Durante la guerra dei Balcani, a Trieste e in Carnia arrivavano i profughi dall’est. Così fu ideato quell'esempio di integrazione diffusa che ora il Viminale vuole eliminare. Facendo danni incalcolabili. Parla Gianfranco Schiavone, tra gli ideatori del sistema di accoglienza Sprar in Friuli

Ospiti del Consorzio di solidarietà a Trieste fondato da Gianfranco Schiavone
Brucia il Parlamento della Bosnia Erzegovina. Le finestre in fiamme, il fumo nero, pesante, avvolge i piani alti del grattacielo. Sulle montagne che hanno tenuto sotto scacco Sarajevo per oltre quattro anni, si nascondono le forze dell’Armata Popolare Jugoslava e quelle serbo-bosniache. Elena, Zlaja, Slobodan, Salih avevano una vita normale prima della guerra. Da Sarajevo non volevano andarsene. C’era la casa da proteggere, i libri, una fotografia nascosta dentro al portafoglio, le pentole. Anche se non c’era più niente da mangiare, anche se il tempo non passava mai. L’assedio, le violenze, la vergogna, la fuga, i campi profughi. Uno schema che non smette di ripetersi e che a ogni conflitto scardina la soglia tra dignità e prigionia, perdita e sopravvivenza. Elena, Zlaja, Slobodan, Salih sono i personaggi di un romanzo - “Le Marlboro di Sarajevo” dello scrittore bosniaco Miljenko Jergovic - le cui vite vengono distrutte da una guerra in casa che trasforma il prossimo in nemico.

La guerra letta attraverso gli occhi di Elena, Zlaja, Slobodan e Salih è il dramma raccontato dai profughi arrivati in Italia con i primi corridoi umanitari negli anni ’90. Capofila di quell’esperienza virtuosa, frutto del coordinamento di diverse realtà associative e di iniziative di solidarietà nei confronti dei popoli della ex-Jugoslavia, è stato il Consorzio italiano di Solidarietà-Ics. «Fino al 1995 non esisteva un sistema pubblico di accoglienza», spiega Gianfranco Schiavone, presidente di Ics e tra gli ideatori del sistema di accoglienza Sprar, smantellato a ottobre dal decreto sicurezza Salvini. «A quel tempo accogliere significava organizzare il trasferimento delle persone in Italia attraverso i nostri uffici: quello di Spalato raccoglieva le segnalazioni dei casi più vulnerabili e le proponeva all’ufficio di Trieste. Questo metteva in collegamento le proposte con gli enti privati e le associazioni italiane che si erano rese disponibili ad accogliere. Di fatto abbiamo dato vita a veri e propri canali umanitari che hanno anticipato la visione di rete propria degli Sprar».
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Già venti anni fa Gianfranco aveva capito che sull’accoglienza si sarebbe giocata una partita importante, e che l’anomalia legislativa che faceva dell’Italia un paese di transito, impedendo l’assolvimento della procedura di asilo, andava risolta. «Almeno fino al 2008 il sistema è stato gracile perché si affidava al traino valoriale e volontario delle associazioni. Queste, insieme agli enti locali, sono rimaste figure essenziali anche negli Sprar dopo il 2002, ma alle istituzioni è sempre mancata la coscienza del fenomeno migratorio». La stessa debolezza si ritrova nell’attuale decreto che «riporta le lancette della storia indietro di venti anni.

«Fare accoglienza», precisa Schiavone, «significa gestire il cambiamento, e attraverso la gestione dell’accoglienza è possibile gestire il cambiamento sociale. È un atto politico, il più politico possibile, e la destra lo ha capito molto bene». Il decreto non ha soltanto trasformato gli Sprar, ma ha messo fine all’intera esperienza modificandone, alla radice, le funzioni e l’impostazione. In questi 16 anni di attività, lo Sprar ha garantito la protezione sociale e legale dei richiedenti asilo e dei rifugiati raggiungendo, a fine 2018, oltre 36 mila beneficiari in più di 800 comuni. «La scelta di non separare gli interventi rivolti ai richiedenti asilo da quelli destinati a coloro che hanno ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale o umanitaria, è stata la caratteristica fondante su cui si è avventata la furia distruttiva dell’attuale esecutivo». Il richiedente asilo e il titolare di protezione hanno vissuto la stessa dimensione di accoglienza diffusa e integrata nel territorio, senza aspettare il riconoscimento dello status per avviare un percorso di integrazione. «C’è stata la profonda consapevolezza che i modelli che separano l’accoglienza dei richiedenti asilo da quella dei rifugiati creano tensione sociale, sperpero di risorse pubbliche e maggiore insicurezza».

Il decreto Salvini è incompatibile con l’accoglienza diffusa e mette dunque a rischio le attività di Ics e di quanti puntavano a un sistema dell’accoglienza di qualità. Su un punto Schiavone è irremovibile: «Non intendiamo gestire strutture-pollaio e ci rifiutiamo di trasformare i nostri operatori in guardiani a cui affidare la sorveglianza degli ospiti. Non sono realistiche 12 ore di mediazione linguistica a settimana, vale a dire 1,7 minuti al giorno per persona. Presenteremo quindi un contenzioso al Tar - lo abbiamo già fatto a Gorizia - perché i nuovi capitolati violano sia il codice degli appalti, sia le norme interne e di diritto dell’Unione Europea sugli standard di accoglienza». Il decreto, oltre a prevedere la drastica riduzione di costi (dai 35 euro pro capite al giorno, ai 21,30 per la cosiddetta accoglienza diffusa) per lo stesso servizio, non contempla più le attività di socializzazione e di integrazione sociale, i corsi di formazione professionale e le attività di supporto all’integrazione lavorativa. Non sono previsti corsi di lingua italiana (l’Italia è il primo paese europeo che non ritiene di insegnare la propria lingua ai richiedenti asilo) e il numero medio di operatori sociali per ospite - che nello Sprar è di circa un operatore per otto ospiti - nel nuovo schema precipita a un operatore ogni cinquanta, stravolgendo la funzione stessa degli operatori sociali dell’accoglienza (si stima circa 25mila lavoratori nel settore).

