
Con quell’aggeggio Manuel parla, scrive, racconta. Con quell’aggeggio è aggrappato alla vita e al mondo fuori. Dal letto della sua stanza, lui che fin da bambino non ha mai avuto una famiglia, è riuscito a vincere una battaglia: il diritto ad abitare e a essere assistito in una casa. Sua, finalmente sua. Con le foto appese e i libri attorno, anche se non può più sfogliarli. È un appartamento dell’edilizia pubblica, l’Ater, conquistato con un’incredibile lotta contro le istituzioni. Contro chi, in Comune e in Azienda sanitaria, voleva Manuel in una struttura protetta. Una clinica. «Pensavano di fare il mio bene, per tutelarmi ma il mio bene lo conosco io», spiega, fissando lo schermo di fronte. «È la mia vita».
Le pupille si posano su ogni lettera, a comporre una parola, una frase intera. «Io voglio vivere, non sopravvivere», riprende, come in un discorso di quelli seri che si fanno tra amici davanti a un bicchiere al bar. Mentre in realtà lui è disteso sul letto con i tubi in gola e con il macchinario che gli pompa aria nei polmoni. Non muove le mani, né braccia, né gambe. Nessun muscolo è più con lui. Solo le labbra riescono a dischiudersi in un sorriso, appena accennato.

Chiedetegli se è felice e lui vi risponderà con un «sì» che spiazza. Un “sì” non istintivo, ma meditato. Il discorso, come al bar tra vecchi amici, si fa a un certo punto complesso e astratto. Perché complessa è - ed è stata - la sua vita. E astratto è il suo pensiero, lui che ama la storia e la filosofia. «La felicità è dentro», continua scandendo le lettere sul monitor, prima che uno degli operatori che lo assiste interrompa la conversazione per aspirargli con una siringa la saliva che si accumula nei tubicini. È necessario farlo ogni dieci minuti, per non correre il rischio di incappare nelle infezioni.
Ha forza da vendere, Manuel. La forza della determinazione. Dell’autodeterminazione. Una forza che l’ha portato a riprendere gli studi universitari in Storia e Filosofia, con i professori che vengono a fargli gli esami a casa. Da un po’ si è fidanzato con una ragazza conosciuta in una delle strutture in cui è stato accolto prima di ottenere l’alloggio.
Le ore della giornata sono scandite da poche e semplici cose: la doccia della mattina, che richiede tempo, la macchina “della tosse” per espellere le secrezioni. Talvolta Manuel viene accompagnato fuori, a prendere sole e aria, senza il bisogno di tutte quelle autorizzazioni che invece servirebbero in una struttura protetta.
Verso sera c’è lo spazio suo, tutto suo: gli incontri con gli amici che vengono a fargli visita, i momenti da trascorrere con la compagna. E il tempo per studiare sui pdf dei libri di testo. All’ultimo esame di Antropologia culturale ha preso 30 e lode. «Ci ho messo quattro mesi a prepararlo».
Raccontare di sé per Manuel non è semplice. Si esprime lo stretto necessario: «garza», per chiedere all’infermiere di spostare una garza che gli tira troppo la pelle. «Tosse», per far ripartire il macchinario. «Occhi», per il collirio quando si sente affaticato. Il puntatore ottico del computerino traduce in vocale ciò che lui scrive sulla lavagna digitale. È così che avvisa gli assistenti.
Il problema è formulare discorsi articolati. D’altronde il pensiero, per tutti, è più veloce della scrittura. E il puntatore ottico non è immediato: per formulare una parola, l’occhio deve soffermarsi qualche secondo su ogni singola lettera.
Ma tra quel letto e quel monitor c’è un mondo interiore da scoprire, ben oltre la malattia. A cominciare dal passato. Il padre muore di tumore quando Manuel ha dieci anni. La mamma non è capace di badargli. Lui cresce così, da solo, un po’ con la nonna e un po’ con gli amici in piazza, tra sigarette e motorini. Va poco a scuola e in terza media viene bocciato. Passa mesi a non fare nulla. È uno di quegli adolescenti che la parrocchia di San Giovanni, a Trieste, tiene bonariamente d’occhio.
Un giovane prete, don Valerio Muschi, lo prende sotto la sua ala protettiva. Anche se a quel ragazzotto, biondo e dagli occhi limpidi, della chiesa è sempre importato poco o nulla. Ma l’amico prete lo spinge a ritrovare fiducia e a iscriversi alle serali per prendere la licenza media. Manuel raggiunge la promozione e trova anche un piccolo impiego come apprendista meccanico in un’officina. Alterna scuola e lavoro. «Così ho preso coscienza delle mie potenzialità», ricorda lui. Ormai ha abbastanza coraggio per iscriversi alle superiori, sempre alle serali, continuando a fare il meccanico. È obbligato a farlo perché la mamma non gli dà soldi.

Ma Manuel a scuola si scopre un talento. Vince ogni anno la borsa di studio e, quando è maggiorenne, viene selezionato dal Servizio civile nazionale per un anno di volontariato in una comunità che ospita persone con disagio psichico. Dopo quell’esperienza ritorna a frequentare le serali.
Ha 21 anni quando la malattia comincia a dare i primi segnali. «Sentivo un tremolio al mignolo della mano sinistra», spiega. Inizialmente non ci fa caso. Ma poi il tremolio si estende sull’intera mano. Braccia e gambe sembrano fiacchi. Manuel va in ospedale per capire. La diagnosi non lascia spazio a dubbi: Sla. Sclerosi laterale amiotrofica. «In media sono tre anni di vita. Io ho deciso, a 21 anni, di continuare tutto. Ho frequentato l’ultimo anno delle superiori malgrado le mani non scrivessero già più».
