Uomo dei cinque stelle, antico cuore a sinistra, anzi no: amico di Salvini. Dalla Tav all'Europa, i mirabili equilibrismi del premier, che incarna la quintessenza del Movimento di Casaleggio: la capacità ad adattarsi ad ogni linea, ad ogni stagione, ad ogni rimpasto. Al grido: il cambiamento c'est moi

Giuseppe Conte
Un giorno o l’altro ce lo ritroveremo, dita a ventosa, arrampicato trasversale su un muro: sarà giallo come i Cinque stelle, verde come la Lega, o entrambe le cose. O magari a quel punto sarà color Mattarella, chissà.

Di certo avrà l’aria ineffabile di chi sia sempre stato là, comodissimo: e proprio per questo ci guarderà con l’aria interrogativa, stupito nel nostro stupore. Un po’ come adesso. Alla faccia degli sconquassi che lo circondano, Giuseppe Conte è infatti impegnato nell’incipit della sua nuova stagione: il premier esecutore, avvocato del popolo, portavoce degli interessi, attore sempre «fotogenico, affranto, compunto, vuoto, senza orrore di se stesso», come il Gastone di Ettore Petrolini. Il cambiamento c’est moi, di nuovo: e ancor meglio nella perfetta continuità. «Un Conte bis», sghignazzano in Transatlantico alla Camera taluni sovranisti di antico conio (e quindi neo-salvinisti) ben sapendo che siamo almeno alla versione «ter» di quella che sempre più somiglia a una maschera pirandelliana, la confortante virata surreale al fondo del mesto e trambusto orizzonte post europee. Perché è vero che tutt’ora nei corridoi della Camera il detto resta «conti quanto Conte quando regna bastoni», ma è altresì vero che, nel caso di Conte, il crederci ha fatto miracoli.

Non per niente, dopo trecentosessantacinque giorni di affiancamento continuo a Rocco Casalino, issato nell’ufficio più importante di Palazzo Chigi il premier ha imparato persino questo: che, per tirare a campare, bisogna dirsi pronti a tirare le cuoia. E così ha proceduto - con l’aria del «sarei il primo ad andarmene» - nei giorni e nelle ore più difficili per il suo governo. Quando, apprestandosi a incontrare separatamente i suoi vice come nei sacrosanti riti di una volta, ha fatto filtrare il messaggio che non avrebbe governato «con la spada di Damocle del voto anticipato», mentre invece sopra di lui Matteo Salvini faceva sibilare - affilatissimi siluri - i proclami sui Rixi e sulle Tav, sui crono-programmi e le Autonomie e le Flat Tax, altrettanti preannunci di voto anticipato. E mentre sotto di lui tutto, tutto tremava: i partiti, gli equilibri, il potere di Di Maio consegnato alla piattaforma Rousseau («Luigi è un amico», aveva detto il presidente del Consiglio a ottobre, quando ancora studiava per sottrargli il ruolo di capo), l’intero assetto del governo, addirittura la sua stessa sopravvivenza - della quale a Montecitorio si scommetteva sulla durata in termini di settimane, di giorni. Con tanto di fila, letterale, in Transatlantico davanti al Fratello d’Italia (ed ex azzurro) Guido Crosetto, conteso da forzisti in panico da rielezione e ansia da riposizionamento, pronti a giurare che adesso, visti i risultati europei, Forza Italia «bisogna solo chiuderla, caro Guido».

Rocco Casalino, ex portavoce di Palazzo Chigi all'ingresso della Camera dei Deputati 


Ecco anche allora pur in questo clima - benedette risorse cerebrali, straordinaria capacità mimetica del cervello che tutto è disposto a credere purché glielo si dica con sufficiente convinzione - Giuseppe Conte è riuscito a pattinare, persino a volteggiare, sulla pretesa che nulla, proprio nulla sia cambiato. Alla faccia del 34,3 per cento raccolto dalla Lega alle Europee, alla faccia del tracollo grillino al 17,1 per cento, alla faccia insomma del completo ribaltamento delle forze che l’avevano concepito premier e tenuto in piedi sin qui. Piena armonia. Andiamo avanti. Basta crederci. «Salvini ha sempre fatto parte delle forze del mio governo», ha sillabato disinvolto da Bruxelles, nella sua prima dichiarazione dopo tre giorni in cui aveva preso il colore esatto della scheda elettorale, conquistando così la perfetta invisibilità per l’intera durata dello spoglio. «E quindi non mi sento commissariato», ha soggiunto battezzando finalmente, dopo quella della temperatura e dell’inflazione, anche la categoria del commissariamento percepito.

Editoriale
Giù la maschera Matteo Salvini
3/6/2019
Ah, Giuseppe Conte: quale straordinaria batteria di risposte, quale varietà di improvvisazione. Le avrà apprese frequentando i tribunali, l’accademia, o ancor prima, fresco di studi nel collegio di Villa Nazareth? Sarà, anche questa, tutta farina del sacco di Casalino? Anche la sensazione di non commissariamento, bisogna dire, ha un suo elemento di verità. Il Prof. Avv .«garante del contratto», in effetti, non è più commissariato adesso di prima, né mai lo sarà più di quanto lo è stato dacché ha giurato al Quirinale, il 1 giugno 2018: commissariato da sempre e per definizione, è titolare di un incarico di gomma, inalterabile ai colpi che la fortuna gli abbatte contro. In questo senso, come fanno notare i più sopraffini esegeti del grillismo, la sua figura è la quintessenza del Movimento immaginato da Gianroberto Casaleggio, è in qualche modo la sua consacrazione ed evoluzione: privo di una individualità politica e quindi perfettamente fungibile per ogni linea, Conte è l’abito giusto a sostenere le ragioni del suo mandato, indipendentemente dal loro contenuto.
Luigi Di Maio

