Ha voluto per sé sia il Lavoro sia lo Sviluppo economico, ma un anno dopo i risultati sono a zero. Dall'inefficace reddito di cittadinanza al pasticcio su Whirpool, passando per i Riders, la sua prima battaglia. Invitò a Roma i fattorini del cibo, sbandierò leggi, promise tutele: ma tutto è rimasto come prima

Luigi Di Maio
Pensava di sedersi a cavalcioni su una gallina dalle uova d’oro, una perfetta macchina della propaganda da cui spernacchiare a ciclo continuo «io sono riuscito a farlo, Renzi e Calenda no», e invece si è ritrovato in un paludoso Vietnam che non sa gestire.

A tredici mesi dall’ascesa a super ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, il percorso di Luigi Di Maio traccia una traiettoria talmente precisa da rasentare la banalità. Dalle stelle alle stalle: parabola perfetta, e chi l’avrebbe mai detto. Quelle che dovevano essere le leve per catapultarlo nel firmamento narrativo del governo del cambiamento, lo stanno invece gettando in fondo a una palude di scivoloni e fallimenti.

I riders. L’Ilva. Mercatone Uno. Whirlpool, da ultimo. Ma anche il reddito di cittadinanza. Che incubo, che pasticcio. Certo, il marchio di fabbrica, l’intenzione di fondo, si potevano intuire già dalla scelta di farsi rappresentare, nelle crisi, dal trentenne Giorgio Girgis Sorial, egizio-bresciano, ex deputato M5S che nel 2014 s’era fatto notare per aver dato del «boia» al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e per aver preso la parola in Aula con l’incipit «porcellini del Porcellum»: il perfetto biglietto da visita per un felpato e autorevole dirigente ministeriale no? Ai tavoli, per dire, anche i più rossi - esasperati da riprove di assenza come il totale silenzio sull’affaire Fca-Renault - sono finiti a rimpiangere non soltanto Calenda e Federica Guidi: ma persino Gianni Letta. «Lui sì che era autorevole: un mago, una maestria», si mormora con qualche imbarazzo.

Eppure sembrava tutto perfetto, quando un anno fa, col fare del custode di un museo, a voce bassa e quasi con sussiego Luigi Di Maio saliva la monumentale scalinata razionalista del Mise, in una memorabile diretta Facebook nella quale si vantava essersi fatto aprire gli uffici anche nel giorno della festa della Repubblica, pur di mettersi subito all’opera, e mormorava compreso di voler essere «servitore dello Stato e del popolo italiano».

L’intenzione è forse salda, i risultati vagamente meno vivaci. Anche adesso, racconta chi partecipa alle trattative, dopo trecentoottanta giorni da ministro Di Maio si muove tra l’impacciato e il molto impacciato. Pubblicamente si rifugia tutt’ora nell’italico «è colpa di quelli di prima»: argomento che, tuttavia, risulta ormai piuttosto liso. Alle riunioni ristrette, quando arriva (sempre più di rado) si presenta ancora con i fogli scritti. Cioè legge, si attiene a un canovaccio: dettaglio inaudito per luoghi nei quali la disinvoltura, la confidenza con la materia è tutto. E dire che l’aveva intuito: «I tavoli di crisi sono materia complessa», mormorava già al primo mese da ministro, avendo subodorato le difficoltà. Eppure non si è impegnato particolarmente a superarle. Né con lo studio né con l’interlocuzione diretta.

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Di Maio bada a ciò che dice alle telecamere: a quegli appuntamenti sì che arriva preparato. Tanto più che spesso, più che petulanti giornalisti, ci trova direttamente le nude telecamere, sugli scalini del Mise (è suo il luogo declaratorio preferito, meglio che la sala stampa, chissà come mai). L’importante è la narrazione, più che la sostanza: il secondo livello della politica, quella detta, un classico del grillismo. Non a caso, è stato notato, al ministero i fascicoli sulle vertenze somigliano a delle rassegne stampa, sono formati più dagli articoli di giornale, dalle dichiarazioni pubbliche, che da numeri e studi.

Per converso, a differenza che in passato, risulta impossibile parlare con il ministro direttamente: anche per le urgenze, le parti sono invitate a contattare il portavoce. «Come se si potesse costruire la soluzione a una crisi aziendale parlando con un portavoce», bofonchiano i sindacalisti. Nell’Era Di Maio si finisce per costruire pochino, sarà un caso. E in effetti anche il caso Whirlpool è figlio di questo genere di non comunicazione: Di Maio ha giurato di non saperne nulla, ma l’azienda aveva comunicato almeno da aprile al ministero l’intenzione di chiudere la sede di Napoli, come rivelato da Politico.eu, e i sindacati chiedevano da tempo un incontro che però si è concretizzato solo allo scoppio mediatico del caso .

La tendenza è generale. Basti osservare a grandi linee alcune traiettorie. Quella dei rider, ad esempio. In piena euforia da vittoria, come primo atto politico da ministro del Lavoro Di Maio l’estate scorsa volle incontrare i fattorini del cibo, promettendo loro maggior tutela tra mille telecamere. Poi aprì al Mise un affollato tavolo per delineare un nuovo sistema di tutele, chiamò le parti sociali, le imprese, i sindacati autonomi, i comitati autorganizzati, insomma tutti quelli che poteva chiamare. Decine di sigle: risultati zero. L’ultima riunione risale a novembre, sette mesi fa. È fallita anche la via legislativa: due tentativi di inserire le norme nel ddl dignità o nel decretone sul reddito di cittadinanza, sono stati respinti per «estraneità di materia» e nel frattempo Di Maio si è fatto superare persino da Nicola Zingaretti, che nella sua veste di governatore del Lazio ha approvato una legge regionale pro rider. Quanto all’Ilva, il ministro è partito a luglio 2018 convocando 62 sigle al mega tavolone con ArcelorMittal, per finire ad aprile per farsi fischiare dai tarantini pur tenuti a debita distanza da una apposita zona rossa in stile G8 di Genova. Non propriamente una macchina del consenso, tanto più che una delle ultime notizie è l’annuncio della cassa integrazione 1.400 persone, sin qui negato.