Supera l’esame di maturità a pieni voti, 100 su 100, usando la tastiera di un pc. Ma non ha una casa e non può più lavorare. Ed è proprio la parrocchia di San Giovanni a ospitarlo dandogli una stanza. Lui si iscrive a Ingegneria, che deve presto abbandonare perché non ce la fa a seguire le lezioni e prendere appunti. Ripiega su Storia e Filosofia. La parola, ormai, è rallentata. Ma Manuel non si ferma. Prende lo zaino e gira il mondo, come può, anche in autostop.
«Viaggiare è stata ed è la mia passione», dice. È in sedia a rotelle quando vola in Argentina, Brasile, Marocco, Turchia, Polonia, Olanda, Francia, Spagna, Colombia. «Ho voluto conoscere, capire la gente». È come un ultimo disperato tentativo di sfidare la vita. Fintanto che, con le forze che gli restano, riesce ancora a tenersi lontano da tubi e macchinari. Ma ormai mangia, beve e respira con difficoltà. La malattia continua il suo corso. Nel giro di qualche anno Manuel non ha più il controllo del corpo. E nemmeno la sedia a rotelle è sufficiente. Serve un letto, serve l’alimentazione con il sondino. «Sono sempre stato consapevole di cosa mi stava succedendo».
La tracheotomia diventa inevitabile, così come il respiratore artificiale. Di notte deve essere girato e voltato, perché lui da solo non può muoversi. Pensa spesso a sé stesso. A dove sta il senso di tutto ciò. E se c’è un senso. «Sto vivendo qualcosa di forte, qualcosa che ti obbliga a giocare tutto, pena la disfatta totale, il tracollo. La trasformazione fisica coinvolge ogni mia sfera mentale. Il mio Io è combattuto», scrive puntando le pupille, con pazienza, sulle lettere dello schermo.
E continua: «Da un lato il mio Io sente che sta affrontando un percorso che lo farà, nel bene e nel male, vivere qualcosa di grande. Dall’altro si rende conto che, molto prima delle previsioni, ha imboccato una strada ben definita, la quale ha come capolinea, a meno che non si trovi una cura, la morte. Ora, non che la bellezza della vita si misuri con l’unico sterile parametro della sua lunghezza o, ancor peggio, che io sia l’unico uomo sfortunato su questa terra (basti pensare a chi, solo in quanto nato nell’emisfero sbagliato del pianeta, è condannato a non avere prospettiva alcuna, cosa che tutti - con un po’ di sforzo - potremmo facilmente evitare); è solo che l’Io, preso in contropiede, inizia a vivere in modo diverso la quotidianità», scrive.
«Quotidianità che è, senza entrare nei dettagli, a volte più felice, a volte più abbacchiata, ma certamente più consapevole, più cosciente, più riflessiva. Valori che spesso tendiamo a mettere in secondo piano ma che, per così dire, “allungano” la vita nell’istante in cui la vivi, ne aumentano il valore. La durata della prospettiva di vita si accorcia notevolmente: cosa che, sia chiaro, mi provoca non poche sofferenze e mi impedisce di far tante cose. Però in compenso ne guadagna l’intensità: la bellezza di esistere e di fare esperienza. Prima di ammalarmi mi è capitato di frequente che mi facessi vivere passivamente dalla vita, non dando valore e significato ai momenti, lasciando le decisioni agli eventi; questa, a mio avviso, non è vita. Possibile che bisogna sempre star male per accorgerci delle cose?».
In questi anni di malattia Manuel ha scoperto la bellezza delle relazioni. Vere. Autentiche. Amici, volontari, infermieri. E il fratello Alberto, l’unico della famiglia in grado di esserci davvero. C’è soprattutto la ragazza di cui si è innamorato nel periodo passato in una struttura. Lui, Manuel, che con la Sla si è sempre chiesto cosa poteva offrire a una donna.
«Nella mia condizione vedi in un modo più vero, più profondo, le persone», aggiunge con quel febbrile movimento delle pupille sul computerino. «In passato ho sentito di gente che, o perché la loro vita stava attraversando un momento di difficoltà o, ancor peggio, perché colpiti da una malattia, venivano abbandonati dai loro amici i quali, evidentemente, non avevano altri interessi in quelle persone che qualcosa di superficiale, magari materiale. Niente di troppo strano, oggi. Il mondo in cui viviamo tende a consumare gli esseri umani. Per fortuna non mi è capitato. Senza alcun dubbio posso dire che questo è il lato bello di una situazione difficile. Vedere infatti le persone, anche quelle che magari erano un po’ più lontane, stringersi attorno a te, davvero ti riempie di gioia. Ecco, quel che volevo dire è che un lato bello di una malattia c’è: vedere l’amore degli altri. Certo, non tutto è bello, anzi. Dopo un po’ iniziano a mancarti tutte le cose normali: andare al cinema, a teatro, guidare una macchina. Insomma, quelle cose normali che però, fino a quando ci sono e sono routine, non ti accorgi di quanto siano preziose».
In questi anni a Trieste sono stati organizzati eventi benefici per la raccolta fondi a favore di Manuel, in modo da coprire le spese dell’assistenza domiciliare: cinque operatori e una decina di infermieri, organizzati a turno, giorno e notte, costano 12.500 euro al mese. Comunque meno di una struttura. Non sempre però i contributi pubblici, la pensione di invalidità e le donazioni sono sufficienti. La casa Ater, ottenuta da poco, è una conquista. «È il mio spazio, la mia libertà».
È tarda sera ormai. Manuel ha gli occhi arrossati, stanchi. Ma non li chiude. No, non li chiude.