La corrida cieca della crisi macha. Due nomi per Palazzo Chigi: Fico o Zingaretti
La corrida cieca della crisi macha. Due nomi per Palazzo Chigi: Fico o Zingaretti
La crisi di una politica in cui non ci sono più pensieri e neppure convenienze, ma solo azioni muscolari che vogliono distruggere il contendente, o almeno fargli lo sgambetto. Un wrestling dove ci si affronta per finta e si evita quel che servirebbe davvero: un corpo a corpo serrato con la società e le sue domande, le sue rabbie
L'hanno chiamato coraggio, e ci voleva un bel coraggio, in effetti, a fare una crisi così. Si sono scaraventati addosso questa parola per tutta la giornata di ieri nell'aula della Camera alta. «Il coraggio non te lo puoi dare, all'Italia reale interessa chi lavora con coraggio», ha ringhiato Matteo Salvini in stato confusionale. «Se c'è mancanza di coraggio, mi assumo io la responsabilità della crisi. E prendo atto che al leader della Lega manca questo coraggio», gli ha replicato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l'ultimo ceffone al capo leghista alle otto e venti di sera, dopo tre ore e mezzo di seduta, prima di andarsi a dimettere al Quirinale, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Sono andati avanti così nella ex maggioranza gialloverde, tra bacetti al rosario, pacchette sulle spalle e stilettate gelide, con un teatrino surreale e irrispettoso di regole e istituzioni. La mozione parlamentare della Lega presentata e ritirata, un avanti e indietro procedurale anticipato dal balletto di Salvini attorno alla sua sedia da ministro ai banchi del governo, all'inizio della seduta: entra, fa per sedersi, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si sconcerta e si alza, arriva Conte che lo circumnaviga con le spalle salutando tutti i ministri, e poi i sottosegretari, i senatori, i funzionari, i commessi finché, esauriti i presenti da salutare, stringe anche la mano allo studente che sta per essere espulso con vergogna dal governo.
Errore fatale per Salvini, sedersi accanto a Conte e prendersi la ramanzina in posizione di inferiorità, ingabbiato tra il ministro Bonafede e Conte in piede che lo sferzava, con i suoi dietro appollaiati, in piedi, un coro greco, una compagnia scompagnata. E più la seduta proseguiva con questo andazzo confuso e appiccicoso, più mi veniva in mente il monologo scritto da Mattia Torre per “In mezzo al mare”. Quello che comincia con: «È un'espressione sui cui si fonda il mondo: “Tirare fuori le palle”». «Addirittura le persone si riconoscono per chi le palle e chi non ha le palle, signor giudice, lei lo sa. La prego, pensiamoci insieme a questa orrenda espressione. Quello ha le palle. Quello ha veramente le palle. Che è una cosa terribile, a pensarci. Per forza ha le palle. No, lui, attenzione, non ha le palle: lui ha due palle così. Hai bisogno di un consulente finanziario? Bè, io conosco uno che ha due palle così...». ESPRESSOMUNAFO-20190821092544763-jpg Hanno parlato di coraggio, volendo alludere: è una questione di palle. La storia comincia da lontano, da quando all'inizio degli anni Ottanta Bettino Craxi fu definito il primo politico con gli attributi. Ma questa è la crisi più macha della storia repubblicana, e forse per questo anche la più inconcludente. Non solo perché i suoi protagonisti sono tutti uomini, come sempre, e tutti si percepiscono come maschi alfa. Ma è macha nelle movenze e nelle motivazioni. Lo scontro di ieri nell'aula di Palazzo Madama, più che di strategie politiche, parlava di corpi spostati, lo spingersi delle natiche ministeriali per occupare - non metaforicamente - le poltrone, le mossette, le faccine, i banchi della claque senatoriale tutta al maschile, le bande dei brocchi attorno al Capo, il Capo che a sua volta usava le mani per tacitare o scatenare la reazione, come si fa allo stadio. Le sfide incrociate, Matteo Renzi che gridava a Salvini: «Ti sfido in qualsiasi collegio e ti batto ovunque» e l'altro Matteo che gli rispondeva: «Dove vuoi!». Si faceva coinvolgere nel clima virile anche il presidente Conte, si metteva a schiena dritta, ne approfittava per riversare addosso a Salvini una quantità di aggettivi perfidamente congeniata: incosciente, irresponsabile, inaffidabile, uno che lavora contro gli interessi nazionali, uno che sul Russiagate «ha evitato di condividere le informazioni in suo possesso». Quando gli ha appoggiato una mano sulla spalla, sembrava un guanto artigliato più che una carezza. Il ruggito della pochette.
