Da 4 mesi le proteste di massa occupano Algeri e altre 47 città. Con ironia, senza un leader. E non cercano il potere (Da Algeri)
«Bravi, continuate per la libertà!». Sono le sei del pomeriggio e la pensilina della fermata dell’autobus vicino alla Grande Poste, la piazza nel centro di Algeri, divenuta punto d’incontro dei manifestanti, è piena di post-it colorati. Li hanno lasciati le migliaia di donne, uomini e bambini mentre se ne tornavano a casa, dopo aver manifestato per il sedicesimo venerdì di fila contro il regime.
«Gaid Salah, vattene», si legge in un post-it verde fosforescente. Dopo le dimissioni del 2 aprile di Abdelaziz Bouteflika, l’ex presidente del Paese che ha lasciato il potere su pressione dell’esercito, oggi le redini della transizione sono nelle mani di Gaid Salah, capo delle forze armate. «Liberate i detenuti politici!». «Potere assassino», si legge in un altro ancora. I manifestanti sono scossi: a fine maggio, l’avvocato per i diritti umani Kamel Eddine Fekhar è morto in prigione dopo essere stato arrestato «provvisoriamente» il 31 marzo.
Libertà, democrazia e cambio di regime. «Devono andare a casa tutti!». Sono queste le richieste principali che il popolo algerino reclama dal 22 febbraio, giorno in cui Bouteflika aveva presentato la domanda per partecipare alle elezioni presidenziali per la quinta volta di seguito. E che la transizione avvenga senza interferenze esterne: né della Francia, né degli Emirati Arabi Uniti. Per loro «è un affare di famiglia».
«La manifestazione del sorriso», come la chiamano qui in Algeria con fierezza, dura incessantemente da quasi quattro mesi. Ed è la più grande manifestazione di malcontento pubblico dalla fine della guerra civile. Ogni martedì scendono gli studenti. Il venerdì tutti gli altri. Occupano le strade del centro di Algeri e di tutte le città del Paese. Quarantotto per l’esattezza.
Finora i feriti si contano sulle dita di una mano. Non un proiettile da parte dell’esercito. Non un atto di vandalismo da parte dei manifestanti. Qualche lacrimogeno per disperdere la folla e acqua calda. Ma gli algerini il venerdì dopo hanno risposto portando dello shampoo: «se mi sparate l’acqua calda, mi lavo I capelli». Mentre si manifesta si ride, in Algeria. Gli orrori della guerra civile, che ha fatto 200 mila morti, hanno addestrato un intero popolo che adesso che ha ricominciato a riappropriarsi del proprio spazio pubblico non ha nessuna intenzione di cederlo. E loro sanno che la violenza sarebbe il primo passo per perderlo. Fino al 2011, c’era lo stato d’emergenza e se camminavi per Algeri alle 7 di sera la polizia ti diceva di tornare subito a casa.
La protesta, totalmente spontanea, si è fatta sentire da Nord a Sud, Est a Ovest. È trasversale, partecipano tutte le classi sociali e le generazioni. Nonostante il caldo, per strada ci sono giovani, vecchi e bambini sulle spalle dei papà o sui passeggini. Sono i giovani però che dettano gli slogan e che cercano di riappropriarsi della place de la Grande Poste tutti i venerdì, nonostante il dispiegamento di poliziotti anti-sommossa.
I grandi assenti sono gli islamisti, cacciati dalle manifestazioni a più riprese, e i partiti politici. Nessuna credibilità verso qualsiasi tipo di organizzazione che abbia avuto a che fare, anche per sbaglio, con il regime. «Il grande rischio deriva dal fatto che la protesta è senza leader e ha un duplice obiettivo: il regime e i partiti politici», spiega Moustapha Hadni, politico dell’opposizione.
Nel mirino dei manifestanti non c’è solo il Fronte di Liberazione Nazionale, il partito storico alla guida del Paese dal ’62, anno in cui gli algerini hanno ottenuto l’indipendenza dai francesi. Ci sono anche tutti gli altri partiti d’opposizione, come il Fronte delle Forze Socialiste (Ffs), e tutte le associazioni civili che durante l’era Bouteflika sopravvivevano. Chi non era represso, era cooptato dal regime. E chi non era cooptato comunque replicava, all’interno del proprio partito, le stesse dinamiche autoritarie del regime con gli stessi segretari di partito per decenni e nessuna proposta alternativa per uscire dalla crisi.
Fino a febbraio, gli algerini, e in particolare i giovani, erano considerati apatici, completamente apoliticizzati e anestetizzati dalla rendita petrolifera dello Stato. Secondo l’Arab Barometer, nel 2016, solo il 2 per cento degli algerini dichiarava di essere iscritto a un partito politico e solo il 9 per cento a un’associazione civile. Come a dire: il multipartitismo, inaugurato nell’89 alla vigilia della guerra civile, è una farsa. Nessuno ci crede.
E infatti, quando nel 2011 tutto il mondo arabo era sconvolto dalle proteste, l’Algeria aveva mantenuto un minimo di stabilità grazie alla rendita petrolifera e al trauma della guerra civile finita solo un decennio prima. Le proteste c’erano (sono state calcolate 10 mila proteste in quell’anno) ma erano piccole, settoriali e organizzate.
