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Oggi a Parigi il prezzo degli immobili, in media, si avvicina a 10 mila euro al metro quadrato, con picchi esponenziali nei quartieri simbolo di lusso e potere, intorno agli Champs-Élysées. Quelli messi a fuoco per settimane da gilet gialli e black bloc.
Fuori, la banlieue, anzi le banlieue: quella remota - dove il lavoro scarseggia e i conflitti si aggravano - e quella vicina al “périphérique”, il raccordo della capitale francese, terra di approdo della classe media espulsa dal centro, dove i confini si fanno più labili. Le zone Pantin, Montreuil, Le Pré-Saint-Gervais, un tempo periferia est nel famigerato dipartimento 93, ormai vengono considerate il 21esimo arrondissement di Parigi.
È proprio qui che la cultura svela contraddizioni, ribalta luoghi comuni, crea occasioni di incontro e posti di lavoro, accende il dibattito, contribuisce ad ammorbidire le tensioni, stimola il dialogo e il rispetto per la diversità. E qualche volta anticipa il cambiamento, come Michel Houellebecq, che nel suo ultimo romanzo, “Serotonina” (La nave di Teseo, traduzione di Vincenzo Vega) descrive già le cause della rivolta dei “gilets jaunes”.
«Odiavo Parigi, quella città ammorbata da borghesi ecoresponsabili mi ripugnava, può darsi che fossi un borghese anch’io ma non ero ecoresponsabile, andavo in giro con un 4x4 diesel», scrive in un passaggio del libro l’autore, profetico e sarcastico come sempre. Del resto, l’eroe disperato del romanzo, l’agronomo Florent-Claude Labrouste, assiste alla rivolta degli agricoltori e degli allevatori: l’eterno scontro tra la capitale e la Francia profonda carica di risentimento.
VOCI NELLA TERRA DI MEZZO
Per cogliere la trasformazione di Parigi ci siamo allontanati dal centro e dai riflettori della cronaca, abbiamo esplorato questa terra di mezzo lontana dai quartieri eleganti. E ci siamo soffermati ad ascoltare la voce di scrittori, cineasti, registi teatrali, organizzatori di attività culturali e ricreative che prendono forma in stazioni ferroviarie abbandonate, ex fabbriche, le “friches” culturali che spuntano qua e là nella cintura della metropoli.
Faïza Guène è cresciuta nella zona di Pantin, la cité di Les Courtillières per l’esattezza, un serpentone di cemento anni Cinquanta circondato da torri-alveare. E qui abita tuttora. Figlia di immigrati algerini, autrice a 19 anni di “Kiff kiff domani” (2004), il diario semiserio di una adolescente di periferia, successo internazionale con 400 mila copie vendute Italia inclusa, Guène venne considerata all’epoca la portavoce del disagio della banlieue. Un ruolo che, romanzo dopo romanzo (“Un uomo non piange mai” tradotto da Federica Pistono è uscito in Italia dall’Editrice il Sirente), le va sempre più stretto.
«La banlieue è il mio ambiente, ma non è mai stato il tema dei miei romanzi. Anche il mio libro d’esordio non parlava di banlieue ma di adolescenza: è diventato un simbolo perché per la prima volta gli abitanti della periferia, i figli degli immigrati, erano protagonisti. Il filo rosso che collega le mie storie è un altro: ho sempre dato voce agli invisibili, a chi non diventa mai eroe», comincia la scrittrice, cappotto elegante color cammello e sguardo vispo, mentre entriamo nella “maison du quartier”, il centro sociale del municipio che organizza attività per i ragazzi togliendoli dalla strada.
Il suo quinto romanzo, “Millénium Blues” (Fayard), è un diario generazionale dalla fine degli anni Novanta ai nostri giorni, attraverso lo sguardo nostalgico di Zouzou, eroina oggi trentenne e coetanea della scrittrice, e della sua amica Carmen, sullo sfondo alcuni eventi significativi: la coppa del mondo di calcio nel 1998, l’11 settembre 2001, le elezioni presidenziali francesi del 2002, la rivolta della banlieue qualche anno più tardi, l’uscita del primo album di Rihanna. Questioni intime - depressione, senso di fallimento, insoddisfazione - si intrecciano con tragedie collettive come il terrorismo.
