Lo scrittore siciliano ha dialogato con gli italiani con onestà e genialità, conquistandoli con indiscusso prestigio morale. E lascia un'eredità umana e culturale enorme

Come il grande Gabriel García Márquez, anche Andrea Camilleri ha inventato un mondo, un paese e una lingua. La sua Macondo è stata l’immaginaria Vigata. Quasi volesse rispondere a distanza di anni al pensiero espresso da Verga in una lettera indirizzata a Capuana, e confutare la prescrizione per la quale agli scrittori siciliani vengono richiesti “polmoni larghi”, cioè il dovere di scrivere e pensare in italiano, nel dare parola ai suoi personaggi Camilleri sceglie di coniare una lingua che, pur essendo, nel timbro, familiare a quella siciliana, è del tutto inventata, il vigatese. Ed è proprio quella lingua, che lascerà alquanto tiepido Leonardo Sciascia, ad imporlo come lo scrittore più amato dagli italiani. Eppure, il grande critico Silvano Nigro sostiene che Camilleri è figlio di Pirandello, ed è nato da una costola di Sciascia.

È vero, non c’è dubbio. Camilleri è stato uno scrittore di inquietudini pirandelliane e insieme civili. Come il maestro di Racalmuto, è stato anche un corsaro. Non a caso, fu proprio Sciascia a pubblicare per i tipi di Sellerio, nel 1984, “La strage dimenticata”, il più manzoniano tra i volumi che lo scrittore empedoclino ha lasciato. Ispirato alla “Storia della Colonna infame”, elaborato su documenti inerenti alle terribili stragi che furono consumate dall’autorità politica nel corso del 1848, stragi che in seguito verranno appunto occultate e dimenticate, Andrea deve l’azzeccatissimo titolo al fiuto di Elvira Sellerio con la quale da allora avvierà una collaborazione proficua e fedele, durata quasi un trentennio, attraverso cui, in modo felice, si combineranno amicizia e casi editoriali, un legame che proseguirà con immutato affetto quando Antonio prenderà il testimone lasciatogli dalla madre.

Per chi l’ha conosciuto e amato, dar conto della personalità di Andrea Camilleri, a poche ore dalla sua scomparsa, ancora scossi dalla forte emozione per la sua perdita, è molto difficile. Nel tempo del dispiegarsi del suo travolgente successo nel mondo, gli italiani ne hanno fatto un mito, assumendolo, nello stesso tempo, a figura familiare, con un affetto che prima di lui non era stato concesso a nessuno scrittore.

Il motivo è semplice: da uomo di teatro, Andrea ha saputo dialogare in modo onesto e geniale con i lettori e con se stesso. È l’inventore di una drammaturgia che pur essendo precipuamente siciliana ha conquistato l’Italia, contribuendo a diffondere ovunque una idea fantastica, e insieme realistica, del carattere del siciliano e della società in cui egli si muove, una rappresentazione che ha offerto al lettore, senza prediche, e con grande leggerezza, una visione della vita e del mondo. Attraverso i suoi romanzi, Vigata è divenuta un teatro cui affidare esperimenti di convivenza, di cittadinanza, e una latitudine morale, forse anche una tonalità sentimentale, un luogo dove finalmente, per dirla con Kundera, la vita non è altrove.

Beninteso, Andrea Camilleri non si definiva un “giallista”, i suoi romanzi con delitto erano pretesti per inventare una galleria di caratteri, occasioni per mettere in tensione i personaggi e l’ambiente circostante, continuando a creare dei paesaggi morali. Se qualcuno, riprendendo la celebre distinzione del glorioso direttore del giornale L’Ora, Vittorio Nisticò, gli chiedeva se era un siciliano di scoglio o di mare aperto, Camilleri rispondeva di appartenere alla seconda categoria.

Il suo esordio avviene come scrittore di teatro, con una commedia che s’intitola “Giudizio a mezzanotte”, vincitrice di un premio in denaro, trentamila lire, assegnato a Firenze, da una giuria presieduta da Silvio D’Amico. Una bella cifra e un bel salto da Porto Empedocle e Agrigento nel gran mondo letterario italiano. Ma Andrea non ama scrivere per il teatro e in seguito non lo farà più. Entra all’Accademia di Arte drammatica di Roma e lì diventa assistente di Orazio Costa per divenire, poi, a sua volta, titolare della cattedra di regia. Poeta, viene pubblicato da Ungaretti in una antologia di giovani nello Specchio mondadoriano, ma il suo primo romanzo, “Il corso delle cose”, che Niccolò Gallo, suo amico, vorrebbe pubblicare, a seguito della morte improvvisa di quest’ultimo, viene rifiutato da tutti gli editori cui è proposto. Uno smacco terribile, che Camilleri avrà modo di elaborare per diciotto, terribili, anni, prima di pubblicare con Garzanti il suo secondo romanzo, “Un filo di fumo”.

