È la porta d'Europa, il teatro degli scontri e dei naufragi, il simbolo di questi anni, dalle primavere arabe alla Capitana. Ma oggi nell'occhio del ciclone non succede niente. E i migranti fanno come gli sbarchi: ci sono, ma non si vedono (Foto di Matteo Bastianelli)

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Il ferro da stiro color grigio topo fa capolino sullo specchio del porto di Lampedusa dalla prima mattina. È lungo cinquantotto metri, pesa quattrocentosessanta tonnellate. Si chiama P01 Monte Sperone, è la più grande nave della flotta della Guardia di Finanza, recita il comunicato stilato per il varo nel 2013. Lo si intravede, con le sue proporzioni incongrue, già scendendo per via dello Sbarcatoio, nome antico e vocazione recente dell’isola. Naviga avanti e indietro, avanti e indietro.

Da Punta Sottile a Capo Ponente e ritorno. Silenzioso, squadrato, inquietante, per tutto il giorno. È l’unica cosa che non luccica, che non riflette il sole dorato e il mare turchese. Per la gente che si fa il bagno a Cala Guitgia, Cala Madonna, Cala Croce, per la gente disposta ad accorgersene il pattugliatore della Guardia di finanza che controlla le coste è la nota stonata, il segno che sta accadendo anche qualcosa d’altro, oltre alle vacanze. Il solo oggetto a segnalare - con la sua sola presenza - che questa non è soltanto un’isola come altre: ma un confine. Il confine dell’Italia. Il confine dell’Europa, per chi ci tiene. Il più conteso: Lampedusa. Giusto al trentacinquesimo parallelo, in mezzo al mare, a duecentoventi chilometri da Licata, a centotrenta dalla Tunisia, dieci ore di nave dalla Sicilia.
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Un puntino d’isola che non sta nelle mappe del meteo,  e che pure è diventato, di nuovo,  il centro del mondo: è accaduto già in passato, stavolta in un modo ancora diverso. I conti che non si fanno a Roma, la politica che non si fa più nella Capitale, nel Parlamento esangue, le battaglie sulla sicurezza tra sostenitori e oppositori della linea di Salvini finiscono per esplodere qua. I fronti si scontrano, davanti alle telecamere, come è accaduto al porto la notte in cui la capitana della Sea Watch3 Carola Rackete è sbarcata nonostante il volere del ministro dell’Interno. Quella notte di cui sono moltissimi a vergognarsi: non solo i civili, ma anche i militari, come raccontano in paese.

L’immigrazione resta l’argomento, sull’isola. Lo sarebbe anche senza il pattugliatore Monte Sperone all’orizzonte. I migranti, il ministro Salvini, gli sbarchi. Ne parlano i quindicenni mentre scendono alla spiaggia dell’Isola dei Conigli. Ne parla il tenente colonnello che in costume raggiunge Cala Maluk per qualche ora di sole appena dopo aver staccato. Ne parlano le signore stese a pancia in giù sulla battigia coi piedi a mollo. Ne parlano ovviamente in porto. I pescatori lungo il molo. I bar. Le bancarelle della sera lungo via Roma. 
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Ne parlano tutti, anche se per la verità non accade nulla. Sembra di abitare in quella poesia di Konstantinos Kavafis. «Che aspettiamo, qui riuniti nella piazza? Oggi devono arrivare i barbari» . Ma dei barbari di turno non v’è traccia («dopotutto, quella gente era la soluzione»: conclusione che vale anche in questo caso). Nemmeno dei migranti vi è segno: ce ne sta qualcuno (cinque, dieci, quindici) inchiodato accanto alla chiesa di San Gerlando, in piazza Garibaldi, ma per vederli bisogna proprio volerli andare a cercare, perché di lì non si muovono, sembrano vivere in una realtà parallela.

