
16 anni dopo quel giorno e a 9 dalla sera in cui Fortunato si è tolto la vita a casa ad Anzio, il 9 aprile 2010, racconta per la prima volta la vera storia di quel poliziotto scivolata nell’ombra delle cronache e spiega il confine psicologico tra il sentirsi vittima ed eroe. La dinamica della sparatoria sul vagone in cui viaggiavano Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi, colpito a morte come Emanuele Petri, emerse solo al processo, dopo il confronto delle due versioni dei poliziotti. Petri ostaggio sotto tiro di Galesi che spara e uccide Emanuele e ferisce Fortunato. La Lioce che tenta di sparare con la pistola di Di Fronzo. Fortunato che colpisce Galesi e poi ha l’istinto di non sparare alla donna ma di strapparle l’arma e ammanettarla, con un polmone, il diaframma e il fegato bucati. Tra i passeggeri c’era un vigile urbano: «Ora me la controlli lei mentre il mio collega fa fermare il treno. Io non ce la faccio più», disse.

«Bruno si sentiva messo da parte, dimenticato anche dagli amici. A casa a noi diceva: era meglio se fossi morto anch’io. Quella mattina ce lo davano per morto e dopo i miei figli hanno vissuto con un padre che parlava e non parlava. È morto due volte». Eppure era stato un miracolo sia la sopravvivenza sua sia quella che garantì, grazie alla sua azione, con ogni probabilità al collega Giovanni Di Fronzo e ai passeggeri del vagone in cui avvenne lo scontro a fuoco coi due terroristi, partiti dalla stazione Tiburtina e diretti ad Arezzo. E la cattura della Lioce e il recupero dei documenti che lei e Galesi, poi deceduto in ospedale, avevano nelle borse, sono stati una svolta per le indagini che sgominarono l’organizzazione. La medaglia d’oro al valor civile, consegnata nei 26 giorni di ricovero di cui 7 in rianimazione, è lì insieme ai ritagli. «Si è chiuso dal giorno in cui è uscito dall’ospedale e ha sentito le ricostruzioni, i racconti. Chi si prendeva meriti, chi altri. Lui sembrava non ne avesse. È sempre stato molto umile. In ospedale sono venuti un paio di colleghi ma solo perché dovevano accompagnare me. A casa nessuno. Amici spariti, ha trovato molte porte chiuse». Qualche anno fa, racconta Filomena, andarono alla festa del centenario della Polizia ferroviaria a Firenze. Il capo della Polizia Franco Gabrielli ricordò e ringraziò Petri. «Uno dei miei figli gli disse: “c’era anche mio padre”. E lui rispose: “Me ne ricorderò”. Ma non è cambiato nulla. Arriva giusto un mazzo da Roma per la tomba, il 9 aprile».
La famiglia viveva a Terontola, in provincia di Arezzo, dall’82. Ventitré anni di servizio sempre lì in paese, e dopo il processo e l’addio forzato alla divisa, il trasferimento ad Anzio nel 2004. Racconta la vedova che il giorno della sparatoria non fu avvertita dalla Questura, ma dalla telefonata di un carabiniere quando ormai erano le 10. Bruno, ferito, gli dettò il numero. Rispose la figlia, che all’epoca aveva 17 anni. «Emanuele e Bruno erano amici, li chiamavamo Gianni e Pinotto. Sempre insieme, venivano qua a casa, mangiavano, scherzavano». Ma dopo quel giorno i rapporti con la famiglia Petri si sarebbero raffreddati. «Alma e il fratello di lui hanno dichiarato che ci telefonavano ma non è vero. Noi non abbiamo mai replicato a queste cose. Ci siamo sentiti dire: Emanuele è morto, Bruno l’ha scelto. Ma lui è stato uno che ha cercato di salvare la vita anche ad Emanuele». Il giorno in cui uscì dall’ospedale volle andare subito dal suo amico al cimitero. «Una sera guardavamo “Distretto di Polizia”. Non capivo il suo silenzio. Diceva: “Io vorrei parlare solo con una persona”. Ho capito dopo che era Emanuele. Nella fiction veniva sganciata una pistola dal moschettone. La portava così anche Emanuele. Mentre guardavamo la scena sul divano, lui sbiancò. Nella ricostruzione che fece in aula la pistola di Emanuele era a terra e lui disse di averla poi allontanata dal suo corpo e dal corpo di Galesi. Aveva dunque fatto in tempo a sganciarla e impugnarla. Il perito balistico durante il processo disse che avrebbe avuto il tempo di reagire. Io ho passato con lui da sola un mese in ospedale, diceva: “È inutile che mi chiedete com’è andata, non lo dirò, solo con una persona voglio parlare”. Ora credo che ad Emanuele avrebbe voluto chiedere: “Perché, amico mio?”.

