Nel Continente, dopo gli ultimi risultati elettorali prende forma un nuovo riformismo radicale. Da noi invece il processo è lento e ambiguo

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A qualche giorno dalla pubblicazione dei risultati elettorali possiamo tirare un sospiro di sollievo. In alcuni Paesi la destra (perché è di destra che dovremmo parlare, non di populismo) nazionalista ha avuto successo, aumentando i propri rappresentanti al Parlamento europeo, ma in altri non è andata bene. In ogni caso il risultato complessivo ci presenta un’assemblea in cui le forze politiche favorevoli all’Unione - socialisti, liberali, verdi e popolari - sono ancora in grado di mettere insieme una maggioranza.

C’è persino la possibilità, grazie al successo dei Verdi e dei Liberali, che il punto di equilibrio del Parlamento si sposti verso sinistra, con la scelta di un Presidente della Commissione che non sia espressione, come il precedente, del Partito Popolare. Se così fosse, potremmo salutare la cosa come un segnale positivo. Andando oltre le etichette non c’è dubbio che il confine politico tra popolari e destra nazionalista sia, in alcuni casi, poroso. Lo abbiamo riscontrato in passato nelle vicende riguardanti l’Ungheria di Orbán, ma anche nel nostro Paese, negli atteggiamenti piuttosto ambigui nei confronti della destra tenuti da Tajani e Berlusconi. Bene quindi se il prossimo presidente sarà un socialista (meno probabile) o un liberale.

Mentre il clamore dei commenti sul voto va scemando possiamo prenderci un momento di pausa per fare qualche riflessione di carattere più generale sullo stato della sinistra in Europa. Quali sono le sfide da affrontare? Quali le prospettive per il medio termine? Anche se ci sono alcuni partiti socialisti che sono andati bene (ad esempio in Spagna, in Portogallo e in Olanda), non si può certo dire che la sinistra europea goda, in questo momento, di ottima salute.

A influire su questa condizione di vulnerabilità sono diversi fattori, in parte riconducibili alla crisi cui vanno incontro i partiti socialisti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, i cui effetti si avvertono ancora oggi, in parte ai diversi contesti politici nazionali in cui i partiti in questione operano.

Sul primo punto sono stati versati fiumi d’inchiostro, almeno da quando, nel 1978, con la sua consueta schiettezza, Eric Hobsbawm si chiese, in un saggio giustamente diventato famoso, se la «marcia in avanti dei lavoratori organizzati si fosse arrestata» (The Forward March of Labour Halted?). Già si avvertivano, nel Regno Unito in corso di transizione dall’economia industriale a quella dei servizi, i segni premonitori della dissoluzione dei sentimenti di solidarietà alimentati dalla condivisione dei luoghi di produzione, un collante morale che aveva tenuto insieme, nel bene e nel male, sindacati e partiti della sinistra socialista europea nella travagliata storia del “secolo breve”.

Le trasformazioni dell’economia internazionale e l’accelerazione del processo di globalizzazione cominciavano a erodere il terreno su cui era stato edificato il “consenso socialdemocratico”, un compromesso tra gli interessi del Capitale e quelli del Lavoro che coinvolgeva anche i partiti moderati (i Conservatori nel Regno Unito non meno dei Democristiani in Italia). Sciolti dai legami di solidarietà, gli operai e i salariati che costituivano la massa d’urto e il bacino elettorale dei partiti socialisti sono diventati nel frattempo lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, in molti casi proprietari di case, investitori, genitori di una nuova generazione che guardava oltre l’appartenenza di classe, verso una società di opportunità e di benessere. Lo spostamento a destra di una parte del vecchio elettorato laburista avviene nel Regno Unito molto prima, negli anni dell’ascesa di Margaret Thatcher, di quanto sia avvenuto da noi. Ma si tratta di un processo unitario, che progressivamente investe tutta l’Europa.