Ma Guène non rinuncia al registro ironico. «Nella vita la leggerezza aiuta a sopravvivere e nella letteratura, almeno per me, aiuta ad affrontare argomenti seri. Del resto provengo da una famiglia algerina, ho sempre visto gente che vive nella miseria e riesce a ridere. L’umorismo è una chiave per superare le prove dell’esistenza, un’eredità che mi porto dentro», continua la scrittrice, la quale in queste settimane lavora al prossimo romanzo, una saga che rende omaggio alle madri della sua generazione. «Ho l’impressione che la voce delle donne immigrate arrivate in Francia negli anni Ottanta non sia stata ascoltata. Sono state discrete, hanno vissuto tra mille difficoltà, quasi vergognandosi, come se dicessero: “Qui non siamo a casa nostra”. I figli, nati qui, sono arrabbiati con loro e reclamano il proprio spazio. “Sanno ciò che la loro madre ha attraversato, pretendono che il mondo intero lo sappia”, scrivo. È questo il tema del libro», conclude la scrittrice.
Emancipazione, immigrazione, identità, Islam, conflitti tra generazioni. Temi ricorrenti nelle opere degli autori di origine straniera, così come la banlieue fa da sfondo ai racconti di fantasia. Una periferia immaginaria e non vissuta direttamente nel caso di Saphia Azzeddine, 39 anni, scrittrice, attrice e sceneggiatrice nata in Marocco, che a differenza di Faïza Guène, abita in un quartiere borghese.
Salita alla ribalta nel 2008 con il romanzo d’esordio “Confidences à Allah” (Leo Scheer editore), da cui sono stati tratti un fumetto e una pièce teatrale, in “La Mecca-Phuket” (Editrice il Sirente, traduzione di Ilaria Vitali) Azzeddine racconta la storia di Fairouz, figlia di immigrati marocchini in Francia, che decide di raggranellare la somma necessaria per regalare ai genitori un pellegrinaggio alla Mecca. Ribelle, quasi sfrontata Fairouz coinvolge una delle sue sorelle, Kalsoum, e si recano insieme all’agenzia del signor Ourghidour, specializzata in viaggi sacri. L’inizio di un’avventura piena di sorprese, scandita da un linguaggio schietto da “argot” di periferia.
«Ero quello che si chiama comunemente una musulmana laica, che non rompe le palle a nessuno», annuncia la protagonista nelle prime pagine del libro. Musulmana laica, dunque, tanto da indispettire i benpensanti. Ma la scrittrice rifiuta le etichette, soprattutto in fatto di religione. «Mio padre è marocchino, mia madre francese. Sono nata in Marocco, dove ho trascorso un’infanzia meravigliosa, poi sono stata molto felice in Francia. Mi sento francese e marocchina: non ne sono fiera, ma è una cosa che adoro. Tutto qui», esordisce Azzeddine: «Per me l’identità è un problema astratto. I miei genitori, tutti e due musulmani, mi hanno trasmesso la cultura e la religione ma senza obblighi, tutto resta nella sfera privata. Mio padre, ad esempio, non ha mai accettato che sua madre andasse a La Mecca, le ha sempre detto: “L’Arabia Saudita non è un Paese rispettabile. Se un giorno La Mecca sarà in altre mani, forse ci andrai”. Il tema dell’identità oggi in Francia è molto di moda, se sei di origine araba adorano chiederti: ti senti più francese o più araba? Non ho alcuna intenzione di partecipare a questo dibattito», spiega la scrittrice: «Il mio libro ha un registro comico, la giovane protagonista si riappropria della religione e decide che, invece di chiedere perdono ad Allah a La Mecca, preferisce andare a Phuket, l’isola thailandese, per dirgli grazie. Lei ha il coraggio di affermare che la religione non è privazione e frustrazione, si può credere in Dio e amare se stessi».
Periferie immaginarie e reali, in continua trasformazione. Laboratori sociali scandagliati da Aurélien Delpirou, geografo, professore associato all’École d’urbanisme di Parigi, autore tra l’altro di una ricerca collettiva sul movimento dei gilet gialli. Secondo il docente, diversi comuni della cintura “rossa” - Bagnolet, Lilas, Montreuil, Pantin, un tempo zone industriali, popolari, in mano al Partito comunista francese - oggi sono coinvolti in un processo di gentrificazione che coinvolge il tessuto sociale e le ex fabbriche, mentre evaporano i confini. Intanto in banlieue cambia la geografia dell’offerta culturale. «Aprono atelier, gallerie d’arte in luoghi atipici che ospitano festival, incontri pubblici, mostre. Per iniziativa delle istituzioni pubbliche o in maniera indipendente. Un fenomeno senza precedenti», commenta il geografo.
