Palestre, outlet, videolottery, bar karaoke. Con nomi immaginifici e fasulli. Tutto è gigantesco, fuori scala: le pubblicità, le insegne dei negozi. La periferia orientale di Roma è diventata un infinito paesaggio americano. Una trasformazione profonda che racconta un cambio d’epoca (Fotografie di Massimo Siragusa per L’Espresso)

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C’è una statua di bronzo di san Giuseppe, su un lato di via Tiburtina, non lontano dalla stazione. Sotto c’è un cartello con la scritta “San Giuseppe Artigiano” e una freccia a destra, verso la parrocchia del quartiere. Chi aspetta al semaforo o passeggia sul marciapiede, può vedere un gioco di sovrapposizioni tra la statua e l’insegna del McDonald’s che si solleva poco avanti.

Cortocircuiti di questo tipo riempiono i dieci chilometri tra la stazione più moderna della città e l’ultimo tratto comunale della Tiburtina. È una Roma che non esiste da nessuna altra parte: sembrano gli Stati Uniti e non il quadrante Est della capitale italiana, per dimensioni di edifici e infrastrutture, tipologia degli esercizi commerciali, offerta di svago. I casinò, i fast food e le concessionarie, gli improvvisi spazi vuoti. La lingua, perché qui è tutta una corsa agli anglismi: la pista di pattinaggio su ghiaccio è un “Ice Village”, le palestre sono “Fitness Dream” e “Anytime Fitness”, l’albergo di fronte al carcere di Rebibbia si chiama “Hotel Industrial”. E un ordinario bar da cornetto e cappuccino, in zona Settecamini, porta il nome di “Big Ben Café”: è sormontato da una riproduzione della torre di Westminster, subito dietro ha una dépendance che offre slot e videolottery. D’altronde in questi dieci chilometri ci sono più casinò de noantri che cinema e librerie.
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La parrocchia di san Giuseppe Artigiano si trova in una strada interna. Lungo la Tiburtina vera e propria non affacciano chiese cristiane, ma ci sono la sede romana dell’Istituto buddista Soka Gakkai e una Sala del Regno dove si riuniscono i Testimoni di Geova. Il McDonald’s fronteggia un Burger King, basta attraversare le sei corsie. Senza dover mai lasciare la consolare, s’incontrano anche ristoranti di catene di steakhouse, fast food di pollo fritto e un secondo McDonald’s. Certo, ci sono anche il fast food spagnolo di tapas, i ristoranti cinesi-giapponesi e le rosticcerie di kebab, ma il dominio della ristorazione che guarda agli Usa è schiacciante.

Tutto è fuori scala per il contesto romano, tutto è grande come in America: le pubblicità murali sugli edifici e le autofficine, le parafarmacie e le insegne dei negozi. Sono grandi anche i vuoti, lungo via Tiburtina: i parcheggi dei supermercati, i campi improvvisi con l’erbaccia e i papaveri, i tetti bassi delle concessionarie che hanno la stessa presenza intensiva delle periferie urbane statunitensi.
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Nel primo segmento che compone l’itinerario, tra la stazione Tiburtina e lo snodo di Santa Maria del Soccorso, sono grandi i palazzi: quasi sempre di otto piani, addossati, figli delle speculazioni degli anni ’60 e ’70. Un’orgia di antenne paraboliche e tagli di mancata manutenzione che sembrano pelle morta dopo l’estate. Su un balcone sventola una bandiera dell’Azerbaigian: l’assurdo ricorre, d’altra parte, in questa strada elevata a consolare nel 286 avanti Cristo.

A ridosso del fiume Aniene, il complesso della Siderurgica Romana è simile a un tempio, ma proprio di un culto minore come può essere l’industria pesante in una città di scarsa tradizione industriale. Nel secondo segmento di questa Tiburtina a stelle e strisce, il residenziale si raccoglie in aree circoscritte, oasi abitate. E mentre gli spazi si fanno sempre più ampi, i lavori stradali senza fine generano un paradosso: lo sguardo acquista profondità ma le carreggiate si restringono, il traffico forma file lunghe e sottili, le auto sembrano in processione. Il brecciolino che schizza sulle corsie dà l’impressione che sia la parte non asfaltata a prendersi la carrabile, piuttosto che il contrario. Il giallo vivissimo di un negozio Compro oro sta accanto a una concessionaria che si chiama “Midas”.
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Le case popolari di via Fossacesia, poi, segnano la fine del tratto residenziale della Tiburtina romana e danno inizio al segmento finale, il più lungo e dispersivo: sette chilometri di aree industriali, dove le dimensioni aumentano ancora e il territorio perde ogni carattere urbano. Impraticabile senza un mezzo di trasporto: per cambiare marciapiede, quando ce n’è, bisogna percorrere tratti infiniti o scavalcare i blocchi di cemento spartitraffico. Anche qui c’è posto per i cortocircuiti. Come la ghirlanda di panni stesi dalle famiglie che hanno occupato uno stabile esattamente di fronte alla sede di un colosso industriale come Leonardo Finmeccanica, che da un terreno in rilievo pare prendere le distanze o sorvegliare dall’alto.

