Alti burocrati, superpoliziotti e top manager sono pronti a schierarsi con il leader leghista, anche se qualcuno prova a resistere. E intanto si ridisegna la mappa dei palazzi romani. «Il deep state deve ora remare in direzione del Carroccio. Nessun boicottaggio sarà tollerato»

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Nei palazzi del potere è arrivata la grandine. Improvvisa, con chicchi grossi come uova. E così adesso, parafrasando il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, «i deboli, gli esangui» e chiunque non sarà abbastanza lesto da ficcarsi sotto un ombrello, rischiano davvero di farsi male.

Perché se il voto europeo ha terremotato ancora il quadro politico italiano, annichilendo il M5S uscito vincitore dalle elezioni parlamentari appena 15 mesi fa, il trionfo di Matteo Salvini e dell’ultradestra ha messo in ambasce tutto il deep state del Paese. Da una settimana burocrati influenti, direttori di authority, vertici dei centri di comando, civil servant e agenzie indipendenti stanno annusando l’aria che tira. Le loro conclusioni sono banali: elezioni anticipate o meno, tutto sta per cambiare alla velocità della luce. Perché l’Italia - come ai tempi di Matteo Renzi - ha di nuovo un padrone solitario. Il “capitano” della strabordante Lega nazionale.

Durante il primo anno di governo gialloverde lo stato profondo, camuffandosi da “Arlecchino servitore di due padroni”, è riuscito a mantenere un grande potere d’influenza. Da un lato, evitando uno spoil system troppo radicale, i soliti boiardi hanno continuato a sussurrare consigli (a volte interessati) all’improvvisata classe dirigente grillina arrivata a Palazzo Chigi. Dall’altro, si sono spesi per tappare le falle aperte ogni due per tre dai populisti (soprattutto nel campo economico e dei conti pubblici), buchi che hanno rischiato più volte di fare affondare la zattera su cui galleggia la nazione. «Ma dopo il 26 maggio nulla sarà più come prima», spiega all’Espresso un leghista di primissimo piano. «Gli equilibri devono cambiare davvero: il deep state ora deve remare verso la direzione indicata dalla Lega. Nessun boicottaggio sarà tollerato». Salvini, ragionano in Via Bellerio, sembra un leader accentratore, ma in realtà non disdegna di delegare il potere. «Lo distribuirà ai funzionari, come ha fatto al ministero dell’Interno, ma solo se si fiderà ciecamente di loro. In caso contrario, nel futuro prossimo venturo la rotazione dei burocrati sarà radicale. Anche perché a differenza dei grillini, che non hanno personale dirigente adeguato, noi del Carroccio abbiamo fedelissimi capaci da piazzare ovunque».

I COMMIS DEL QUIRINALE
Salvini e i leghisti, però, non hanno alcuna voglia - almeno a parole - di fare forzature istituzionali. Tantomeno nei confronti della presidenza della Repubblica. Sergio Mattarella, al netto di uno stile di comando assai diverso da quello del suo predecessore Giorgio Napolitano, nel corso degli ultimi mesi ha via via acquisito un’influenza crescente. Per l’apparato è stato finora faro decisivo e unica bussola, oltre che consigliere prezioso dell’inesperto presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il presidente della Repubblica è intervenuto, direttamente o dietro le quinte, sulle questioni economiche più delicate (come il rinnovo dei direttorio di Bankitalia), sulle nomine più rilevanti. È stato Mattarella, ad esempio, a bloccare l’ascesa di Marcello Minenna alla Consob e a favorire la scalata di Paolo Savona, a suo tempo ritenuto inadatto a sedere sulla poltrona di Quintino Sella, mentre il suo appoggio e la sua stima sono state decisive nella promozione di Giuseppe Zafarana a Comandante generale della Finanza e a quella di Biagio Mazzotta come nuovo capo della Ragioneria generale dello Stato.

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Il boom della Lega, l’indebolimento dell’esecutivo e quello del presidente del Consiglio, però, ha modificato gli scenari politici. Il boccino è in mano a Salvini (in caso di crisi di governo Mattarella è pronto a concedere elezioni anticipate, o a trovare maggioranze alternative che comprendano, però, chi è maggioranza nel paese reale) e al Quirinale sanno ormai che il vecchio filo diretto con l’avvocato pugliese sarà ancor meno utile che in passato.