Con l’insediamento della nuova amministrazione comunale di Trieste a giugno 2016, è partita una feroce opposizione alle attività di Ics, «persino una cosiddetta commissione di inchiesta priva di impianto metodologico e senza alcun esperto indipendente, sfociata nel nulla», mettendo fine a una collaborazione iniziata nel 2013. Con il comune infatti, in anticipo sul decreto del 2015, Trieste era stata la prima città italiana ad avere unificato i due sistemi di accoglienza (Sprar e Cas) che hanno permesso a Ics di gestire oltre mille persone in 140 appartamenti e un centinaio di ospiti nella casa di prima accoglienza. «Il comune ha bloccato l’espansione della rete Sprar e i servizi sociali - con spese a carico dei cittadini - devono far fronte al completamento dei percorsi di integrazione sociale dei rifugiati. Non c’è quindi un vero risparmio. Con la fine degli Sprar spariscono anche i posti di lavoro esterni a Ics attraverso i quali venivano realizzati i corsi di formazione». Recentemente la stessa amministrazione comunale ha fissato al 30 per cento la soglia dei bambini di origine straniera negli asili comunali, e il presidente del Friuli Venezia Giulia, il leghista Massimiliano Fedriga, ha chiesto il coinvolgimento del corpo forestale e della protezione civile per potenziare i controlli ai confini e contrastare gli arrivi dalla rotta balcanica. «È questo lo scenario a partire dal quale montano rabbia e paura. Sentimenti che non sono convogliati verso il dissesto statale o la malavita, ma buttati addosso ai più deboli».
Gianfranco Schiavone

Seduto alla scrivania del suo ufficio, Gianfranco non dimentica Dracan, il signor Ramulich e quel centinaio di persone, «i casi più delicati che non si riusciva a far rientrare nei progetti», ospitati a casa sua fino al 2010. Due stanze in più sempre occupate, Gianfranco viaggiava di qua e di là dal confine, a casa Marisa Giorgetti, la mamma a cui è dedicato anche un premio letterario, si prendeva cura di tutti. Famiglie, disertori, anziani come lo stesso Ramulich, solo al mondo, che a guerra finita decise di tornare nel suo villaggio vicino a Tuzla. Senza più una casa, ma quello era il suo posto. Proprio così, libero di dover partire, “libers di scugnî lâ”, come scriveva il poeta friulano Leonardo Zannier, conterraneo di Pierluigi di Piazza. Prete di frontiera, nel 1988 Pierluigi ha fondato il Centro di accoglienza per stranieri “Ernesto Balducci” a Zugliano, vicino a Udine, che oggi ospita una cinquantina di persone. Durante un incontro pubblico, Pierluigi ha lanciato l’idea di esportare il modello Riace in Carnia, zona montana che soffre lo spopolamento. «Mi chiedo spesso perché un popolo di migranti non abbia elaborato e non continui a elaborare la memoria storica dell’emigrazione, trasformandola in sensibilità e apertura nei confronti delle persone che oggi giungono fra noi. Perché l’essere stati accolti nelle proprie esigenze non diventa un’accoglienza delle esigenze altrui? Perché questo avviene e non avviene? Forse proprio perché c’è questo crollo culturale e quindi morale, questa distanza dalla giustizia insita nella dignità di ogni persona umana?».

Interrogativi a cui Renato Garibaldi, apicoltore e fondatore del “Bosco di Museis” a Cercivento, in Carnia, risponde con la prima agricomunità per minori d’Italia, ispirata ai principi dell’agricoltura sociale come strumento di integrazione e inclusione. Di qui sono passati circa settecento ragazze e ragazzi non accompagnati tra gli otto e i diciassette anni, ma anche italiani con diverse fragilità, problemi di dipendenza e vittime di violenza. La comunità è un’isola felice dove l’unico problema potrebbe essere quello di far arrivare i ragazzi alla maggiore età «ma non sarebbe abbastanza», spiega Garibaldi, «bisogna lavorare per il dopo, soprattutto in questo momento. Il decreto Salvini è solo l’anticamera del disastro». Già prima che il ragazzo diventi maggiorenne, la comunità gli cerca una collocazione lavorativa che possa sostenerlo economicamente. Così, di concerto con diverse aziende del territorio, a Cercivento applicano la formula del “tirocinio speciale” per i richiedenti asilo: 40 ore alla settimana, 500 euro al mese fino a 18 mesi, e l’azienda, oltre alla formazione, si occupa del vitto e alloggio. Spesso accade che i ragazzi vivano nello stesso contesto domestico dell’imprenditore, unendo integrazione lavorativa e familiare. «Le polemiche ci inseguono ovunque e i ragazzi sono il capro espiatorio di quello che non funziona. Purtroppo lo straniero è sempre stato una preda facile. Ma cosa direbbero oggi quegli italiani che negli anni ’50 hanno lasciato città e paesi per andare a lavorare all’estero? Gli stessi friulani, che all’indomani del terremoto hanno avuto bisogno di tutto? Guardo alla mia gente e penso che siamo un popolo senza memoria».