
Scatti passati alla storia. Si può dire che Rankin, con il suo stile, abbia contribuito a dare forma al concetto contemporaneo di bellezza. Un potere immenso, esercitato attraverso magazine, programmi tv, campagne pubblicitarie, libri. Un’egemonia che oggi, nell’era degli influencer e della fotografia di massa, rischia di indebolirsi. «In passato ho conosciuto tante persone di talento che non avevano soldi per acquistare una buona macchina fotografica, oggi compri un telefono con 200 sterline e cominci a scattare: democratizzare la fotografia è un’idea eccitante», esordisce il fotografo, in una pausa delle riprese di Master of Photography, a Roma. La quarta edizione del talent show europeo per giovani fotografi, prodotto da Sky Arts Production Hub, andrà in onda su Sky Arte HD dal 28 maggio. Rankin sarà ospite dell’ultima puntata.
Nell’era di Instagram siamo tutti fotografi. Cos’è oggi la fotografia?
«È difficile rispondere. Ripeto, democratizzare la fotografia è eccitante, ma c’è il rovescio della medaglia: il mondo della fotografia è invaso da persone che la usano in maniera irrispettosa, perché un conto è scattare cinque ritratti, catturare la personalità di un individuo con le sue sfumature, un altro è farsi un selfie con il telefonino. Oggi la tecnologia è molto più avanzata della nostra capacità di utilizzarla. La fotografia invece possiede un linguaggio proprio, connesso con la storia, con le icone dello spettacolo e della cultura, con la memoria. Adesso tutto questo è andato perduto perché è nato un linguaggio ancora agli albori. Non credo che la tecnologia sia un male, ma di fronte alla rivoluzione digitale ci comportiamo come bambini inesperti. È un mondo nuovo e spaventoso».
È il costo della democrazia...
«La democrazia è un valore fondamentale ma non va confusa con il populismo. Intorno a noi è pieno di idioti che cercano consenso e approvazione attraverso le immagini che diffondono. Un fenomeno pericoloso, che contagia la politica, la cultura, le arti, l’opinione pubblica. I selfie sono tutti uguali, non c’è introspezione: io sono identico a un personaggio come Kim Kardashian. E poi divento matto se penso che c’è gente, come i travel influencer, pagati per stare in vacanza. Ma trovatevi un lavoro vero! I danni di questa deriva sono sotto gli occhi di tutti. «Non sono abbastanza bravo», «Non sono attraente come lui», dice chi posta sui social media le proprie immagini. «Sii te stesso», dico io, è più interessante. Sono cresciuto con l’idea di essere me stesso, poi all’improvviso è diventato di moda essere qualcun altro».

Qualcuno lo aveva previsto?
«È il prodotto di un piano messo a punto dalle grandi aziende tecnologiche. Le “big tech” non hanno senso etico né visione del futuro, sono molto potenti, aggrappate al proprio potere, non pagano tasse. Google, Instagram, Facebook e gli altri social sono stati concepiti a tavolino per creare dipendenza come la cocaina, l’eroina, anche peggio. Quante volte al giorno guardi il telefonino? Succede a me che ho 52 anni, figurati a chi ne ha 14».
Uno dei suoi progetti più recenti si intitola “Selfie harm”, “i danni prodotti dai selfie”. Come è nata l’idea?
«Ho studiato a fondo Instagram e il mondo dei selfie. Esistono app pazzesche, che in pochi istanti riescono a fare quello che un tempo il fotografo faceva con Photoshop, l’illuminazione artificiale e gli obiettivi. Qualche tempo fa mi hanno contattato due agenzie, M&C Saatchi e MTArt, lavoravano a un progetto dal titolo “dieta visiva”: la loro idea consisteva nel trattare la fotografia come il cibo. Puoi mangiare cibo-spazzatura, o nutrirti in maniera più sana. Tradotto: a volte puoi scattare immagini a raffica, modificandole, o provare a trattare le foto in maniera più ragionata. Mi hanno coinvolto nel progetto e ho realizzato i ritratti di quindici adolescenti, poi li ho consegnati a loro invitandoli a ritoccarli con una app, per ottenere il maggior numero di like sui social. Hanno trasformato il proprio viso: occhi più grandi, naso più piccolo, lineamenti più fini, luce che elimina le imperfezioni, pelle più chiara. Una volta cambiati i connotati, la app consente di registrare la modifica e riprodurla in ogni scatto successivo. Con un duplice effetto, devastante: da un lato l’adolescente desidera cambiare il proprio aspetto, dall’altro è convinto di essere sbagliato. Il risultato dell’esperimento è stato sorprendente: nessuno ha preferito la versione falsa del proprio ritratto».