Anche il peso politico specifico dei potenti consiglieri del presidente della Repubblica è destinato a variare. Ugo Zampetti, segretario generale del Quirinale, resta un mandarino potente e temuto, capo assoluto della macchina istituzionale, un alto funzionario che gioca su più tavoli e capace di mettere ancora becco nelle nomine, innanzitutto su quelle dei dirigenti della Camera e del Senato. Al di là di quello che scrivono molti giornali, i suoi rapporti con il capo politico dei 5Stelle erano già allentati da mesi: Zampetti non ha mai digerito l’improvvida richiesta d’impeachment di un anno fa, mentre Di Maio non lo interpella più da tempo, considerandolo troppo lontano dalle istanze grilline.
Sergio Mattarella

Francesco Saverio Garofani, consigliere di Mattarella per le questioni istituzionali, finora era in grande ascesa. Mattarella gli ha affidato il canale riservato con il presidente della Camera Roberto Fico, capo occulto dei dissidenti anti Di Maio. Ex deputato Pd della corrente di Dario Franceschini, Garofani è malvisto soprattutto dai leghisti: secondo fonti di Via Bellerio sarebbe stato proprio lui, in caso di tenuta del Movimento alle Europee, il regista di una possibile (ma ormai poco probabile) alleanza di governo tra M5S e democrat a trazione zingarettiana.

Editoriale
Giù la maschera Matteo Salvini
3/6/2019
A torto o a ragione a Garofani (e a Giancarlo Montedoro, potente consulente in materia giuridica del Quirinale e tra i capofila della lobby dei Consiglieri di Stato) viene addebitata da parte di Salvini e dei suoi fedelissimi anche la celebre lettera con cui Mattarella ha “accompagnato” la promulgazione della legge sulla legittima difesa. Una missiva che ha smontato l’impianto demagogico della legge (la difesa non può affatto essere “sempre” legittima), e che ne ha “interpretato” meglio i confini giuridici.

I nuovi padroni della politica italiana, invece, hanno ottimi rapporti con Daniele Cabras, consigliere per gli Affari giuridici del presidente. Da sempre inviso ai grillini, che sostengono come il grand commis abbia spesso bloccato alcune loro disposizioni (tra le altre pare che Cabras non gradisse, a causa di alcuni conflitti di interessi, la nomina dell’italoamericano Domenico Parisi ai vertici dell’Anpal, l’agenzia del lavoro) agevolando, al contrario, quelle della Lega.

Si tratta, ovviamente, di supposizioni. È un fatto, però, che Cabras e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti abbiano fin dall’inizio della legislatura un canale di comunicazione preferenziale, che ora è destinato a rafforzarsi ulteriormente. Dovuto a una stima reciproca, certo. E al fatto che i due abbiano lavorato spalla a spalla per cinque anni alla V Commissione di Bilancio (il primo come funzionario e segretario, il secondo come presidente), prima che Cabras - figlio di Paolo, a lungo parlamentare della Dc - diventasse nel 2014 capo di gabinetto di Fabrizio Saccomanni al ministero dell’Economia.

«BOICOTTARE MATTEO»
La grandine sta per arrivare, è un’evidenza. Ma non è detto che funzionari e poteri forti assortiti cerchino subito la protezione dei vincitori, come vuole la vulgata italica a ogni tsunami elettorale. C’è chi è pronto a resistere. Soprattutto al ministero dell’Economia, dove i burocrati che devono bollinare la politica economica dei governi sono da sempre nel mirino dei populisti. Il contrasto è banale: da una parte c’è chi vuole spendere e spandere per mantenere o accrescere il consenso, dall’altra ci sono i supertecnici pagati per far rispettare i vincoli di bilancio e i patti europei.

Dopo l’offensiva portata avanti dal portavoce di Conte Rocco Casalino (celebre l’audio sull’ipotesi di una «megavendetta» per punire i dirigenti incapaci di trovare «10 miliardi del cazzo» per il reddito di cittadinanza), il braccio di ferro sul deficit e la defenestrazione di qualche pezzo da novanta come il capo di Gabinetto del Mef Roberto Garofoli, i tecnici dello stato profondo si sono però presi rivincite importanti.

Giovanni Tria - come chiosa un altro dirigente leghista - «ormai non risponde più a nessuno»: criticato per mesi dalle opposizioni e dai colleghi economisti per aver concesso troppo margine all’allegra finanza del governo, il ministro ha via via chiuso i cordoni della borsa, e varato ad aprile un Def più rigoroso delle aspettative. Tentando di placare i mercati finanziari, lo spread (ora schizzato verso quota 300) e la Commissione europea.
Giovanni Tria

Negli ultimi mesi Tria, che si fida solo del gruppo delle “amazzoni” guidate da Claudia Bugno ancora in sella nonostante gli attacchi dei grillini, e del direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera) ha bloccato decine di pretese sgangherate o irregolari, dalla norma che prevedeva di liquidare i risparmiatori truffati dalle banche senza fare alcun distinguo tra le singole posizioni, al decreto - voluto da Di Maio - per girare un miliardo alle famiglie in pannolini e babysitter. Un niet, in quest’ultimo caso, arrivato con il supporto dei tecnici della Ragioneria della Stato, che hanno evidenziato l’assenza di coperture certe.