Anche gli sbarchi continuano, ma non fanno notizia. L’altra mattina in undici sono arrivati da soli  su una barchetta in vetroresina di sette metri: un uomo, due mogli, otto bambini, valigie, fotografie, persino un’anguria, fin sulla spiaggetta in fondo al porto vecchio, dove una volta sorgevano gli stabilimenti per la conservazione di alacce e sgombri. Tre notti dopo, altri quattordici sono stati recuperati dalla Guardia Costiera, scesi a terra dopo l’una di notte proprio sotto la colonna con la Madonnina al centro del porto,  ripresi solo dal telefonino di qualche turista. La mattina appresso, in nove entravano in porto sempre scortati dalla Guardia Costiera, stavolta una  barchetta bianca a traino, proprio mentre la gente in vacanza usciva in costume da bagno su gommoni e gozzi: ed era tutto un salutarsi reciproco, assurdamente, come tra gente che si trovi nella stessa condizione. Chi va a farsi un bagno e chi a lasciare le impronte all’hot spot. 
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«Ma quale emergenza? La situazione è la solita, la stessa di sempre». Annalisa ha 22 anni, la mascella squadrata,  stringe il volante della panda bianca con le unghie dipinte d’azzurro, metà coi brillantini,  metà senza. Affitta auto e motorini, come quasi tutti i seimila isolani, direttamente a casa sua, una tra le tante case quadrate, aspiranti dammusi affastellati però con tipico andamento tunisino, nel quasi caos di un piano regolatore che ancora, dalla notte dei tempi, non ha visto la luce.

«A Lampedusa non sta succedendo proprio niente. Certo non quello che fanno vedere alla televisione. C’è stato giusto un po’ di movimento al porto, per la Seà watch», aggiunge. «Seà» con l’accento sulla «a», come se fosse un verbo. Se ha watch. Se guardi bene, a Lampedusa non succede proprio niente. «Qualcuno sbarca, dice che non li vedono. Vanno dal molo al centro d’accoglienza, in pulmino, non li vede nessuno».

La domanda sull’emergenza riceve invariabilmente la stessa risposta: ma quale emergenza, qua sono trent’anni che sbarcano. E adesso non sbarcano più di prima, né di meno: sbarcano diverso. «Perché tutto cambia, e cambia anche questo: bisogna solo saperlo leggere», dice Piero Billeci, il capo degli armatori. «Stanno ricominciando a farlo come quando ancora non ci eravamo organizzati», racconta l’ex sindaca renziana Giusy Nicolini, che fino al 2017, anno della sua non rielezione, ha guidato l’amministrazione proprio negli anni in cui l’isola si è attrezzata per accogliere, per questo è diventata un simbolo, premiata dall’Unesco, a cena con il presidente Barack Obama, quindi amata e odiata, come praticamente tutto ciò che si muove sul suolo lampedusano. 
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Dopo i giorni furibondi della capitana Carola, dopo il sequestro della Alex di Mediterranea, dopo i controversi sbarchi delle Ong l’isola è ripiombata nel nulla cui è destinata e dal quale, per tradizione, proviene: e non lo si dice solo per l’abusata metafora da Peter Pan, non lo si dice soltanto perché ogni isola, soprattutto se piccola, si dia l’aria da isola che non c’è. Lo si dice perché tutti, dal ristoratore al sindaco, dal muratore alla barista, ricordano perfettamente di come fossero sconosciuti al mondo, prima che il colonnello Gheddafi facesse piovere sull’isola quel paio di missili, nel 1986. Fino ad allora, erano in pochissimi a frequentarla. Qualche centinaia di turisti, massimo duemila, ogni estate - oggi centottanta mila solo con per via aerea, anche sedici voli al giorno. Gente che restava tre mesi, vip come Walter Chiari o Domenico Modugno, con la sua villa all’isola dei Conigli, molto prima di Claudio Baglioni che qui ha il suo catamarano. Trent’anni prima che Silvio Berlusconi comprasse la villa a Cala Francese da un conte che amava giocare a poker (del promesso campo da golf non vi è tuttavia traccia), ci passava anche il segretario del Psi Bettino Craxi: mangiava riso patate e cozze da Angelo e Maria Cavaliere, poi scendeva al locale di sotto, quello che oggi è della leghista Angela Maraventano, a cantare con Augusto Martelli, suo amico, che l’accompagnava al piano.

