’ultima cosa sentita da me fosse stata una bugia». C’è un fatto che ricorda sulla sua educazione politica: «A sedici anni entrai in biblioteca, volevo capire chi fosse il tizio che tutti portavano stampato sulla maglietta. Era Che Guevara. Il “Che” aveva combattuto per una rivoluzione di un Paese non suo, Cuba. Aveva rinunciato a tutto, per ricominciare a combattere in Congo e Bolivia. Ne era morto». Le istruzioni per essere un rivoluzionario le apprende ad Ain Issa, a nord di Raqqa, in un libricino in curdo. Tre frasi: “Organizzazione, organizzazione, organizzazione” di Lenin, “Educazione, educazione, educazione” di Abdullah Öcalan, “Conosci te stesso” di Socrate. «Senza cambiare se stessi la rivoluzione è impensabile. È come un “fiore del deserto” la rivoluzione del Rojava, l’unica rivoluzione socialista al mondo in atto, che le sinistre mondiali hanno lasciato sola». Un territorio dichiaratosi autonomo il 17 marzo del 2016 con il nome di Federazione democratica della Siria del nord (FdSn), con i suoi tre cantoni: Afrin, Kobane e Qamishli. In profondo cambiamento nelle tradizioni: ora è vietata la poligamia, il matrimonio a contratto con minori e il delitto d’onore per adulterio. L’obiettivo non è più uno Stato curdo, che unisca i quaranta milioni di persone divise tra Siria, Iraq, Iran e Turchia, ma un confederalismo democratico, ispirato alle idee di Öcalan. Curdi, azidi, turcomanni, arabi che lì vivono, sotto la stessa bandiera. «Combattere per un obiettivo comune crea legami indissolubili. Come con Berivan e Zagros, due sheid, martiri, con i quali ho condiviso molto». Diventare sheid non ha un senso religioso: «Un miliziano dell’Isis è convinto che ci sia un paradiso, vuole morire in fretta. Gli Ypg sono per lo più musulmani, ma il loro è un martirio civile, per la comunità. Sono europeo, ma c’è sempre un momento in cui bisogna schierarsi, come hanno fatto in tanti durante il fascismo. E bisogna stare dalla parte giusta».
Davide



Jacopo, la voce da Afrin

Jacopo Bindi ha trentatré anni, un dottorato di ricerca in fisica «che però ho messo nel cassetto. Ho preferito la strada dell’insegnamento, anche se la vita del precario non è uno scherzo». La sua è una famiglia della classe media, idee moderatamente di sinistra. «Di quelle che hanno lavorato sodo, mio nonno era operaio». La politica si affaccia da uno schermo della tv nel 2001: «Avevo 15 anni, ma i fatti del G8 di Genova, la morte di Carlo Giuliani, mi lasciano davvero turbato». A scuola frequenta i collettivi studenteschi, poi l’incontro con il movimento No Tav: «Nel 2005 ero in Val di Susa durante gli scontri per la riconquista del cantiere Venaus». La partecipazione a quella stagione di lotte gli costerà cara: «Due arresti. La decisione di avere un ruolo attivo nella vita politica coincide con l’avvicinamento al centro sociale l’Askatasuna». L’interesse per la Siria scatta alle prime notizie sul massacro degli Yazidi perpetrato dall’Isis a Shingal: «Una tragedia di proporzioni bibliche. Poi la gioia per la liberazione di Kobane da parte delle milizie del Pkk e delle Ypg». In Rojava Jacopo arriva a settembre del 2017. Nello zaino due libri: “Il Secolo breve” di Eric Hobsbawm e “Incubo ad aria condizionata” di Henry Miller. «La nostra delegazione era stata invitata a visitare i centri della Rivoluzione confederale: Manbji, Kobane, Derik. A Qamishlo, Siria del Nord, abbiamo fatto conoscenza con le Comuni, parlato con le donne». Jacopo decide di restare. «Prima la scuola di formazione della rivoluzione, poi il “lavoro nella società”. Vengo inviato ad Afrin». La notte tra il 19 e il 20 gennaio 2018 quando parte l’operazione di Erdogan “Ramoscello d’Ulivo”, iniziano i bombardamenti da parte dei turchi, decine di mezzi corazzati invadono Afrin. «E mi ritrovo in guerra. Ma non ho mai imbracciato un fucile. Lavoravo nel media centre “Information Center Afrin Resistance”, corrispondente per l’Italia». Jacopo scrive, invia foto e le riprese che riesce a fare col cellulare. È grazie al suo coraggio che in molti si rendono conto di quanto sta accadendo nella città sotto assedio. «I profughi aumentavano. Ma la cultura dell’accoglienza non veniva mai meno. In molti appartamenti convivevano quattro o cinque famiglie… arabi e curdi senza più un tetto. In uno di questi ospedali improvvisati vengo ospitato anch’io. Il giorno dopo è stato bombardato e nessuno è sopravvissuto. La sera ci si riuniva attorno a una stufa per cantare. “Bella ciao” la conoscevano tutti. Ma anche “Oltre il ponte”: “Avevamo vent’anni... Non è detto che fossimo santi, l’eroismo non è sovrumano… ogni passo che fai non è vano”. Ci riconoscevamo tutti: loro e noi, pronti a morire a difesa di quei valori per i quali avevano perso la vita i nostri nonni, contro il nazi-fascismo».