Un giorno protestavano gli insegnanti, un giorno gli anestesisti, un giorno gli avvocati. Chiedevano tutti condizioni di lavoro e salari migliori. Meno corruzione e favoritismi. Ma mai un cambio di regime. Oggi invece le parole d’ordine si sono invertite: finora nessuno ha chiesto il pane, ma «democrazia e libertà».
«Sappiamo tutti che se non se ne vanno tutti a casa le condizioni economiche non cambieranno», spiega Lynda Abbou, giovane donna algerina che insieme ad altri, lo scorso gennaio, ha scritto una lettera aperta ai giovani per invitarli a occuparsi delle sorti del Paese. «Fino a gennaio, i giovani non pensavano alla politica, continua Lynda. Ma quando Bouteflika ha presentato la sua candidatura al quinto mandato è stato troppo. È una questione di dignità questa volta».
Sulla sedia a rotelle dal 2013, Bouteflika non governa il Paese da ormai quattro anni. E per gli algerini, il fatto che si presentasse per una quinta volta non voleva dire che Bouteflika, nonostante tutto, era il re del Paese. Tutt’altro. Ma la sua candidatura significava il mantenimento di un sistema opaco e corrotto, che si fondava su alleanze molto dinamiche tra la cerchia ristretta del Presidente, l’esercito, i servizi segreti, il Fln e gli oligarchi. E che soprattutto ha saccheggiato il Paese.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale oggi, infatti, nonostante l’Algeria sia un Paese ricco di idrocarburi, il 10 per cento della popolazione rischia di cadere sotto la soglia di povertà. E anche se le proteste sono politiche, hanno anche una dimensione economica. Da quando sono crollati i prezzi del petrolio nel 2014, le riserve straniere dello Stato sono passate da 200 miliardi di dollari a 75. Il governo ha iniziato a stampare moneta e adottare misure di austerità che però non hanno migliorato minimamente l’economia del Paese che resta ancora fortemente corrotta e dipendente dalle energie fossili. «Oltre alla disoccupazione, bisogna capire che i giovani algerini sono cambiati, continua Lynda. Non hanno paura perché non hanno vissuto la guerra civile. Vivono nelle città e sono ben educati».
Resta però un fatto: che queste manifestazioni, ancora oggi, non hanno leader e la rivoluzione algerina, come quella tunisina e egiziana del 2011, rischiano di essere delle rivoluzioni senza rivoluzionari. Il 15 giugno, 80 organizzazioni della società civile hanno proposto una road-map che non è stata rifiutata dalla piazza, ma oltre a una transizione di sei mesi, un governo tecnico, un dialogo nazionale e la creazione di un comitato elettorale, il programma non sembra avere chiaro come fare uscire il Paese dall’impasse politica. Secondo alcuni i manifestanti non scelgono leader perché hanno paura che una volta scelto questo sarà represso dal regime. Per altri invece è proprio l’orizzontalità stessa del movimento a farne la sua forza.
L’Algeria, come la Tunisia e l’Egitto del 2011, più che una rivoluzione sembra un movimento. Come spiega il sociologo Asef Bayat, nel suo ultimo libro “Rivoluzioni senza rivoluzionari”, ciò che assimilava le proteste tunisine con quelle egiziane è che nessuna, a differenza delle grandi rivoluzioni del ’900 come quella cubana o iraniana, era legata a degli intellettuali e aveva in mente dei programmi politici ed economici che avrebbero sconvolto radicalmente l’ordine nazionale. In Tunisia, come in Egitto, i manifestanti hanno chiesto la democrazia, ma nessuno ha mai messo in discussione il libero mercato e le logiche neoliberali. In Iran, l’11 febbraio 1979, come spiega Bayat, non appena Khomeini è diventato leader, il vuoto di potere è stato sostituito dai pasdaran, membri della rivoluzione. Gli impiegati pubblici hanno iniziato a gestire ministeri e dipartimenti. I contadini senza terre hanno confiscato le proprietà agli agro-industriali, gli operai si sono impadroniti delle fabbriche. E questo perché durante le proteste, i manifestanti avevano già un’idea del post-rivoluzione. Sentimenti contro il capitalismo, democrazia popolare, giustizia sociale erano le componenti di programmi politici ed economici concreti. Che fossero islamici o secolari.
In Algeria invece, come in Tunisia e in Egitto, non vogliono essere legati a nessuna ideologia. Loro combattono per «valori», ovvero per la «democrazia» e la «libertà». Tutto questo potrebbe far implodere il movimento? Per Adlène Meddi, scrittore algerino di fama internazionale, no; anche se sul lungo periodo può soffocare, nel caso il regime riuscisse a mettersi d’accordo rapidamente con una certa opposizione. «La preoccupazione dipende dal fatto che questo movimento è arrivato in un deserto politico dovuto alla repressione diretta o insidiosa nei confronti della vita politica, associativa, universitaria o mediatica, che il regime di Bouteflika ha adottato per vent’anni. È molto difficile ricostruire una vita pubblica in un contesto di tensioni politiche e di interessi mutevoli. Ma è positivo il fatto che gli algerini, dopo dieci anni di massacri della guerra civile e vent’anni del regno assurdo di Bouteflika, hanno di nuovo fiducia. La società ha scoperto di avere una forza che non sapeva nemmeno di avere. Questo sembra poco», conclude Meddi, «ma in questa parte del mondo, tutto questo è grandioso».