«Lampedusa non è mai esistita», esagera l’attuale sindaco, Totò Martello (area Pd), che ricorda come «nell’86, Spadolini, un altro ministro dell’Interno, sosteneva che i missili di Gheddafi non potevano raggiungere l’Italia, quindi forse non ci considerava. E noi, siamo italiani o no?  Io non l’ho mai capito. In tv, qualche giorno fa, un conduttore nel tracciare il limite delle dodici miglia ha sbagliato isola: ha fatto la linea attorno a Pantelleria. Nelle cartine del meteo, Lampedusa spesso non è nemmeno tracciata». Così si vive al confine d’Europa. Fino agli anni Settanta, niente aeroporto. Fino agli Ottanta, niente istruzione oltre la scuola media: bisognava trasferirsi, in Sicilia o altrove. Fino adesso, niente acqua decente dai rubinetti. E per partorire si emigra.

Nella vita quotidiana dell’isola, più che aria d’eroismo c’è aria di turismo. A sud dell’aeroporto, accanto alla  Porta d’Europa, innalzata nel 2008 da Mimmo Paladino come un faro di speranza, per celebrare tutti i migranti, c’è un runner intento a fare gli addominali. Cento metri più in là, in strada, i motorini si assiepano sulla curva accanto alla pista, attaccata al paese, per fotografare l’aereo che decolla. Ma non tutto torna. Sul molo del porto, Francesco, nipote di pescatori, ma non pescatore, sta abbarbicato sul suo motorino in attesa di cominciare il turno al negozio. Tra un mese gli nasce un figlio, sua moglie sta già a Palermo, perché qui non c’è un ospedale (in pratica, negli ultimi anni sull’isola sono nati solo figli di migranti). «Ho la testa piena di domande, non capisco», dice: «L’accoglienza sembra una cosa straordinaria, ma è normale, l’abbiamo sempre fatta. E un pescatore, adesso, che dovrebbe fare se incontra gente in mare? E i migranti vengono trattati in due modi: se arrivano con le ong, non va bene, se arrivano da soli va bene. I lampedusani non capiscono. Ma poi, come fanno a non vederli i barchini?».
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«È uno dei  misteri di questa stagione: gli sbarchi fantasma», dice Totò Martello, seduto nel suo ufficio da sindaco, al secondo piano del municipio al centro del paese, mentre due grossi ventilatori, alla sua destra e alla sua sinistra, cercano di ovviare all’aria condizionata rotta, creando un effetto Messico. «Gli sbarchi normali li chiamano invisibili. Lo fanno perché non si vedono, o perché non vogliono vederli? Perché, in effetti, noi li vediamo: quindi non sono invisibili», aggiunge prendendo una bottiglia d’acqua dal frigorifero bianco da cucina che troneggia sulla destra della scrivania.

«Nei mesi scorsi, quando spiegavo che gli sbarchi continuavano, mi prendevano per pazzo. Solo perché Salvini diceva che non ce n’erano più. L’azienda sanitaria, per dargli retta, aveva pure tolto la guardia medica prevista per i migranti. E adesso l’ha rimessa, per fortuna: solo a giugno sono sbarcati in cinquecento». Altro che i quaranta della Sea Watch3 o i cinquanta della Alex. Si fa, dice il sindaco, un «racconto falso, nel quale si danno colpe e  meriti a persone che non c’entrano. Il comune, ad esempio, non c’entra nulla con la gestione dei migranti: è tutto in mano alla prefettura. Io non so nemmeno quanta gente c’è nell’hot spot. E non sono mai stato contrario agli sbarchi: ho solo detto che bisogna rispettare le regole, non stipare settecento persone in un posto fatto per trecento. E ho domandato: se l’hot spot è un luogo aperto, perché io non ci posso entrare e ci sono i militari a piantonarlo?». 