Siamo nel 1980 e questa volta la consacrazione e il pubblico riconoscimento arrivano puntuali. Ma il rapporto con la scrittura rimane segnato dal dubbio e, nonostante Livio Garzanti e Elvira Sellerio sollecitino un nuovo romanzo, dall’80 all’84 Camilleri pubblica solo “La strage dimenticata”, cui seguirà nel ’92 “La stagione della caccia” che Elvira Sellerio, memore della perplessità di Sciascia nei confronti del suo esuberante uso del dialetto, pubblica nella collana verde dedicata a documenti di storia e narrativa siciliana. Nel corso di questi lunghi spazi tra un libro e l’altro, Andrea chiude i conti col teatro, il suo primo amore.

Mette in scena “I Giganti della Montagna” e “La favola del figlio cambiato” di Pirandello, poi uno spettacolo dedicato a Majakovskij, ispirato alla affascinante lettura saggistica di Angelo Maria Ripellino, e indugiando nel teatro sembra decantare, e rielaborare, quel caleidoscopico mondo di personaggi che preme sulla soglia della sua mente, quasi preferisse tenerli ancora in attesa, consapevole che quelle larve fanno già parte di un immaginario romanzesco destinato ad esplodere di lì a poco.

Ecco apparire nel ’94, questa volta nella mitica collana La Memoria di Sellerio, “La forma dell’acqua”, il primo dei romanzi con protagonista il commissario Montalbano, un giallo senza assassinio, e poi, a seguire, nel ’95, Il birraio di Preston, il suo primo best seller. Ispirato dalla celebre Inchiesta sulle condizioni della Sicilia del 1875-76, questo romanzo è il susseguirsi di intrighi, delitti e tumulti determinati dalla incomprensibile decisione del prefetto di Caltanissetta, il toscano Bortuzzi, di inaugurare il teatro di Caltanissetta con una sconosciuta opera lirica, “Il birraio di Preston”.

Qui, insieme all’amato Pirandello, per la prima volta, nella scrittura di Camilleri fa capolino il genio grottesco di Vitaliano Brancati. Poco dopo, con “La voce del violino” il fenomeno delle inchieste del commissario Montalbano comincia a prendere ancora più evidenza. Come Andrea ricorda nella sua bella intervista a Marcello Sorgi, “La testa ci fa dire”, e come ha occasione di notare lo stesso Carlo Bo, lo scrittore inizia a occupare uno spazio che nel mercato letterario italiano è rimasto vuoto, quello della scrittura d’alto intrattenimento. Uno spazio che da allora dominerà incontrastato. Praticando il romanzo storico con testi che ormai sono ritenuti dei classici, come “La concessione del telefono” e “La mossa del cavallo”, alternati al titolo poliziesco di turno dedicato a Montalbano - nel frattempo il commissario è divenuto il ruolo centrale di una serie televisiva di successo prodotta dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, con il volto di un attore bravo e carismatico come Luca Zingaretti, a cui si aggiunge quella su “Il giovane Montalbano” con Michele Riondino - il campo dei lettori di Camilleri si allarga a dismisura e diviene un fenomeno editoriale senza precedenti.

Lo stesso Camilleri diviene un volto molto noto al pubblico, e la sua voce, sgranata dal fumo delle cento sigarette giornaliere, è più volte imitata da Fiorello in memorabili trasmissioni tv e alla radio. La levatura dell’uomo e dell’intellettuale è tale che Camilleri, oltre allo spazio commerciale, conquista presto un indiscusso prestigio morale, e un’autorevolezza fuori dal comune. I suoi interventi politici, le sue incursioni corsare si fanno frequenti e sono sempre ad alta vibrazione civile. Mentore di una sinistra che non c’è, di una sinistra che vorrebbe uguaglianza e solidarietà, diritti e democrazia, Camilleri nel lungo periodo occupato in Italia da Berlusconi, e ora da Salvini, diviene il padre di una Italia smarrita ma diversa, il guru dei giovani che invocano un cambiamento, e porterà sino all’ultimo questo ruolo di testimone con slancio e passione giovanili, sino all’inatteso epilogo che lo ha messo fuori gioco.