Ora il ministro dell’Economia dovrà fronteggiare un nuovo assalto all’arma bianca da parte di Salvini, che pretende la flat-tax per i ceti medi già nella prossima Finanziaria. Una promessa da trenta miliardi che i burocrati custodi dei conti pubblici cercheranno di boicottare in ogni modo. «Cercheremo di fare come hanno fatto gli esperti del Mise con il reddito di cittadinanza», chiosa una fonte autorevole del Mef. «Hanno messo tanti di quei paletti che la platea dei beneficiari si è ridotta al minimo. La gente è rimasta delusa da assegni bassi, è vero, ma così si sono evitati danni peggiori ai nostri conti pubblici».

Ritratto
L'ultima piroetta di Giuseppe Conte, l'avvocato camaleonte
3/6/2019
Stavolta, però, non è detto che la Lega accetti compromessi al ribasso: lo scontro con la burocrazia è dunque più che probabile, e in caso di rimpasto di governo la testa di Tria - che ha subito il richiamo della Commissione europea sullo sfondamento del rapporto tra debito e Pil - potrebbe essere una delle prime a cadere.
Mario Draghi

Tria, di certo, potrà contare sull’appoggio di Mattarella, e sull’ombrello di Bankitalia. Nell’istituto guidato da Ignazio Visco, governatore spesso critico con le misure del governo (per lui Quota 100, la riforma delle pensioni targata Salvini, difficilmente «aiuterà la crescita»), si è da poco insediato il nuovo direttorio. Composto da civil servant che, nonostante le pressioni dei populisti per comporre un board “di cambiamento”, sono invece espressione della migliore tecnocrazia nazionale: a parte Fabio Panetta, direttore generale bipartisan che piace da sempre a Giorgetti e ai leghisti, è rimasto al suo posto come vice Luigi Signorini (nei mesi scorsi colpito da grillini e leghisti con critiche poco puntuali, tanto da essere difeso con successo da Visco, Tria, Mattarella e soprattutto Mario Draghi), e ha fatto il suo ingresso Daniele Franco. Proprio l’ex ragioniere dello Stato finito nel mirino di Casalino e Di Maio durante la scrittura della manovra 2019.

I SUPPLENTI
Nei gangli del potere, negli enti e nei ministeri ci si pone, dunque, il solito dilemma. Saltare sul Carroccio dei vincitori, o provare a resistere, rischiando il posto. In Rai Fabrizio Salini, amministratore delegato scelto dal M5S, nei prossimi mesi dovrà difendersi dal fuoco poco amico dei dirigenti sovranisti, come il presidente Marcello Foa e la direttrice di Rai Uno Teresa De Santis, che non accetteranno più alcun diktat su nomine e palinsesti. «Lo spostamento di Fabio Fazio su Raidue è solo l’antipasto», spiegano da Viale Mazzini.

Anche nei dicasteri chiave il deep state si interroga sugli assetti postelettorali. Al ministero dell’Interno cambia poco: l’uomo forte resta il capo di gabinetto Matteo Piantedosi. Le nomine dei prefetti sono, di fatto, cosa sua. E il suo peso sarà notevole - il prossimo anno - anche nella scelta del nuovo capo della polizia. Franco Gabrielli, che è stato confermato un anno fa dal governo Gentiloni, è stimato da tutti, ma ha un’indipendenza che non piace a tutti. Non è detto che possa essere lo stesso Piantedosi, chiosano all’Espresso voci leghiste, a prendere il suo posto.
Fabio Panetta

Se al Mise Vito Cozzoli, scelto da Di Maio in persona come suo braccio destro, spiega da una settimana ai suoi pretoriani di essere «più che tranquillo» (è lui che ha chiuso la partita dell’Ilva, quella della Tap, oltre a coordinare i lavori del decreto dignità e sul reddito di cittadinanza), al ministero dei Trasporti il panico è tangibile. La debolezza del ministro Danilo Toninelli è conclamata, e non esistono dirigenti di peso che possono fermare l’onda verde: il Mit, per i leghisti fissati con la Tav e i cantieri da far ripartire, è più che strategico, e negli uffici tutto è destinato a cambiare in tempi brevi.