Ecco, un’altra domanda senza risposta. È tutto così, a Lampedusa. Evidente e oscuro. Ovvio e insolito. Bene e male che camminano a fianco. Uno e doppio, in perenne contraddizione fra loro. Nulla è da dare per scontato, nemmeno la fama delle persone. Pietro Bartolo, il medico protagonista di Fuocoammare, il responsabile del Poliambulatorio dell’isola fino all’elezione all’europarlamento con il Pd, è trattato come una specie di santo ovunque, tranne che qua, dove le voci di paese si sommano all’invidia, e l’invidia si somma alla situazione sanitaria che a Lampedusa idilliaca non è, né mai sarà. Certo si sa che nelle isole, come nei paesi piccoli, si tende all’odio. Ma qui siamo al  punto che, come raccontano , nella notte degli insulti alla capitana Carola, una quota di urla erano proprio contro di lui, Bartolo. Dice lui, al telefono da Bruxelles: «Mi manca tanto, l’isola: io sono un medico, mica un politico, ma credo nella politica e mi sono reso conto che per risolvere i problemi di Lampedusa bisogna stare qui, al Parlamento europeo. Tornerò, ma spero di non trovare più necessità di aiuto», dice l’europarlamentare da Bruxelles, da dove dà tutt’ora consigli e indicazioni a chi è rimasto. Noncurante del sottofondo che nell’isola si sottolinea: ha preso meno di trecento voti, su quasi seimila abitanti, nessuno si chiede perché?

A parte il panorama, che sembra quello di un deserto del centroamerica, nulla è piano, sull’isola. Tutto cambia, nulla cambia. I problemi irrisolti prima, lo sono anche adesso: ma in modo tutto diverso. Vale il discorso dell’autore del Gattopardo, che aveva l’isola nel titolo nobiliare, eppure mai sull’isola ha messo piede. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nonostante Lampedusa. Il principe troneggia in busto di bronzo dentro al Comune, come mai in vita fece. Lo racconta anche Manuela, che ha appena fatto la tesina di terza media proprio su Lampedusa come terra di confino,  Anche quella del principe di Salina, in fondo, è un’illusione mediatica, come le tante che si sono succedute in questo tempo, nell’isola che ha come patrona la Madonna di Porto Salvo, ma di questi tempi necessita che i suoi amministratori ribadiscano: «Lampedusa è un porto aperto e sicuro, non siamo in Libia, non siamo in guerra, non c’è nessuna emergenza».

L’emergenza in mare c’è stata con i naufragi e le centinaia di morti, come è accaduto il 3 ottobre 2013, una delle tragedie di cui anche l’isola porta ancora i segni, che si rinnovano ogni volta. L’emergenza a terra c’è stata nella primavera del 2011, con un altro leghista al ministero degli Interni, Roberto Maroni. «Con le primavere arabe, arrivarono a migliaia, il governo li lasciò per cinquanta giorni all’aperto. Allora sì che si era perso il controllo del territorio. Sul molo del traghetto c’era un tappeto di persone».

Gianni Luca, proprietario del ristorante Terranova, uno dei pochi che restano aperti anche fuori stagione turistica, se lo ricorda bene perché all’epoca faceva il volontario, con altri ragazzi, e aiutava il parrroco di allora, don Stefano. «C’erano tante polemiche sui numeri, ma nella panetteria di famiglia arrivavamo a fare 24 mila forme, due a migrante: significava che c’erano 10-12 mila persone, il doppio dei lampedusani. Aiutavo, ma tutta l’isola aiutò. Era spontaneo, non c’era nulla di eroico: noi, semplicemente, ci siamo trovati», dice Gianni. Poi fa una pausa, racconta che abitando sull’isola si vive al ritmo delle navi. Dopo due giorni, se la nave non arriva, finiscono frutta e verdura. Dopo cinque scarseggiano le cose in farmacia. E a quel punto, se serve qualcosa bisogna andare in aeroporto, scoprire se qualche conoscente sta per tornare, telefonargli, e chiedergli la cortesia di comprarla prima di partire. È un mondo nel quale non aiutare chi ha urgenza, o si trova in pericolo,  è impensabile. «Di quei giorni del 2011 mi ricordo il silenzio, irreale. Sembrava sempre giorno, c’era sempre qualche fila da organizzare, cibo e vestiti da distribuire, gente che ne portava. Casse di pesce, buste della spesa, acqua». Migranti ce n’erano ovunque, Costantino e Maria, che abitano in campagna, vicino al centro d’accoglienza, li vedevano passare e se li prendevano a casa: hanno finito per regalare l’intero guardaroba del figlio, e ormai hanno pseudo figli adottivi sparsi per il mondo. Era pieno di gente che andava in giro con la roba regalata dai lampedusani:  «Li accusavano di girare con roba firmata. E ti credo che era firmata: era la nostra». 

