Fino al 12 dicembre 1969 Giovanni Arnoldi era solo un commerciante di bestiame: un quarantenne dalla faccia contadina con due figli piccoli e nelle foto la cravatta troppo corta di chi non sembra avere grande dimestichezza col vestito buono. Fu con la strage di piazza Fontana che Arnoldi e gli altri 15 rimasti sul terreno divennero i caduti di una guerra invisibile, i primi di un lungo elenco scritto col sangue. Una storia italiana ma anche una storia rimossa, sconosciuta alle generazioni più giovani, che vedono gli anni di piombo come la preistoria e poco sanno o vogliono sapere di bombe, strategia della tensione e servizi deviati.
A queste vite spezzate cerca di ridare spessore e dignità la mostra "Una quotidianità interrotta - Ritratti di vittime del terrorismo" che dal 26 al 28 luglio accompagnerà la Fiera del libro di Spoleto e che "l'Espresso" presenta in anteprima. Artefice di questa operazione di recupero è la direttrice artistica Mariarita Valentini, che dallo scorso autunno sta girando l'Italia per incontrare i parenti dei caduti: «Le foto hanno un significato che travalica l'oggetto in sé e anche se ognuno vive il dolore diversamente, tutti iniziano a raccontare tenendole in mano. Metterle a disposizione di una mostra è anche un atto di fiducia: queste persone aprono l'album di famiglia, che è quanto di più intimo abbiano a disposizione per ricordare i loro cari». Nella mostra ci saranno scatti privati di personaggi noti come il commissario Luigi Calabresi o il magistrato Francesco Coco, Walter Tobagi ed Ezio Tarantelli. Questi obiettivi-simbolo sono affiancati nel racconto fotografico da una lunga lista di vittime casuali, colpevoli soltanto di essersi trovati a un comizio, in una stazione o su un convoglio nel momento sbagliato. A conferma che, da cittadini, la stagione delle stragi e del terrorismo ci riguarda molto più da vicino di quanto crediamo.
Come l'incredibile vicenda della famiglia Mauri, partita da Como la mattina del 2 agosto 1980 col piccolo Luca, di sei anni appena, e diretta in Puglia per le vacanze. Tamponati in autostrada e costretti a lasciare la macchina in un'autofficina a Bologna, decisero di andare in treno e rimasero uccisi dalla bomba che provocò 85 morti. Oppure la storia delle bresciane Livia Bottardi e Clementina Calzari, amiche unite nella vita e nella morte: il 28 maggio 1974 erano in piazza della Loggia entrambe, troppo vicine al cestino dei rifiuti in cui Ordine nero nascose l'ordigno che uccise otto persone. Nella foto concessa da Manlio Milani (marito della Bottardi e presidente dell'Associazione dei familiari) le vediamo chiacchierare una accanto all'altra. Esistenze comuni, magari chiamate dalle circostanze a un eroismo assolutamente accidentale, come il ferroviere 25enne Silver Sirotti. Era sull'Italicus la notte del 4 agosto 1974 e avrebbe potuto mettersi in salvo come gli altri suoi colleghi. Invece corse con un estintore nella carrozza in cui era deflagrata la bomba neofascista e venne divorato dalle fiamme.
Una mostra giocata sul filo delle emozioni, insomma, ma che rappresenta anche una lotta contro l'oblio. In questo mosaico, infatti, ci sono tasselli che sembrano persi per sempre. Il notaio Gianfranco Spighi di Prato, ad esempio, fu ucciso nel 1978 da Lotta armata per il comunismo. Distrutta dal dolore, la moglie si suicidò l'anno dopo: non avevano avuto figli, ed è stato impossibile rintracciare qualche parente. Luigi Allegretti, cuoco in un ristorante, fu invece scambiato per un dirigente del Msi che viveva nel suo stesso palazzo e ammazzato nel 1980. A Scheggino, la frazione di Spoleto da cui veniva, non c'è più nessuno e le ricerche del fratello finora non hanno dato esito. In questo quadro di morte c'è però spazio anche per la vita. Ed è qui che spicca il ruolo fondamentale delle donne, chiamate dagli eventi a una supplenza imprevista. Spiega Valentini, di professione psicologa e psicoterapeuta: «Le mogli delle vittime hanno dovuto crescere da sole i loro bambini, eppure tutte sono riuscite a dare ai figli la speranza del futuro. E quando nelle stragi a morire sono state anche le donne, il loro posto è stato preso dalle zie e dalle nonne».