Dice di aver vinto un referendum su di sé. Allora deve governare lui. Senza travestirsi da oppositore delle prossime scelte
La Lega di Matteo Salvini aveva un milione e seicentomila voti alle elezioni europee del 2014 e il 6,2 per cento, 5 milioni e 698 mila voti alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, quindici mesi fa, e il 17,4 per cento, 9 milioni e 149 mila alle elezioni europee di domenica scorsa e il 34,3 per cento.
Per trovare paragoni bisogna pensare a Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Beppe Grillo. Milioni di voti che si spostano da una parte all’altra, mentre nella Prima Repubblica dei partiti per Bettino Craxi l’onda lunga significava un punto di percentuale in più, per il Pci di Enrico Berlinguer alle elezioni del 21 giugno 1976 la «nuova impetuosa avanzata» (come titolò l’Unità il giorno dopo) consentì di arrivare al 34,4 per cento, esattamente quanto conquistato da Salvini il 26 maggio (con il 93 per cento dei votanti, però).
Un pezzo importante di Paese ha trovato il suo nuovo leader. L’uomo forte solo al comando, il padrone del consenso. Come è successo nel 1994 con Berlusconi e nel 2014 con Renzi che aveva preso addirittura il 40 per cento. Si è parlato di un trionfo a sorpresa, di numeri imprevedibili, il leader vittorioso pochi minuti dopo il voto ha dichiarato che in pochi avevano pronosticato un risultato simile. Può darsi.
Questo giornale, in realtà, avverte da più di un anno che in Italia sta montando una nuova creatura, a colpi di ruspa e di selfie. Sottovalutata, in anni passati, dal Pd di Renzi (come si può dimenticare il tweet del premier toscano che accolse il risultato delle elezioni regionali in Emilia Romagna del 2014: «Lega asfalta Forza Italia e Grillo»), forse alimentata come si fa con un nemico di comodo che distrugge il campo avversario, che si può sconfiggere facilmente. Banalizzata da osservatori e intellettuali. Trattata da alleato minore dal Movimento 5 Stelle che giusto un anno fa entrava in grande stile nelle stanze del potere.
Me lo ricordo quel primo giugno nei saloni del Quirinale per il giuramento del governo di Giuseppe Conte e poi nei giardini per il ricevimento che festeggia la nascita della Repubblica. I ministri M5S Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro, tutti in abito scuro, felici di esserci. Salvini, invece, si era seduto sulla poltroncina rossa come un allenatore sulla panchina all’inizio del campionato. Sudato, impaziente, inquieto. Per Di Maio e compagni quel giorno era un punto di arrivo, il potere conquistato, per Salvini un punto di partenza. Un anno dopo quel potere si è rivelato un frutto avvelenato, una sciagura. Il Movimento si è frantumato, Di Maio smarrito, i parlamentari nel panico come passeggeri del Titanic. L’esito di una catena di errori, non aver capito che in politica, tra le poche regole di base, c’è quella che recita: tra la copia e l’originale, meglio l’originale. La copia, il Movimento 5 Stelle, non ha cultura politica, classe dirigente, organizzazione sul territorio. L’originale, la Lega, ha tutto questo in abbondanza.
La vittoria di Salvini è qualcosa di diverso da quella di Renzi nel 2014. Per quasi due anni, tra il 2013 e il 2015, il segretario del Pd e presidente del Consiglio venuto da Rignano aveva potuto godere di una condizione sconosciuta a tutti gli altri leader che lo avevano preceduto. Era un prodotto senza confini ideologici, potenzialmente lo potevano votare tutti: elettori di sinistra in cerca di riscatto, elettori berlusconiani in cerca di un nuovo nemico della sinistra, elettori grillini in cerca di rottamazione. Si muoveva senza alternative. Ha funzionato per un po’, poi l’opportunità si è richiusa, le alternative si sono formate, la bolla è esplosa. Il Matteo 2019, il capo della Lega, può contare su una rete di potere locale e su un’ideologia di riferimento terribile e semplice. Il crocifisso e il no ai migranti e all’Europa, la società senza tasse, la sicurezza e l’egoismo. Il cittadino che chiede più polizia ma non vuole pagare le tasse per finanziarla. Il liberi tutti della legittima difesa e della quota 100 per le pensioni. Un misto di individualismo e di autoritarismo.
La vittoria di Salvini non è episodica o casuale. E può contare su un vento internazionale che soffia a favore e che non si misura soltanto in termini di seggi al Parlamento di Strasburgo e di Bruxelles. Gli europeisti possono a buon titolo esultare perché la diga ha tenuto e i sovranisti non hanno sfondato, ma resta un’azione difensiva, che non prosciuga il fiume del risentimento. Ma ora che Salvini ha trionfato bisogna chiedergli il passo successivo.
Lo spettacolo di questi giorni vede toghe contro, dossier, veleni, il Consiglio superiore della magistratura che torna agli anni più bui, sotto gli occhi dei rinnovatori ancora una volta inconsapevoli e assenti. Altri scontri seguiranno, ne parla Emiliano Fittipaldi sul nuovo numero dell'Espresso: ministeri, burocrazie, partecipate, Rai, servizi segreti, apparati di sicurezza. Una fitta schiera di boiardi, poliziotti, giornalisti pronti a saltare su quella ruspa da cui, invece, il Capitano dovrebbe scendere.