Adesso, di migranti, è difficile incontrarne. Chiuse nell’hot spot di contrada Imbriacola sono un centinaio di persone: qualche giorno un po’ di più, qualche giorno di meno. Solo qualcuno si può trovare, in permesso, sotto la chiesa di San Geronimo, guidata da don Carmelo La Magra. Usufruiscono del wi-fi che lui mette a disposizione, e così restano fino a tarda sera, sulle scale della chiesa, là dove a fine giugno, con gli attivisti di Lampedusa Solidale, s’era fatta la protesta di dormire all’aperto all’aperto per protestare contro il no all’attracco della Sea Watch3. «‘U parrinu», il prete,  fa politica - è la critica che serpeggia qua e là. 
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L’ondata leghista, come in ogni angolo d’Italia, è del resto è arrivata fin qui. Un tripudio alle elezioni europee: il 45 per cento  al partito di Salvini, complice un astensionismo da oltre il 70 per cento, mentre il Pd ha di poco superato il 20. Quel gruppo salviniano è però difficile da tastare con mano: seicento voti, a fronte di sette iscritti al Carrroccio. Pure Angela Maraventano, una vita da militante leghista, orgogliosa sin dai tempi di Bossi, sale sul carro con prudenza. «È soprattutto l’onda salviniana ad aver prodotto questo successo, un cambiamento concreto devo ancora vederlo: non è perché il ministro dell’Interno è del mio partito che divento meno esigente», ribadisce a tarda sera, seduta a un tavolino del suo ristorante, dopo la chiusura. Anche Giusy Nicolini, ex sindaca renziana, fatica a dare una lettura compiuta del fenomeno: c’è l’insofferenza, c’è la fascinazione per l’uomo forte, ma poi? Sembra, l’ondata leghista, un vento che ancora non si è consolidato, che potrebbe finire da un momento all’altro: oppure, al contrario, diventare di marmo.

«Io, intanto, sono rimasto uno dei pochi, forse l’ultimo pescatore pro-migranti», dice però Enzo Billeci, appena sceso dopo tre giorni di mare da Palermo Nostra, il peschereccio ereditato dal padre che gestisce coi suoi fratelli. La pesca è da sempre l’attività principale dell’isola, adesso in declino: ci sono un centinaio di barche, circa 230 pescatori, per il pesce azzurro sono rimaste un paio di barche («i banchi dello sgombro li hanno occupati i tunisini, i pescatori però non i migranti»). Enzo ha cominciato a lavorare a 8 anni, puliva il pesce sotto sale per ottanta lire l’ora, da quando ne aveva 11 esce a pesca, ha avuto la televisione in casa alla fine degli anni sessanta ( «Papà ne era orgogliosissimo, dice che era l’undicesima in tutta l’isola»), nel 1978 si è trasferito a Fiumicino dai parenti per fare l’istituto nautico, ma ha resistito solo pochi mesi. Adesso è comandante, è quasi certo che nessuno dei suoi figli farà il pescatore, e giura che non lascerà mai qualcuno in mare: «Io i migranti li salvo. Il soccorso lo chiamo. Non credo che qualcun altro lampedusano si girerà mai dall’altra parte, però devo dire che qualcosa è cambiato», ammette.

In mare migranti non ne ha incontrati. Piuttosto, i resti di barche e barchini, lasciati affondare negli anni, che si decompongono sui fondali sono l’ennesima eredità lasciata all’isola».Dice Gianni, seduto nel suo ristorante nell’afa pomeridiana: «Oggi noi di immigrazione non possiamo parlare più. Siamo un puntino, rispetto a ciò che avviene. Ma quando è che affrontano questo problema seriemente? Quando è che potremo parlare di altro?».

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