In questa, come in altre stagioni, tocca alla società civile assumersi i pesi della politica, anche se è rischioso. Ma Carola Rackete salva vite umane, non l’opposizione
Due donne alla guida dell’Europa, l’aristocratica tedesca Ursula von der Leyen alla Commissione e la francese Christine Lagarde alla Banca centrale, i sovranisti esultano perché hanno portato ai vertici delle istituzioni due esponenti di rilievo dei due paesi più forti, due espressioni dell’establishment più arcigno e chiuso, se era questa la loro rivoluzione potevano dircelo prima: come scrisse Giorgio Bocca, se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste.
Ma l’Europa, in questi giorni, è rappresentata degnamente da un’altra donna, una giovane arrestata, trascinata per un polso sotto le telecamere come una preda, offesa, insultata, braccata e poi liberata da un’altra donna, la magistrata di Agrigento Alessandra Vella.
È stata lei, nella sera di martedì 2 luglio, a smontare i capi di imputazione per Carola Rackete, la capitana della nave Sea Watch 3 che la sera del 29 giugno aveva attraccato al porto di Lampedusa con 42 persone a bordo, forzando il divieto del governo italiano e rischiando la collisione con una vedetta della Guardia di Finanza. Ha agito per «l’adempimento di un dovere», che è la formula che si usa per gli uomini in divisa, i caduti, gli eroi. [[ge:rep-locali:espresso:285334240]] «Mentre adempivano al loro dovere», si leggeva ad esempio sulla piccola lapide che in via Mario Fani ricordava i cinque agenti della scorta di Aldo Moro trucidati il 16 marzo 1978. Adempiva al suo dovere anche l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della banca di Michele Sindona, assassinato da un sicario a Milano l’11 luglio 1979, quarant’anni fa. L’eroe borghese raccontato da Corrado Stajano, iscritto da giovane all’Unione monarchica, incaricato dalla Banca d’Italia di fare luce sugli affari di quella banca infestata dalla mafia siciliana e dalla loggia P2 e collusa con il palazzo della politica romana. L’uomo delle passioni grigie, come le ha descritte Remo Bodei in “Il Noi diviso” (Einaudi), considerate incolori e impiegatizie solo da chi non ha il senso di rispetto per lo Stato, per quello che è di tutti. «Ho avuto un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa», scrisse alla moglie Anna Lori.
Nulla di più lontano dal moderato e conservatore avvocato Ambrosoli della capitana Carola Rackete, una ragazza trentenne del nuovo secolo immersa nella tragedia del nostro tempo: la vita e la morte, i migranti e i muri, le fortezze e la spinta a migliorare anche di pochissimo la propria esistenza che spinge a spostarsi ogni anno sessanta milioni di donne e uomini in tutte le regioni del mondo. E Carola Rackete non è un’eroina. Ma in quella parola antica, il dovere, c’è qualcosa di trascendente che supera anche le leggi dell’uomo, imparziali o addirittura ingiuste.
Il dovere, ieri, di illuminare i poteri occulti che occupano e depredano lo Stato, anche a costo di rischiare la vita. Il dovere, oggi, di salvare vite umane, anche a costo dell’impopolarità. Dovere è parola che i populismi scansano come una brutta malattia. Conoscono solo i diritti, purché, sia chiaro, non comportino nessuna responsabilità verso il resto della comunità, verso gli altri. Il diritto di essere sicuri a casa propria, il diritto di andare in pensione in modo anticipato, il diritto a pagare meno tasse. Rischia di fare lo stesso errore una parte di sinistra che da anni si batte in modo sacrosanto per i diritti civili, ma ha dimenticato di sottolineare con altrettanta forza e determinazione la bellezza della parola dovere.
Dovere significa rinunciare a qualcosa di mio per stare bene tutti. Dovere è la risposta a una domanda della coscienza, prima che a una esigenza della politica. Dovere è, anche, la premessa del vivere insieme, rispettando le regole. La comandante Rackete ha trasgredito a una regola del decreto sicurezza, ma ha fatto il suo dovere perché ha ubbidito al diritto marittimo internazionale che impone il salvataggio dei naufraghi e il loro attracco in un porto sicuro. Anche i militari italiani, la Guardia di Finanza, hanno fatto il loro dovere eseguendo gli ordini assegnati. E il gip di Agrigento Alessandra Vella ha fatto il suo dovere applicando la legge che, come ha detto il procuratore Luigi Patronaggio, «non può prescindere da trattati internazionali e da quanto stabilito dalla Costituzione».
Tutti hanno cercato di fare il loro dovere, tranne il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Che ha strumentalizzato, ancora una volta, la vita di quaranta persone per coprire mediaticamente l’impasse politica in cui si trova da un mese e mezzo: ha vinto le elezioni europee, ha il consenso crescente degli italiani e non sa che farsene.
Dopo la decisione del gip di Agrigento ha tuonato contro la magistratura e ha invocato la riforma della giustizia, come faceva ai suoi tempi Silvio Berlusconi, affidandone la realizzazione ora a Niccolò Ghedini ora a Angelino Alfano. Ha minacciato pene durissime e l’espulsione contro la «ricca fuorilegge», la «criminale» Carola Rackete, ma quando è toccato a lui essere giudicato (sul blocco della nave della marina italiana Diciotti un’estate fa) si è ingloriosamente rifugiato nell’aula del Senato e ha chiesto alla sua maggioranza di votare contro l’autorizzazione, con il benestare del suo reale numero due, Luigi Di Maio. Un vero uomo, non c’è che dire. [[ge:rep-locali:espresso:285317807]] Non c’è dubbio, dunque, tra chi sia il capitano tra Carola e Matteo, sulla nostra copertina che cita in modo esplicito quella di un anno fa che vide contrapposto Salvini al sindacalista e nostro collaboratore Aboubakar Soumahoro.