La Tiburtina è una sala giochi diffusa. Al livello di base ci sono i locali di slot e videolottery, che non sono le cupe bische di una volta, ma luccicanti luoghi d’intrattenimento. Il Billionaire Palace, per esempio. O il Manhattan Café, annunciato da una grande Statua della Libertà che pulsa di neon, mentre all’interno i paralumi sono a forma di grattacielo e una serie ininterrotta di grattacieli è stampata sul mobilio. O ancora, il cubo rosso e nero della catena Las Vegas, segnalato dai quattro assi all’incrocio con via di Pietralata: aperto tutti i giorni dell’anno, H24, si è insediato dov’era un capannone commerciale e oltre al gioco propone buffet gratuito per i giocatori e serate con Jerry Calà e Umberto Smaila.
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Da un paio d’anni esiste un secondo Las Vegas su via Tiburtina, proprio accanto a quello che segna il livello superiore dell’intrattenimento: il Dubai Palace. Sul sito si presenta come “la prima città del gioco in Italia, la più grande sala di intrattenimento costruita nello stile dei casinò”. All’esterno viene annunciato da un caos di colori violenti, con l’ossessivo tema iconografico della palma. Dentro c’è una celebre sala bingo, ci sono slot, videolottery, un punto per le scommesse sportive e un lounge bar, un ristorante (che propone carbonara e amatriciana, ma anche “insalatissima” trevigiana ed entrecôte danese). Fondato nel 2013, il Dubai Palace si racconta come «una realtà che ha portato linfa occupazionale in una zona ad alta densità abitativa, la Tiburtina Valley, che più delle altre ha risentito della recessione. Un tempo quartiere di industrie legate al settore tecnologico e manifatturiero, oggi si rifà il look».
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Una Tiburtina Valley esisteva davvero: una volta qui era tutto industria e capannoni. Esistono ancora fabbriche storiche, come la Pallini e la Gentilini, e l’industria dello spettacolo ha ancora gli studi televisivi della Titanus Elios e quelli cinematografici degli Studios ex De Paolis, dove la scritta DE PAOLIS TEATRO N°6 in vernice stinta si riconosce dalla strada. Ma lo stabilimento Technicolor ha chiuso i battenti nel 2014, e molte altre realtà l’hanno preceduto o seguito di poco. La fine di un’epoca è tanto evidente quanto è imponente l’ex fabbrica Penicillina, il più notevole caso di abbandono dell’intero percorso: dismessa nel 2006 e oggi simbolo dell’emergenza abitativa, pare uscita da un bombardamento ed è oggetto di continue occupazioni e continui sgomberi. A osservarne le dimensioni, le scale antincendio e i rampicanti che la abbracciano, l’ex Penicillina potrebbe essere una qualunque fabbrica in rovina di una qualunque zona depressa della Rust Belt.

Sulla Tiburtina, il nuovissimo e lo stato d’abbandono coesistono. Vengono abbandonati negozi di elettrodomestici e filiali di banche, automobili e pompe di benzina, chioschi che vendono sia angurie sia mozzarelle di bufala e baracchini con l’insegna “Lotteria nazionale”. Viene abbandonato un grande centro vendita d’abbigliamento, ancora tappezzato di cartelli che offrono sconti fino all’80 per cento. Coesistono anche le nuove e le vecchie tendenze commerciali: le catene di centri dentistici, i negozi di riparazioni di smartphone, gli hemp shop di cannabis legale, si alternano a luoghi radicati nel passato. Lo Shopping Center Tiburtino, per esempio, è un centro commerciale degli anni Novanta: un polo troppo piccolo per soddisfare tutti i consumi in una volta, dove si riuniscono esercizi che vendono tendaggi o si chiamano “La casa del bottone”, con un’area-bambini dove i giochi sono pochi e sembrano quelli dei bar di trent’anni fa. O ancora, sulla consolare resistono quei negozi di elettronica che ormai hanno quasi ovunque traslocato nei grandi centri commerciali ai bordi di Roma. Se in Italia esistessero ancora negozi Blockbuster, sarebbero in via Tiburtina.
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L’anello del Grande Raccordo Anulare sembra abbracciare la città intera, e invece la città straborda e continua a espandersi oltre. Nel margine estremo del comune di Roma, alle pendici dei monti Tiburtini, poche centinaia di metri separano il Joker nell’insegna del Black Jack e il Dubai Café, fratello del Palace, che spazia dai dolci artigianali al karaoke ed è stato progettato da Abbas Khamiss («L’idea era di immaginare una grande lampada nel deserto delle case diroccate e del degrado»).

Alla fine di tutto, a pochi metri dal passaggio nel comune di Guidonia, c’è una giostra. È di quelle a forma di medusa, con i seggiolini sospesi e il nome di “calcinculo”. Si alza in un campo brado dove non c’è anima viva: la giostra si direbbe abbandonata, o forse le luci devono ancora essere accese.