Chi scrive ha conosciuto Andrea Camilleri vent’anni fa, all’inizio della sua formidabile carriera letteraria. In questo lungo arco di amicizia e frequentazione ne ha potuto apprezzare il lato umano, profondo e affettuoso, generoso e vitale. Ha conosciuto ed è diventato amico di sua moglie, delle sue figlie Andreina, Betta e Mariolina, e della sua insostituibile complice, Valentina Alfery, la collaboratrice preziosa che ha prolungato la possibilità che scrivesse dopo la cecità. Essendo stato molto amico di Vincenzo Consolo, so quali tensioni siano passate tra questi due scrittori tanto diversi, per esempio sul senso della letteratura, sulla questione del linguaggio, sull’impegno politico. Consolo rimproverava a Camilleri di scrivere libri che non inquietano, che non fanno pensare.

La Sicilia è un pianeta letterario talmente ricco da consentire che due scrittori rappresentino due temperamenti inconciliabili. «La mia Sicilia non è terra rassegnata e sonnolenta… è costantemente in movimento, in rivolta contro qualcuno o qualcosa. Che poi io racconti questa vicende in modo ironico o che possa far scivolare il lettore in un’aperta risata, questo non significa né mancanza di passione e ancor meno assenza di passione civile: è un modo, appunto civile, di esporre temi molto seri…», dichiarerà Camilleri, non a torto. Ricordiamo che nel “Giorno della civetta” di Sciascia, l’eroe, il capitano Bellodi è uno straniero, uno che non è siciliano.

Camilleri con Montalbano rovescia l’assunto e fa di un commissario siciliano che vince l’eroe della sua epopea romanzesca. Nel frattempo la Sicilia è cambiata, ci sono stati Falcone e Borsellino, Boris Giuliano e Cassarà, e non invano. Sciascia e Gadda, come anche Dürrenmatt, hanno scritto romanzi polizieschi che non prevedevano soluzione. Romanzi che sono divenuti i paradigmi di una verità che la giustizia non è riuscita a raggiungere. Un giorno di alcuni anni fa, Andrea mi chiamò al telefono e mi disse che aveva saputo che volevo adattare per il cinema “Il cavaliere e la morte” di Sciascia. Dissi che era vero e lui si offrì di collaborare alla sceneggiatura, ne fui felice e cominciammo a vederci. Era attratto da quello che non gli assomigliava.

Lui che per motivi di serialità non avrebbe potuto far morire Montalbano, era attratto dal fatto che nel romanzo di Leonardo, alla fine, il Vice, il poliziotto protagonista, morisse. Il film per varie ragioni non si fece più ma le riunioni con Andrea e Gaetano Savatteri, l’altro scrittore che doveva affiancarmi nella sceneggiatura, rimangono incise per sempre nella memoria. Un paio di anni fa, Camilleri affidò a un amico editore di libri raffinatissimi, libri-anima come ama definirli, un romanzo segreto. Essendo stato tra i pochi ad averlo letto e avendogli detto che mi era piaciuto molto, in una conversazione in parte pubblicata sull’Espresso, mi rivelò che detestava Montalbano e che avrebbe voluto scrivere solo libri come quello, nel segno di Bernanos. Sono certo che nei prossimi anni i critici faranno i conti, come Gide con Simenon, con il Camilleri tragico e misconosciuto.

L’anno scorso ho avuto il privilegio di curare la regia di “Tiresia”, il monologo che Andrea ha recitato a Siracusa, davanti al pubblico straripante e commosso del Teatro Greco. Su mia richiesta aveva accettato di venire sin lì e per l’occasione aveva scelto l’indovino più longevo della letteratura mondiale, colui che aveva affascinato scrittori, poeti e cineasti come Sofocle, Dante, Eliot, Pound, Pasolini, Levi. Lo aveva scelto per parlare di sé, della sua cecità, e per salutare il suo grande pubblico, incontrandolo su pietre che portavano impresso il marchio dell’eterno. La letteratura è profezia, Andrea questo lo sapeva, e la storia di Tiresia ne è la parabola perfetta.

Era uno scrittore che amava raccontare ad alta voce, forse era questa la sua specialità. Fu una notte magica, quella di Siracusa, e per me l’esperienza professionale emotivamente più coinvolgente della mia carriera, Quest’anno aveva previsto un’altra sera come quella, a Caracalla, a luglio, e questa volta aveva scelto Caino.

Ora che non potrà più raccontarci il cattivo più celebre della storia umana, ripensando alla potenza del suo bellissimo volto, proviamo a chiudere i nostri occhi commossi e a pensarlo seduto al centro dell’arena, in silenzio, a guardarci.

Ciao Andrea.