Lo ha fatto mirabilmente, in questi mesi. Raggiungendo forse la sua apoteosi nel momento in cui si è ritrovato in mano il compito indicibile di portare avanti la Tav, ma senza portarla avanti. Per l’occasione, estraendo tutte le sue abilità avvocatesche, Conte si è prodotto nella supercazzola detta delle «manifestazioni di interesse»: in sostanza un mezzo congelamento della procedura la quale comunque, salvo rivoluzioni, il percorso verso l’alta velocità Torino - Lione continuerà (come sa bene anche Di Maio che infatti appena richiesto di dire la sua ha subito rifatto spallucce, dicendo essere tutto «nelle mani di Conte»). C’è in particolare un bel video, che il premier ha postato sulla propria pagina Instagram, nel quale chiarisce piuttosto bene quanto sia fungibile il suo ruolo. Nel breve filmato, parlando di Tav, assicura: «Sarò garante del fatto che la posizione precostituita dei Cinque stelle e quella della Lega non peseranno sul tavolo della decisione». Ed ecco che dunque la pretesa iniziale (nessun commissariamento!) diventa circolare: nulla peserà, nulla conterà davvero. Come «l’economia circolare» che il presidente del Consiglio ha dichiarato or ora voler rilanciare, anche la convinzione è circolare: e gira che ti rigira, eseguire significa essere disponibile a tutto. Garantire che nulla farà davvero inciampare. Alla fine come in principio. «Questo posso dirlo?». «No». Fu Di Maio a rispondere così a Conte, quel giorno alla Camera, quando c’era da votare la fiducia al suo nuovo governo. Adesso può tranquillamente essere Salvini, a farlo: anzi l’ha fatto già.

Per quanto siano passati pochi giorni, il riposizionamento è infatti già un pezzo avanti. Ancor prima di incontrare a Palazzo Chigi, rigorosamente in ordine d’apparizione, Salvini e Di Maio, Conte ha rifiutato svelare quale sia stato il suo voto alle europee («credo neppure a casa sappiano per chi ho votato» - e in effetti noi con «a casa» neppure sappiamo a chi si alluda). Raccontando la sua mancata presa di posizione come cosa normale, ovvia, addirittura doverosa in quanto premier (è vero il contrario: l’ultima volta era successo con Carlo Azeglio Ciampi nel 1994). Quasi parlasse da giudice, Conte ha detto: «Ovviamente ho lasciato a coloro che hanno vissuto in prima persona la campagna elettorale la libertà e tutto l’agio per commentare i risultati. Io mi sono tenuto lontano perché è giusto, nel mio ruolo, aver vissuto da “privato cittadino votante” la campagna elettorale».

L’uomo che, con un senso dei ruoli davvero singolare, da premier esegue e da privato cittadino vota, deve recuperare punti al cospetto dell’onnipotente sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, che in coda di campagna elettorale l’aveva accusato di mancata terzietà. Allontanarsi, il più possibile, dall’immagine che lui stesso aveva dato nei primi sei mesi di legislatura. Quando si presentava come un grillino senza iscrizione alla piattaforma Rousseau, eventualmente capace di succedere allo stesso Di Maio, pronto se richiesto a candidarsi coi Cinque stelle. Ma, per converso, affatto incline a lasciare il suo posto al leader della Lega. «È pronto a cedere Palazzo Chigi a Salvini dopo le europee? Onestamente no, non sono pronto a questo passaggio delle consegne», aveva risposto al suo intervistatore preferito (Massimo Franco), ad autunno inoltrato.
Matteo Salvini

Era del resto, quello, il tempo in cui il premier si presentava persino parlare dal palco della festa Cinque stelle al Circo Massimo, e proprio Luigi Di Maio lo introduceva come l’esempio del «cittadino che si fa Stato», «uno che si ha messo la faccia, prima delle elezioni, quando nessuno credeva in noi». E lo stesso presidente del Consiglio rivendicava di non aver avuto difficoltà ad accettare, perché «ho conosciuto il vostro Dna anni fa».
Nel 2013 Conte, agganciato da Di Maio tramite Alfonso Bonafede, era stato indicato da M5S come membro laico nell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa, e nel febbraio 2018 era finito nella squadra di governo redatta da Luigi Di Maio. Si sarebbe dovuto occupare di Pubblica amministrazione, sognava il ministero della Deburocratizzazione. Mai, però, vi è da dire ha detto di aver votato grillino: anzi, all’epoca si presentò come uno dal cuore che «ha storicamente battuto a sinistra». Anche se poi, l’unico elemento di sinistra che è venuto fuori in questi anni è il suo tentativo di accreditarsi presso la corte renziana, anzi più precisamente di accreditare il suo dominus Guido Alpa attraverso i buoni uffici di Maria Elena Boschi. Vagamente s’è detto poi che Conte abbia votato Cuperlo, alle ultime elezioni: il che come si sa è impossibile, visto che l’ex competitor di Renzi non si è candidato nel 2018.

Di questo passo, e visto l’andazzo, finiremo per scoprire che Conte vota Salvini da un pezzo. Vai a sapere.