Anche i burocrati e gli ambasciatori che gestiscono da un anno la nostra politica estera sono con il fiato sospeso. Nell’ultimo anno i pasticci e gli incidenti diplomatici provocati dal governo Conte non si contano (si va dall’isolamento con la Ue determinato dalle politiche salviniane sui migranti alle uscite venezuelane pro-Maduro dei Cinque stelle, passando per gli attacchi al franco coloniale di Alessandro Di Battista fino agli incontri con la frangia estremista dei gilet gialli organizzati da Di Maio che hanno irritato Emmanuel Macron), ma quasi mai è stato il ministro degli Esteri a metterci una pezza. A fare le veci di Enzo Moavero Milanesi, che ha dimostrato un profilo politico fragile, è stato quasi sempre il Quirinale. E, in seconda battuta, il potente segretario generale del Mae Elisabetta Belloni.

L’assenza di un titolare autorevole al ministero, e le divisioni strategiche in politica estera tra le due forze di maggioranza, hanno creato però pericolosi vuoti di potere, che hanno gettato nel caos fronti sensibili. Un semplice sottosegretario con il pallino della Cina, Michele Geraci, e l’ambasciatore a Pechino Ettore Sequi hanno, quasi in solitudine, gestito il delicatissimo dossier sull’ingresso dell’Italia nella nuova Via della Seta. Un progetto appoggiato fortemente dal M5S che si è trasformato in un mezzo disastro diplomatico: mentre la Francia piazzava, senza fare pericolosi accordi di sistema con l’impero orientale, commesse miliardarie sugli Airbus, il nostro governo ha strappato qualche accordo per inviare a Shanghai arance e mandarini.

Con Salvini premier in pectore, l’asse cinese è destinato a rompersi: nonostante gli ottimi rapporti con Vladimir Putin, gli uomini della Lega hanno promesso agli americani (per bocca del sottosegretario Guglielmo Picchi, che gode di buone entrature nell’ambasciata a stelle e strisce di Via Veneto a Roma) che le cose cambieranno presto, e che da ora in poi ogni intromissione del regime di Xi Jinping nel sistema economico nazionale sarà respinto con vigore. Non è solo una questione commerciale: se il capo della Lega vuole anche l’appoggio dell’amministrazione Trump per la sua scalata a Palazzo Chigi, la fine del flirt con Pechino è la condicio sine qua non posta dagli americani.
Matteo Piantedosi

Anche il dossier libico, con la guerra civile e la questione migratoria sempre aperta, da oltre un anno a questa parte è stato gestito quasi in esclusiva dallo stato profondo. In particolare dai vertici dell’Eni (Claudio De Scalzi, nonostante le inchieste giudiziarie, è considerato dai leghisti un “oil man” formidabile) che controllano gli impianti petroliferi e curano rapporti con le varie fazioni locali, e dai capi dell’Aise, la nostra agenzia dei servizi segreti che lavora all’estero. Prima Alberto Manenti, ora il direttore Luciano Carta (coadiuvato dal vice con delega Giovanni Caravelli) hanno sopperito sul campo alle debolezze della politica. Provando a difendere gli enormi interessi strategici ed economici che l’Italia ha in Tripolitania.

Anche qualche apparato di sicurezza, con la vittoria senza se e senza ma di Salvini, rischia però di essere “commissariato”: il Capitano intende infatti piazzare suoi fedelissimi all’Aisi (gli 007 del controspionaggio) e soprattutto al Dis (l’organismo di coordinamento dei servizi), guidato da pochi mesi dal generale Gennaro Vecchione. Scelto direttamente da Conte (l’ex moglie del premier, si spiega nei palazzi, era buona amica della consorte del generale della Finanza), il numero uno del Dis potrebbe essere affiancato da vice direttori con maggiore esperienza, e soprattutto fede nel Carroccio. In realtà, tra i nomi in pole position ce ne sono anche alcuni di grande rilievo: come Vittorio Pisani, grande investigatore uscito indenne da disavventure giudiziarie e ora in forze alla Direzione centrale dell’Immigrazione della polizia, il generale dei carabinieri Angelo Agovino e il finanziere Luigi Della Volpe.

Vecchione è solo uno dei civil servant che fanno riferimento direttamente al premier. Molti, in queste ore, potrebbero decidere di levarsi la camicia gialla e indossare una casacca verde nuova di zecca. Se fino a qualche giorno fa l’avvocato del popolo era infatti dato in grande ascesa, addirittura in lizza come successore di Di Maio come capo politico del Movimento e persino come futuribile candidato alla presidenza della Repubblica nel 2022, dal 26 maggio molti ipotizzano che Conte abbia le settimane, o al massimo i mesi, contati. «Non sarò un ostaggio di Matteo», giura ai suoi. Vedremo a breve se i chicchi di grandine colpiranno anche lui. E se la sua piccola corte di boiardi proverà a resistere, o lo abbandonerà al suo destino cercando riparo sotto l’ombrello del Capitano.