Sono le celebrità a dare il cattivo esempio. Sui loro profili pubblicano immagini ritoccate, invitando implicitamente i fan a fare lo stesso.
«Quando arrivò Photoshop, a fine anni Novanta, il 99 per cento dei fotografi lo utilizzava e il 99 per cento delle celebrità sapeva cosa si potesse fare con quello strumento. I magazine volevano vendere copie, erano pronti a tutto, la pubblicità spingeva, io facevo parte del sistema. Per cinque anni, fino al 2003, è stata una follia: tutti, top model comprese, dopo gli scatti si mettevano al monitor e chiedevano di modificare dettagli, luci, imperfezioni. Quella febbre è diminuita, finché qualcuno ha inventato la fotocamera sul telefonino e tutti hanno cominciato a fare foto da sé, comprese le celebrità. Sono sicuro che in futuro gli utenti si divideranno in due comunità: chi userà i social in maniera più spinta e chi meno, tra le persone famose e la gente comune».
Oggi le star autoproducono le proprie immagini, come gli influencer su Instagram. Come giudica ciò?
«Anche in questo caso si tratta di una medaglia a due facce. Da un lato è uno strumento formidabile, perché consente a persone estranee al sistema di diventare famose, mantenendo il controllo della propria immagine. Dall’altro c’è il rischio che il populismo prenda il sopravvento. Se si guadagnano da vivere facendo selfie e raccontando la loro vita quotidiana buon per loro, ma quanto durerà? Cosa stai facendo davvero? Qual è il tuo mestiere? La vita reale è piena di difficoltà, ti svegli alle cinque del mattino per dare da mangiare a tuo figlio, devi andare al lavoro quando sei depresso. E così via».
Lei ha fotografato i personaggi più importanti dello show business. Cosa resta di quegli incontri?
«Non si tratta di riprodurre la bellezza e l’eleganza di chi ho di fronte, ma di coglierne la personalità nel giro di pochi minuti. È come una danza, un gioco a due: a volte funziona, a volte no. Prendi Robert Downey Jr, l’attore: con lui è stato straordinario, raro incontrare qualcuno così concentrato, convinto di creare insieme qualcosa di interessante. Quando succede è un dono, come con Madonna. A volte è complicato».
E la regina Elisabetta?
«Incredibile. Ogni celebrità è famosa per qualcosa, la regina invece non vuole essere famosa ma è obbligata a stare sulla scena. Se capisci questo riesci a cogliere la persona dietro il personaggio. Sono fortunato perché i miei genitori mi hanno educato a rispettare il prossimo».
Il ritratto di David Bowie a distanza ravvicinata, anni Novanta, resta uno dei suoi scatti più celebri. Come andò?
«Era brillante, abbiamo parlato a lungo. Mi ha insegnato a non aver paura nel mostrare entusiasmo, lui era entusiasta, non se ne vergognava affatto e non provava imbarazzo, un fatto piuttosto inusuale per noi britannici. La sua immagine era molto diversa dalla persona che mi sono trovato davanti. Non ha apprezzato le mie foto perché l’ho ritratto nella sua umanità, preferiva gli scatti in cui sembrava un astronauta».
Sempre più spesso lei si sofferma sulla diversità. Nel progetto #PortraitPositive, lei e lo stilista canadese Steven Tai avete deciso di sfidare la percezione comune della bellezza portando in passerella 16 donne sfigurate da cicatrici o sopravvissute a ustioni gravissime. Perché?
«Faccio parte di un movimento di fotografi e stilisti che crede nell’idea di considerare il valore di ogni persona a prescindere da età, taglia, genere, inclinazione sessuale. Dunque, questo progetto fa parte della mia storia. So che la fotografia ha un potere enorme, può accrescere l’autostima delle persone, dare loro coraggio, responsabilità, dignità. Per me è importante creare un equilibrio tra emozione e analisi critica».
Qual è il senso etico del suo lavoro?
«Non penso di essere un artista ma un fotografo commerciale pagato per le sue immagini. Ma non faccio nulla solo per soldi, non credo sia onesto, c’è sempre una scelta etica».