«Conte faccia presto e bene», è il mantra del leader della Lega, come dire: Giuseppe stai sereno. Sergio Mattarella celebra il 2 giugno e la festa della Repubblica con la consapevolezza che un altro cambio è vicino. Lo scontro con Bruxelles sui conti pubblici è solo il primo tassello di una strategia che porta alle elezioni anticipate.
Ma prima Salvini dovrebbe dimostrarsi coerente con il senso di responsabilità di cui fa ostentazione. Se ha trasformato le elezioni europee in un referendum, e se pensa di averlo vinto lui, deve ora assumersi il peso della guida del governo fin da subito. Fare lui la manovra economica, la legge di bilancio, se è in grado. Smettere di vestire i panni dell’oppositore, lui che è il potere.
In questo Parlamento la Lega è minoritaria rispetto a M5S, ma i parlamentari del Movimento che rischiano il seggio in caso di un nuovo voto saranno disposti ad appoggiare qualsiasi cosa pur di durare. Salvini premier sarebbe la fine della fiction politica in cui l’Italia vive da un anno, con la controfigura Conte a Palazzo Chigi. E la messa alla prova di un leader che ha piegato l’istituzione che occupa, il ministero dell’Interno, al suo successo personale. Ha i voti di un pezzo di italiani, ma è incapace di rappresentare il bene comune, l’interesse di tutti. Dovrebbe adesso almeno farci la gentilezza di mettere la faccia sulla svolta e non aspettare di raccogliere i frutti del logoramento altrui mentre l’Italia affonda.
Nel frattempo, anche l’opposizione potrà meditare su un risultato che concede sollievo ma non soddisfazione e che non rassicura. La sinistra radicale è scomparsa dalle mappe. Il Pd di Nicola Zingaretti ha intonato il primum vivere, come fece Craxi nel 1976 con il partito socialista quasi estinto. Ora si tratta di cercare quei segni positivi su cui ricostruire quello che manca oggi. Sulla terra, con i piedi piantati, ci sono quei sindaci di centrosinistra che hanno vinto. Giorgio Gori a Bergamo, nel cuore della provincia leghista. Dario Nardella a Firenze, il renziano dal volto umano, e Matteo Ricci a Pesaro. Antonio Decaro a Bari e Carlo Salvemini a Lecce.
Nella città del barocco e della pietra bianca, sempre governata (bene) dalla destra, il sindaco Salvemini sembrava una meteora, eletto un anno e mezzo fa, senza una sua maggioranza in consiglio e poi commissariato. «Non mi chiedete quale è il segreto di questa vittoria. Non c’è, non esiste. Il potere al quale dobbiamo ambire non è un sostantivo - comando o dominio - ma un verbo servile: potere cambiare, potere trasformare, potere migliorare, potere servire», ha scritto sui social. A Milano il sindaco Beppe Sala sta costruendo un modello fondato su una parola che forse non è soltanto di sinistra ma ne ha almeno il sapore: autenticità. Quello che gli elettori hanno ritrovato nei due recordmem di preferenze: il manager prestato alla cosa pubblica Carlo Calenda e il medico di Lampedusa Pietro Bartolo. Perché il Pd di Zingaretti da solo non ce la fa a costruire l’alternativa se parla soltanto ai già invitati, ai già convinti. Se la parola sinistra non funziona più, bisogna trovarne di nuove, o meglio di antiche: diritti, istruzione, lavoro, ambiente, uguaglianza.
L’Emilia non più rossa si prepara tra una settimana a difendere nei ballottaggi il suo modello dall’assalto della Lega. E penso al racconto che Vittorio Zucconi fece di una serata romana del 1977. Era l’epoca del terrorismo e la redazione del giornale diretto dal papà Guglielmo, il settimanale della Dc “La Discussione”, era stata colpita da una bomba. [[ge:espressosite:espresso:1.335263:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.335263.1558907405!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]] Guglielmo era rimasto miracolosamente illeso e, terminate le pratiche con la polizia, andò a cena con il figlio. «Ricordo che a tavola parlammo di guerra, quella del 1940, di come gli uomini e le donne vivevano la loro vita, i loro affetti, le loro necessità quotidiane camminando fra le macerie di una casa sbriciolata sotto le bombe della notte», scrisse Vittorio in “Parola di giornalista”. «Per mio padre, che avrebbe potuto passare quella sera in un cassetto refrigerato all’obitorio anziché in trattoria con me, era un modo evidente di esorcizzare la paura, di dare una prospettiva all’assurdità di quella sera. Mi raccontò di come mia madre incinta di me, con un cappotto rosso teso dalla panciona sopra una strada bianca di argine nella Bassa modenese, fosse stata mitragliata da un caccia inglese nel ’44, e le nostre vite, la sua e la mia, avrebbero potuto finire su quell’argine per nessun’altra ragione più importante che non fossero la rabbia, il sadismo, la follia di un pilota sconvolto dalla guerra di ritorno da una missione. E che dunque la vita non sia mai, anche nel migliore dei tempi, in pace o in guerra, con o senza terrorismo, divisa dalla morte più che dal gesto di un pazzo, o dal sorriso del caso, sottili come quel muro che lo aveva protetto dalla bomba. Capii quella sera come gli uomini e le donne della sua generazione, che avevano cinquanta o sessant’anni in quel periodo, il ricordo e l’esperienza della guerra fossero essenziali come un’arma segreta per attraversare la valle della follia italiana fine anni Settanta senza perdere la ragione».
Vittorio Zucconi ci manca. Buona festa della Repubblica.