Jacopo e Eddie


Eddi, la filosofa

Anche senza la mimetica e il Kalashnikov Edgarda Marcucci, detta Eddi, 27 anni, studi in Filosofia all’università di Torino, già colpita da misure di prevenzione per la sua militanza No Tav, mantiene il piglio della combattente. «Ai miei genitori ho detto che andavo in Siria per fare un reportage. In effetti il mio programma all’inizio era questo. Preoccupati? Certo. Ma sapevano che era inutile tentare di fermarmi, le donne della mia famiglia mi hanno insegnato a sviluppare un pensiero critico». La vera formazione politica inizia a diciannove anni: «Ho lasciato Roma e mi sono trasferita a Torino. Lì mi sono avvicinata al collettivo universitario autonomo e al centro Askatasuna». Il passo successivo è l’ingresso nel movimento No Tav. Fin dal suo arrivo in Siria, a settembre del 2017, è il ruolo delle donne a interessarla. «La metà delle truppe è costituita da volontarie dell’esercito femminile. Molte sono passate dall’Isis a un sistema sociale che promuove la parità dei sessi, dove ogni decisione viene presa insieme attraverso comitati formati da un uomo e una donna». Imbracciare le armi non era nelle sue intenzioni. «Ma quello che ha fatto Erdogan ad Afrin è stato atroce». L’esercito turco arruolava milizie jihadiste per affossare il Rojava. Massacravano i civili, vendevano le donne, uccidevano bambini. Impossibile starsene a guardare. «Ho sentito che questa battaglia era anche la mia». Alle YPJ si uniscono donne con storie di ogni genere. Ci si prende cura le une delle altre. «Anche a contatto con l’orrore, non vengono mai meno lealtà, rispetto, dolcezza. Sono queste cose che fanno la differenza tra chi imbraccia le armi nelle Ypj e i loro nemici. La differenza tra due persone con il fucile la fa ciò per cui combattono ma anche il come: nessun risultato può essere chiamato vittoria se non conseguito nel modo più etico».
Eddie

Durante i nove mesi in Rojava ha imparato cose che non hanno niente a che fare con le armi. Il culto dei martiri, ad esempio: «Un giorno una donna la cui figlia è caduta proteggendo il confine dai soldati turchi mi viene incontro e mi dice: “Da adesso tu sei mia figlia”. Era caduta indossando la divisa che in quel momento portavo anch’io. Il lutto per i curdi non è mai la tragedia di una singola persona ma un dramma che si affronta insieme. E una volta che si sperimenta la qualità della vita e dei rapporti che il Confederalismo ha reso possibile, si capisce che non c’è cosa più bella». Al ritorno è stata dura.
«Voi occidentali siete iper-connessi sui social ma sempre più sconnessi dagli altri esseri umani, fanno notare gli amici curdi. Verissimo. Abbiamo un bisogno disperato di ricostruire legami, di ritrovare il senso della comunità e dell’amicizia, in curdo “hevalti”, uno dei principi fondanti della rivoluzione. Questo sarebbe socialmente pericoloso?».