Da annali della comunicazione, poi, è stata la vicenda Alitalia. Laddove ai cultori della materia è sembrato sentire riecheggiare gli annunci a ripetizione che a suo tempo - il cielo lo perdoni - sfoderò Angelino Alfano, da Guardasigilli berlusconiano. Quando proclamava, a ritmo trimestrale, l’imminente arrivo di una riforma della giustizia che diveniva tanto più «epocale» quanto più passavano i mesi: in effetti quella riforma rappresentava una tale svolta che alla fine non si fece. Per Alitalia, il riassunto dei risultati ottenuti in un anno dal ministro che si piccava voler essere «l’ultimo» ad occuparsi della compagnia di bandiera si possono riassumere in cinque dichiarazioni. «Ci stiamo lavorando», disse Di Maio durante l’assemblea di Confartigianato nel giugno 2018. «Il prossimo mese sarà quello in cui chiuderemo anche brillantemente, sicuramente, il dossier», proclamò incauto il 3 ottobre 2018. Col 2019 ha abbandonato gli avverbi. «Il dossier lo stiamo seguendo, presto avrete delle novità», sussurrò in piena crisi diplomatica con la Francia il 10 febbraio, cinque giorni dopo aver incontrato i gilet gialli. «Sta andando tutto per il meglio, ma serve molta prudenza e attenzione», chiarì da Torino il 13 aprile. Di proroga in proroga, di stallo in stallo, mentre Alitalia giace beatamente là, sono arrivate anche congratulazioni di Matteo Salvini, parole che col senno del poi sembrano pure sferzate d’ironia: «Complimenti a Di Maio: sta lavorando bene su Alitalia, come su Ilva», ebbe a dire il vicepremier prima di Pasqua.
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E mentre via via nel 2019 il ministro si faceva prendere sempre più dalle questioni politico-partitiche, a partire dal crollo verticale dei consensi dei Cinque stelle, persino i numeri non gli sono venuti in aiuto. Mancata la sconfitta della povertà, inefficace a quanto pare il reddito di cittadinanza (la platea dei beneficiari è più ristretta del previsto, i benefici molto più striminziti, e oltretutto per ora non funziona nulla), pure sul fronte occupazione non si è messi benissimo: dopo il varo del decreto dignità sono sì aumentati i contratti a tempo indeterminato, ma la precarietà si è ripresentata sotto forme diverse (ad esempio il ricorso al part time). E mentre il ministro del Lavoro Di Maio era intento ad aprire il rubinetto della cassa integrazione, schizzata del 30 per cento ad aprile rispetto allo scorso anno (addirittura salita del 78 per cento quella straordinaria), il ministro dello Sviluppo economico Di Maio non è riuscito a chiudere le crisi industriali.

Come se la sbandierata incompetenza grillina, orgogliosamente rivendicata come un marchio di positiva diversità, abbia finito per essere la ciliegina sulla torta di un sistema già debole. Da gennaio a oggi, comunque si è passati da 138 a 158 tavoli: chiudere è difficile, l’inclinazione è lo stallo. E qui si torna a bomba a Giorgio Sorial, e all’organizzazione impressa in genere da Di Maio al suo ministero Uno e bino. Al Mise il potente Vito Cozzoli, richiamato dal grillino come capo di gabinetto e di fatto suo braccio destro (ma adesso sono in freddo), ha potuto portare avanti quella riorganizzazione che non gli riuscì con la Guidi. Ruotati tutti i responsabili dipartimenti, eliminati personaggi centrali come Giampietro Castano, che da undici anni guidava la task force delle crisi aziendali, l’uomo chiave è diventato appunto Sorial. «Un laureato in ingegneria», lo definiscono le controparti. Sottinteso: privo di esperienza e di rapporti. «Uno che se deve chiamare Fiat telefona al centralino», sghignazzano alla Camera.

Del resto si sa, nel mondo grillino conta l’appartenenza sopra a tutto il resto. E Di Maio fa tutt’altro che eccezione. Al ministero ha piazzato anche i compaesani, gli amici, i compagni di liceo e di università. Dal napoletano Luigi Falco, capo ufficio stampa al Lavoro, a Salvatore Barca da Volla, nominato a febbraio vice capo gabinetto vicario al ministro del Lavoro essendo già da agosto segretario generale al Mise, e a sua volta compagno di Assia Montanino, compaesana anche lei, capa della segreteria di entrambi i ministeri; fino a Enrico Esposito, ex compagno di università, inciampato in alcuni tweet sessisti e comunque promosso, da vice a capo dell’ufficio legislativo del Mise, una nomina che peraltro ha consentito l’ingresso di un’altra ex collega della Federico II: Elvira Raviele, nome fisso sul Mattino nelle cronache mondane sulla Napoli bene. Un piccolo mondo, sparato a occupare posti e a gestire leve delicate del paese, in un sistema complessivamente debole, e con risultati che somigliano a un ballo sul Titanic, senza però nemmeno quella grandezza.

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