LA RIVOLUZIONE DEI "TIERS-LIEUX"
Quartieri in cui la vita per effetto dei nuovi arrivi è sempre più cara, ma per molti diventa più piacevole. Non un fenomeno inedito, certo, ma in forte accelerazione. Una metamorfosi sull’onda del progetto Grand Paris, la città metropolitana che sta prendendo forma e cambierà il volto di Parigi nei prossimi anni, dai trasporti alle infrastrutture, già prima delle Olimpiadi del 2024. Vale la pena vagare senza meta nei sobborghi della Ville Lumière, tra locali nati nel parcheggio di un’industria abbandonata, atelier di artisti tra le mura di uno stabilimento in cui si producevano caldaie, spazi effimeri. “Friches” culturali, ex fabbriche riconvertite in luoghi di creazione e divertimento, in alcuni casi con ingenti investimenti privati.
La grande agenzia pubblicitaria Betc, ad esempio, si è trasferita a Pantin, alle porte di Parigi, in una cattedrale contemporanea con vista spettacolare sul canale dell’Ourq, in un edificio costruito negli anni Trenta come deposito di derrate alimentari. Qui ha dato vita a Les Magasins généraux, incubatore di idee e giovani artisti, spazio espositivo e per concerti, eventi capaci di attirare giovani da Parigi e hinterland: da giugno a settembre toccherà a “Futures of Loves”, mostra internazionale e festival dedicato all’amore nell’era digitale, e da fine settembre “Mockba”, esposizione sulla giovane scena creativa moscovita.
In altri casi, invece, nascono spazi a forte vocazione ecologista, sperimentali, chiamati “tiers-lieux” (luoghi terzi, letteralmente) secondo la definizione del sociologo americano Ray Oldenburg. Non lontano dai Magasins généraux si trova La Cité Fertile, cittadella ecosostenibile di un ettaro, mentre a ridosso del mercato delle pulci di Porte de Clignancourt, la ex stazione ferroviaria Ornano è stata acquistata da un gruppo di privati e trasformata in La Recyclerie: un po’ fattoria urbana un po’ allevamento bio affacciato sui binari, sala coworking e centro conviviale per famiglie, dove mangiare e bere a prezzi contenuti, partecipare alla presentazione di un libro, portare a riparare un elettrodomestico. Una proliferazione, quella dei “tiers lieux”, sostenuta dalla sindaca socialista, Anne Hidalgo, che l’anno prossimo dovrebbe candidarsi per il secondo mandato.
«La ferrovia, più di 35 chilometri intorno a Parigi, è in disuso da decenni per colpa della burocrazia. Tuttavia c’è un risvolto positivo: la conservazione della biodiversità in un territorio ad altissima densità abitativa, sette volte più di Londra», dice Stéphane Vatinel, 53 anni, cofondatore di La Recyclerie, mentre in sottofondo le galline chiocciano e un gruppo di giovani studenti scorrazza tra le serre: «Alla Recyclerie sperimentiamo un sistema inedito: le amministrazioni locali sono indebitate, non hanno soldi per gestire una serie di attività sul territorio. Ecco perché è necessario moltiplicare i “tiers lieux”: qui, ad esempio, organizziamo 800 eventi all’anno a ingresso gratuito, ma abbiamo i conti in attivo. Un modello economico valido per tutte le città».
In molti casi, in realtà, le iniziative culturali sono sovvenzionate con soldi pubblici. Come Le Centquatre, diretto dal vulcanico José-Manuel Gonçalvès, un edificio che assomiglia a una cattedrale in rue d’Aubervilliers, ai margini del 19esimo arrondissement. Per oltre un secolo ospitò le pompe funebri della capitale francese, da dieci anni Le 104 è uno dei motori artistici di questo quadrante di città: spettacoli teatrali e di danza, concerti, atelier di fotografi e artisti. In un pomeriggio qualsiasi la gigantesca hall brulica di danzatrici e danzatori amatoriali, molti provano i passi e i movimenti della breakdance, ammessa alle Olimpiadi del 2024.