Carola Rackete, «la bestia nera di Salvini» per Le Monde (2 luglio), ha sempre tenuto la rotta, «effettiva e simbolica», come scrive Michela Murgia, «ha tenuto sempre presente che avere ragione di Salvini non è la sua missione. Per lei era ed è sempre rimasta la priorità: portare le persone in salvo».
Una donna che tiene la rotta, laddove molti l’hanno persa. Più di tutti, quelli che hanno definito la Libia un porto sicuro. La strage della notte tra il 2 e il 3 luglio, con il bombardamento di Tajoura, a ovest di Tripoli, per opera delle truppe del generale Khalifa Haftar, ha chiarito in modo definitivo di cosa stiamo parlando.
L’Espresso lo ripete e lo denuncia da tempo, grazie ai reportage e alle testimonianze raccolte da Francesca Mannocchi. A chi dice che il giornalismo è finito si deve ricordare che senza pochissimi reporter coraggiosi come lei non sapremmo cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo, nei centri di detenzione libica dove si consumano violenze, stupri, torture.
Nel campo di Zintan, ha denunciato Medici senza frontiere, sono morti in ventidue per malnutrizione e tubercolosi, in seimila sono reclusi in undici centri libici. Sono i volti e le storie di cui i numeri del Viminale non parlano.
Nei primi sei mesi del 2019 sono sbarcati in Italia 2874 migranti, contro gli oltre 85mila del 2017, quando l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti cambiò rotta e fece tornare indietro verso l’Italia l’aereo che lo stava portando negli Stati Uniti. Da allora in poi la guerra del Mediterraneo si combatte, prima di tutto, sul fronte della visibilità.
Per questo le Ong e le organizzazioni umanitarie e i giornalisti preparati e liberi danno fastidio. Fanno vedere quello che deve restare nascosto. Mentre il ministro dell’Interno più mediatico della storia, il Salvini impegnato giorno e notte in selfie e dirette social, solerte a condividere pranzi, cene, colazioni, passeggiate, effusioni, diventa oscuro, opaco, quando si tratta di chiarire i punti più sensibili della sua azione. Che fine hanno fatto i 49 milioni della Lega oggetto di una truffa ai danni dello Stato. Quali sono i rapporti del partito di Salvini con la Russia di Vladimir Putin, il capo dell’Internazionale sovranista mondiale in visita a Roma dopo aver dichiarato obsoleto il liberalismo e forse anche la democrazia. E cosa si è detto a Milano Salvini con Fayez al Sarraj, il presidente del governo di Accordo Nazionale libico, due giorni prima del bombardamento del centro di detenzione di Tajoura.
Le domande al Capitano di latta potrebbero proseguire. Che farà la Lega in Europa? Proseguirà con una linea di rottura o con la trattativa per portare a casa una poltrona? E le elezioni anticipate ci saranno, e per quale motivo? Per soddisfare l’opportunità di un capo in crescita nei sondaggi oppure no, la convenienza consiglia di prolungare una legislatura politicamente già agonizzante?
Bisogna dirlo con chiarezza per non alimentare equivoci e speranze. Carola non è l’alternativa politica a Salvini. È una rappresentante della società civile chiamata a coprire la rotta lasciata vuota dai governanti. Sulle sue spalle si è addossato un peso enorme, prima quello di portare in salvo le persone che le erano state affidate, poi quello di ricostruire una opposizione al salvinismo e magari, chissà, riportare la sinistra a vincere. Salvo poi accusarla dell’opposto, di far perdere la sinistra perché la figura di una giovane ragazza tedesca sarebbe la perfetta nemesi di un certo elettorato italiano (ne scrive sull'Espresso Alessandro Gilioli).
Lo hanno ripetuto sondaggisti e osservatori, con buone ragioni, ma con un errore di prospettiva. Non tocca a Carola condurre un partito, non è lei la leader carismatica che fa vincere, secondo gli estimatori, o perdere, secondo i detrattori. Ogni simbolo smaschera una debolezza, una fragilità.
I deputati del Pd a bordo della Sea-Watch, guidati dal capogruppo Graziano Delrio e Matteo Orfini insieme a Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, stanno lì a ricordare che il loro gesto è nobile e sarà ricordato come una pagina positiva in mezzo a tanta ignavia ma anche che ai politici non è richiesta la testimonianza (non soltanto, almeno), ma una strategia per trasformare un sentimento istintivo quanto la paura, il soccorso verso l’altro, l’empatia, la pietà, la compassione, l’aiuto, la solidarietà, nella base di un progetto politico.
Un progetto radicalmente alternativo che oggi non c’è ancora, come ammette Nicola Zingaretti nel suo dialogo a distanza con Massimo Cacciari e che va costruito, in tempi rapidi. Altrimenti, il confronto continuerà a essere tra un ministro pasticcione, parolaio, che proclama risultati mai ottenuti e che tuttavia lacera con il suo comportamento e con le sue parole quel poco di tessuto civile che resta nelle zone più disagiate e disperate del Paese e una giovane donna che non vuole candidarsi alle elezioni ma intende soccorrere vite umane.
E la strumentalizzazione di quei corpi, povere vite alla deriva nel mare, torturate e bombardate in Libia, merce di traffico umano e di consenso elettorale. Non abbiamo dubbi tra chi calpesta i diritti dell’uomo in nome di un indifendibile primato nazionale e chi si muove per salvare dal naufragio. L’adempimento del dovere che in tempi normali dovrebbe essere il presupposto di ogni politica e che in questa stagione diventa una rivoluzione.