Continua la vicenda giudiziaria dei cinque ragazzi italiani che hanno combattuto in Siria contro l'Isis, quando manca meno di un mese alla sentenza per la “sorveglianza speciale”. Intanto rientra in Italia la salma di Lorenzo Orsetti, ucciso dallo Stato Islamico
Incontriamo Davide Grasso al Centro Ararat, il ritrovo della comunità curda nel quartiere romano di Testaccio. Ci eravamo salutati l’ultima volta il 25 marzo al tribunale di Torino. Quel giorno la corte avrebbe dovuto decidere se dare o meno la “sorveglianza speciale” a lui e ad altri quattro attivisti No Tav
andati in Siria a combattere con le Unità di protezione del popolo curdo (Ypg e Ypj) contro i jihadisti. Una misura cautelare per cui non sono necessari reati, con il rischio che un procedimento del genere si trasformi in un processo alle idee.
Ma proprio quella settimana l’eco suscitata dalla
morte di Lorenzo Orsetti, il volontario italiano ucciso dall’Isis durante l’assedio di Baghuz, ultima roccaforte del Califfato, aveva fatto accendere i riflettori sul caso. La salma di “Orso” è attesa a Fiumicino il 31 maggio, ma non tornerà subito nella sua città natale, Firenze, prima la Procura di Roma ha disposto ulteriori accertamenti sul corpo.
Da allora, come ha ricordato recentemente proprio il padre di Lorenzo, Alessandro: «l’attenzione sulla vicenda di questi ragazzi è alquanto scemata». Del resto anche sulla questione curda
dopo la caduta di Baghuz è calato un velo di silenzio. La giuria presieduta dal giudice Giorgio Gianetti infatti, acquisiti gli atti, si è presa tre mesi di tempo per deliberare. E a tutt’oggi non si è ancora pronunciata. Ma potrebbe farlo domani o il 25 giugno senza clamore, con una notifica recapitata a casa. Come succede in questi casi.
Va detto che in questi mesi i cinque ragazzi hanno continuato indefessi a girare l’Italia, tenendo decine di incontri pubblici e seminari anche con studenti nelle Università, per spiegare la loro vicenda giudiziaria kafkiana, ma soprattutto per raccontare di quello che succede nel nord della Siria.
LO SCIOPERO DELLA FAME COME PROTESTA Anche se nessun paese della Coalizione internazionale contro l’Isis in Siria, di cui per altro l’Italia non ha fatto parte, l’ha mai riconosciuta ufficialmente, la Confederazione democratica del Rojava però va’ avanti. «Ci sono molte novità importanti da raccontare in proposito», racconta Davide. Una di queste è lo sciopero della fame, conosciuto come #hungerstrike, che da quasi 200 giorni portano avanti migliaia di curdi in tutto il mondo per chiedere la fine dell’isolamento che da vent’anni il governo turco impone al leader del Pkk Abdullah Öcalan nell’isola-prigione di Imrali. La ragione per cui Davide ci ha dato appuntamento al Centro Ararat è proprio questa.
Il giovane curdo che ci viene presentato si chiama
Erol Aydemin, ha 30 anni e non tocca cibo dal 21 marzo, giorno del Newroz, il capodanno curdo. I compagni di Ararat gli hanno destinato una stanza poco distante dall’ingresso: un letto, due tappeti, un comodino colmo di libri, fra gli autori anche Fenoglio e Gramsci, una stufetta elettrica. Sulla parete, alle sue spalle una bandiera del Pkk, il volto di Apo e le foto di chi, come lui e la deputata Leyla Guven, la prima a iniziare lo sciopero, rifiutano il cibo come estrema e pacifica forma di protesta. Dall’inizio dello sciopero sono oltre 45 i militanti deceduti.
Ogni giorno un medico viene a visitare Erol. Stanno comparendo i primi dolori muscolari, la pressione è scesa e il cuore indebolito. «Assumo solo acqua, 100 grammi di zucchero al giorno e sale. Ma mi sento bene, forte, perché sto facendo qualcosa». All’Italia, dove è arrivato quattro anni fa come rifugiato politico chiede di dare un segnale a Erdogan, «perché questo silenzio ci uccide». Ora una lettera dello stesso Öcalan, che non aveva contatti con i suoi avvocati da cinque anni, invita «le amiche e gli amici a fermarsi, lo scopo dell’azione ha raggiunto il suo obiettivo».
Nelle carceri turche ci sono 250 mila prigionieri politici. La maggior parte sono curdi, ma ci sono anche parlamentari, circa diecimila studenti e più di cento giornalisti. E nella Siria del nord continuano indisturbate le azioni militari della Mezzaluna.
IL PROBLEMA DEGLI EX COMBATTENTI ISISL’ altra questione cruciale, ricorda Davide, è quella dei prigionieri di Daesh. «Ci sono migliaia di famiglie chiuse nei campi di detenzione. Nel 99% dei casi si tratta di irriducibili. La coalizione internazionale finora non ha fornito alcun supporto economico o logistico. Tutto grava sulle spalle dei compagni curdi e delle forze democratiche siriane».
E poi ci sono i foreign fighters europei: i paesi d’origine non ne chiedono l’estradizione e in Siria e Iraq arrivano le prime condanne a morte. Nelle ultime ore sono quattro i francesi a cui è arrivata la sentenza del boia, sono i primi europei. Nel frattempo, nei campi di prigionia si è subito ricreata la gerarchia e la catena di comando dello Stato Islamico - le mogli degli emiri a capo delle sezioni femminili, gli emiri che comandano sul resto delle milizie,
tra loro anche numerosi bambini.
Una situazione potenzialmente esplosiva. Date le condizioni precarie di sicurezza, il rischio che diversi militanti dell’Isis possano fuggire e raggiungere l’Europa è concreto. Il mondo deve decidere cosa vuole fare. Innanzi tutto assicurando giustizia alle vittime. Per questo è necessario costituire un tribunale internazionale, stabilire dove e con quali leggi e iniziare il processo. Tutto questo andrebbe fatto ora. Prima che il prossimo attentato ci faccia improvvisamente ricordare il problema.
IL FUTURO DEI CINQUE Davide non nasconde la sua amarezza. Nonostante la pioggia di riconoscimenti, fra gli altri il premio Giacomo Ferrari, "La resistenza e le resistenze" patrocinato dall'ANPI per “Hevalen” (l’appassionata e interessante testimonianza della sua esperienza di combattente nelle fila delle Ypg), nonostante all’appello sottoscritto lo scorso gennaio da oltre trecentocinquanta personalità della cultura si sia aggiunta da pochi giorni la petizione di Potere al Popolo rivolta al Consiglio superiore della magistratura, al Ministero della Giustizia, ai gruppi parlamentari di Camera e Senato, c’è molta preoccupazione.
E se il giudice dovesse accogliere le richieste della Procura? «Non intendiamo mollare. Sappiamo di aver fatto la cosa giusta e andremo avanti» dice Davide. Prima contro mossa, presentare ricorso alla Corte di Giustizia europea.