Anche alle udienze del processo per la sparatoria, iniziato il 3 maggio 2004 con la corte d’Assise di Arezzo in trasferta a Firenze per motivi di sicurezza, erano sempre insieme. Lui, lei e l’avvocato Antonio Bonacci, scomparso poco tempo fa. Nadia Desdemona Lioce era impassibile. «Io guardavo la faccia di mio marito di fronte a lei. Lui aveva gli occhi pieni di rabbia. Tu da donna la guardi e dici: io non riuscirei ad ammazzare una mosca, lei si alza la mattina pronta a sparare. Io non la perdono e neanche i miei figli lo faranno». A inizio settembre di quell’anno Cinzia Banelli aveva invece iniziato a collaborare: ammise di aver fatto parte dell’organizzazione e disse che a sparare a Biagi e D’Antona fu Mario Galesi.
La “militante complessiva”, così veniva identificata la Lioce in certi documenti delle BR - Partito Comunista Combattente, venne condannata all’ergastolo il 9 giugno, per l’omicidio di Petri e per il duplice tentato omicidio di Fortunato e Di Fronzo con l’aggravante della finalità per terrorismo. Sentenza confermata in appello e poi in Cassazione, il 3 marzo del 2006. Il legale della Lioce disse che la reazione dei due brigatisti era dovuta al «diritto e il dovere di due militanti rivoluzionari di non essere catturati». La Lioce, considerata il capo, oggi al 41bis a L’Aquila, è stata condannata all’ergastolo anche per l’omicidio Biagi insieme agli ex brigatisti Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi, Roberto Morandi. Ergastolo anche per quello di Massimo D’Antona, in Cassazione il 28 giugno 2007, insieme a Morandi e Mezzasalma. Le vengono contestate anche 4 rapine di autofinanziamento avvenute in Toscana e tre attentati tra il 2000 e il 2001 firmati dalle sigle Nipr e Npr. «Sa chi ci ha sempre chiamato e con tanta educazione? La signora Biagi. Lo fece in ospedale e nell’ottobre 2003, quando trovano il covo dei brigatisti. Con Bruno si sentivano, il giorno degli altri arresti è stata la prima a chiamarlo e ringraziarlo. E quando lui è morto ha chiamato me. L’unica persona che ha detto veramente grazie a mio marito». Per un caso è tra marzo e maggio che si concentrano molti dei fatti e delle morti legate alle vecchie e nuove BR. Tra cui il rapimento e il ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Ad un amico Bruno disse: «Qualche sera fa ho ascoltato un’intervista ai parenti di Aldo Moro, hanno detto che nessuno si è più ricordato di loro, e neppure gli amici si sono fatti più vivi. Accade anche a me, nonostante io abbia incontrato le Brigate rosse molto più di recente». Poco tempo dopo, il suicido.

La figlia Tania racconta che il giorno prima salì da lei, aveva il suo studiolo col computer accanto alla sua stanza. «Entrò e disse: “Vi voglio bene a te e a mamma”. Bruno parlava poco, lo sbaglio mio è che non sono riuscita a parlarci dopo 25 anni insieme, a capire che aveva un male dentro. Ripeteva: “Meglio se fossi morto”. Era come se si sentisse un peso». Il giorno in cui si sparò erano appena rientrati a casa. Filomena era fuori, parlava con una vicina. «D’un tratto era arrabbiatissimo, lo vedemmo con la pistola in mano. Aveva preso il porto d’armi personale dopo la pensione. Poi è entrato dentro casa con l’arma e ha chiuso la porta. Ho chiamato mio figlio, arrivato con alcuni colleghi. Al primo colpo che ho sentito loro mi dicevano di non preoccuparmi. Al secondo io dissi: “Ecco, è morto”». Poche ore prima era andato di nascosto a farsi un tatuaggio. Li odiava ma aveva scelto il disegno di un’aquila. Lo scoprirono solo dopo. Filomena andò a chiedere alla tatuatrice. Lei riferì il dialogo con lui: «È perché sei della Lazio?» «No, io sono della Polizia». Nel berretto della Polizia, c’era quella testa di aquila. «Lui l’amava la Polizia. L’ha portata via con sé», dice oggi Filomena.