Non lontano da qui, un’altra importante istituzione francese, la Philarmonie di Parigi, sostiene il progetto Démos, rete di orchestre giovanili formate da ragazzini tra 7 e 12 anni provenienti da territori difficili di tutta la Francia, tra cui la banlieue parigina. È emozionante assistere alle loro prove in questo tempio della musica classica, alla Villette, decine di bambine e bambini alle prese con tromboni, flauti, viole, violini. «Non si tratta di un progetto puramente musicale, ma sociale. L’idea è provare a influire sulla formazione dei futuri cittadini attraverso l’apprendimento della musica», dice Gilles Delebarre, etnomusicologo e pedagogo, responsabile di Démos.
TEATRO A DOMICILIO
Prove di dialogo tra centro e periferia, come nel caso del film “Il professore cambia scuola” di Olivier Ayache-Vidal, uscito anche in Italia, protagonisti Denis Podalydès e Abdoulaye Diallo: la storia di un docente che insegna nel più prestigioso liceo di Parigi, l’Henri IV, spedito suo malgrado nella più disagiata scuola di banlieue. Il professore tenta di dominare la realtà e i giovani studenti con i suoi metodi rigidi, fallimentari, poi cambia approccio. Esiste davvero la scuola del film, il collège Barbara a Stains, sobborgo difficile a nord di Parigi. Qui abbiamo incontrato il regista francese, tornato tra i banchi e acclamato dai “suoi” studenti.
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«All’inizio volevo fare un documentario perché sul tema dell’educazione c’erano già altri film tra cui “La classe” di Laurent Cantet. Poi ho scelto il registro della finzione, che consente di toccare meglio le emozioni del pubblico», dice Ayache-Vidal, che presenta così il protagonista: «Non voglio che il professore sia un eroe, all’inizio vuole solo convalidare le proprie teorie, è distante, egoista e presuntuoso. Questo approccio “colonialista” lo porterà al fallimento, per uscirne dovrà trovare un’altra strada, una pedagogia alternativa».
Registi e sceneggiatori indagano la diversità e tentano di favorire il dialogo. In un’altra banlieue, Sevran, nota più per la scena rap e il tasso di criminalità che per il teatro, due donne - la regista Valérie Suner e la sceneggiatrice Dorothée Zumstein - danno vita con il Théâtre de la Poudrerie a uno degli esperimenti di arte partecipativa più interessanti degli ultimi otto anni: il “teatro a domicilio”, decine di spettacoli ospitati negli appartamenti dei residenti della zona, trasformati per una sera in palcoscenici. Venti minuti in treno Rer B e arriviamo a Sevran, una cité divisa in due dal canale dell’Ourq: su una sponda le torri-alveare e le centrali di spaccio, banlieue nella banlieue, sull’altra i villini della piccola borghesia.
Uno di questi lo ha costruito con le sue mani Nito Ferreira, 54 anni, operaio edile sbarcato mezzo secolo fa dal Portogallo. Fa gli onori di casa Nito, accoglie i vicini che portano da mangiare e si accomodano in salotto, i due attori professionisti (Julien Léonelli e Teddy Chawa), la regista. Un’atmosfera conviviale lontana dai cliché sulla periferia. Va in scena “Tout ce qui ne tue pas” (“Tutto quello che non uccide”), spettacolo teatrale scritto sulla base di trenta interviste a giovani uomini dei quartieri popolari di Sevran: nel testo affiorano temi diversi - ingiustizia, aspirazioni, sogni, le sirene del capitalismo e dei soldi facili - che raccontano un mondo.
«Siamo partiti da un dato: l’85 per cento dei francesi diserta il teatro. E ci siamo detti: se le persone non vanno a teatro, lo porteremo noi a casa loro», dice Suner, direttrice del Théâtre de la Poudrerie, mentre gli attori si preparano: «Chi vive qui considera il teatro una cosa lontana, di élite, che non riflette in alcun modo le proprie preoccupazioni. Dunque, lavoriamo affinché il testo sia lo specchio poetico del territorio, in cui gli abitanti si possano riconoscere». La cultura come atto politico, il teatro che prova a dare dignità a chi non ha voce, il tentativo estremo di far dialogare mondi sempre più lontani, mentre intorno la metropoli cambia troppo in fretta.