L’individualismo, la spinta verso il vantaggio personale, anche quando questo comporta significative diseguaglianze sociali, muta profondamente il paesaggio morale e sociale dell’intero continente europeo. In modo più marcato in alcuni Paesi, come il Regno Unito, e meno in altri, come la Germania o la Francia.

Non sorprende dunque che il crollo del muro di Berlino, nel 1989, venga letto anche dagli stessi socialisti come un passaggio d’epoca. Finito, con qualche anno di anticipo il Novecento, bisogna cambiare, e farlo velocemente, pena l’irrilevanza politica. Dal tentativo di rispondere a questa sfida nasce la Terza Via, che mette sullo sfondo, fino a farlo sparire quasi del tutto, il vecchio ideale egalitario e solidarista, per sostituirlo con un principio della tradizione liberale, quello della cooperazione nel mutuo vantaggio. L’idea è che nella società del benessere, se si produce sufficiente profitto, ci sarà abbastanza da “lasciar cadere” verso gli svantaggiati o i meno fortunati, senza interferire troppo con i meccanismi economici che generano ricchezza.

Per un po’ il compromesso sembra funzionare, poi arriva la Crisi, e con essa il drammatico risveglio delle sinistre europee. L’accumulazione della ricchezza priva di efficaci contrappesi politici si trasforma in potere negoziale, per cambiare le regole del gioco solo a vantaggio di alcuni. Grandi risorse affluiscono ai think tank libertari e a favore del mercato, mentre partiti socialisti e sindacati, perdendo iscritti, possono contare su mezzi sempre più limitati.

Da qualche anno la situazione è cambiata. In diversi Paesi europei, e anche negli Stati Uniti, la sinistra sta facendo una profonda autocritica relativamente all’esperienza della Terza Via e degli anni Novanta. C’è chi tenta di riproporre il modello della lotta classe, come fanno tante riviste (da Dissent a The Jacobin o a N + 1) e intellettuali che ritengono sia possibile restituire vitalità e mordente politico alla critica marxista del capitalismo.

Oppure chi, a mio avviso con maggiore plausibilità, ritiene che da Marx si possa imparare molto, ma che la risposta ai problemi di oggi la sinistra debba trovarla in un socialismo riformista che sappia tornare a essere radicale, come i socialisti e i democratici sono stati in alcuni passaggi cruciali del secolo scorso. La ragione per mettere sotto accusa le distorsioni del capitalismo è che esse hanno generato un sistema iniquo, che non tratta le persone come degne di eguale rispetto, e che questo sia intollerabile.

La strada per trasformare le idee di questo riformismo radicale in politiche sarà verosimilmente lunga, e non si misura sulla distanza di una legislatura. Le condizioni locali hanno una loro influenza sotto questo profilo. Se in alcuni Paesi, come il Regno Unito o la Germania, si comincia a intravedere il profilo di una nuova sintesi dei principi di libertà ed eguaglianza, che passi attraverso strumenti politici diversi, almeno in parte, da quelli della tradizionale socialdemocrazia, ce ne sono altri dove il processo è più lento. Tra questi, purtroppo, c’è l’Italia.

La natura ambigua del Pd, il suo voler essere un superamento non solo del socialismo democratico, ma anche della stessa distinzione tra destra e sinistra, si è trasformata negli ultimi anni, dopo la crisi, da un vantaggio tattico a un pesante fardello strategico. Un ostacolo alla capacità di costruire una prospettiva di lungo periodo che parli non solo al ceto medio affluente dei grandi centri urbani, ma a tutti gli altri.

A chi fatica, a chi ha fallito, a chi ha subito un torto o a chi sogna un mondo più giusto. Nei prossimi mesi, sulla capacità di sciogliere questo nodo si giocherà il futuro politico di Nicola Zingaretti, e forse dello stesso Pd. “Da che parte stai?” dice una vecchia canzone dei sindacati americani, resa popolare per la generazione di Occupy Wall Street da Ani Di Franco. Questa è anche la domanda da rivolgere al Pd, una volta e (speriamo) per sempre: “da che parte stai?”.