Macho il nervosismo tra i gerarchi di governo della Lega e del Movimento 5 Stelle, ossessionati da perdita praecox di potere. All'ora di pranzo, un esercito di uomini con spilla leghista nel romanissimo ristorante Maccheroni, guidati dal ministro dell'Agricoltura Gian Marco Centinaio, espressione sconsolata, uno che si sente mandato allo sbaraglio da un generale incapace, a chiudere la fila c'era il senatore Armando Siri, sospettoso e circospetto, come se entrasse in una banca, diciamo, ma senza garanzia di mutuo, però. Nel locale accanto, consumava l'ultimo pasto il sottosegretario 5 Stelle Stefano Buffagni, dalla barbetta ben sfoltita, uno che ha assaporato e consumato il gusto delle nomine fin dal primo momento. E poi i cartelloni pro Conte fuori dal Senato, agitati da un signore di Ostia: «sono stato andreottiano e poi berlusconiano». E il già dipietrista e poi berlusconiano Domenico Scilipoti redivivo alla buvette di Palazzo Madama, a testimoniare l'ora dei saltafossi.
Macho il sudore di Giancarlo Giorgetti a fine giornata. Macha l'immagine sanguinolenta del toro e del torero, di Salvini che carica per incornare e si stende incornato da Conte, come i pifferi di montagna di cui parlava Bettino Craxi tanti anni fa, che partirono per suonare e finirono suonati. Macha perfino la continua invocazione della Madonna, gli scambi di insulti a colpi di rosari della Madonna di Medjugorje e di medagliette di padre Pio, il cattolicesimo mondano del maschio della commedia all'italiana, che è insieme fedele e traditore, devoto e irreligioso.
Macho il polverone alzato maldestramente da Salvini per coprire la ritirata ingloriosa: «Da un anno M5S e Pd volevano fare l'inciucio, io l'ho scoperto», si è prodigato a dire l'ex ministro. Ma se così fosse, come mai se n'è accorto solo ora? Accanto a lui Luca Morisi, l'uomo della Bestia social del ministro, pallido e glabro, intuiva che presentarsi come uno che è stato fatto fesso da Pd e M5S non è l'argomento migliore dei prossimi mesi per il Capitano scornato. Questo governo, ha giurato Conte, «era nato per intercettare la richiesta di cambiamento dei cittadini», ed è finito con il massimo dell'opacità. È la crisi più misteriosa, aperta in agosto da Salvini e poi ritirata.
La crisi è macha perché in una politica così non ci sono più pensieri e neppure convenienze, ma azioni muscolari che vogliono distruggere il contendente, o almeno fargli lo sgambetto. Un wrestling dove ci si affronta per finta, spesso è stato Renzi a definire la politica italiana così, ma da tempo sulla pedana c'è anche lui. Mentre si evita quel che servirebbe davvero: un corpo a corpo serrato con la società, le sue esigenze, le sue domande, le sue rabbie.
Per uscirne servirà, nelle prossime ore, quel che non si è visto finora. Capacità di ascolto, tessitura di relazioni, attenzione per la posta in gioco, cura delle fragilità. Virtù femminili. Alle 11 si riunisce il Partito democratico e parla uno che finora ha disertato gli urti di spalla tra capetti, il segretario Nicola Zingaretti. Nella notte, sembra, ci sia stato uno smottamento in direzione del voto anticipato. Ma cresce anche la tentazione della mossa opposta: provare a mettere su un governo Pd-M5S. Con due schemi possibili. Nel caso di un premier M5S, il candidato unico è il presidente della Camera Roberto Fico, che non ha mai smesso di intrattenere buoni rapporti con il Pd e con un mondo associativo e sindacale più ampio, ad esempio la Cisl cattolica di Annamaria Furlan. Nel caso di un premier espressione del Pd, le cose sono più complicate. C'è il nome esterno, di area, Raffaele Cantone, Enrico Giovannini, o il rientrante Enrico Letta. Ma nelle prossime ore potrebbe crescere il pressing su Zingaretti perché sia proprio lui, il più scettico su un'idea che è partita da Renzi, ad assumere la leadership dell'operazione, con una inevitabile candidatura alla presidenza del Consiglio. ESPRESSOMUNAFO-20190821092451778-jpg Una strada piena di rischi e di ostacoli: Zingaretti potrebbe perdere la guida del partito conquistato sei mesi fa con le primarie e si consegnerebbe ai voti dei gruppi di Camera e Senato dove dominano i renziani. Ieri nell'aula del Senato Renzi ha rovesciato sulla segreteria la responsabilità del voto anticipato, la «connivenza» con la Lega. Un'accusa molto grave per il segretario. Ma solo una partecipazione del Pd ad altissimo livello politico può consegnare a un governo con M5S qualche possibilità di riuscita, la garanzia che non sia un suicidio. E le conseguenze a catena sarebbero imprevedibili. Per esempio: nelle regioni in cui si vota nei prossimi mesi (Emilia, Umbria, Calabria e forse Lazio) diventerebbe all'improvviso interesse comune di Pd e M5S di andare uniti, per dimostrare che il governo gode di un consenso diffuso sui territori. Una vittoria in quelle regioni della Lega e del centrodestra avrebbe l'effetto opposto: dimostrerebbe che l'accordo Pd-M5S è soltanto una manovra di Palazzo, senza radici nella società. In vista, poi, c'è l'incarico più importante di tutti: la presidenza della Repubblica quando, nel gennaio 2022, scadrà il mandato di Mattarella. E qui avanza un nome più forte di tutti, l'uscente presidente della Bce Mario Draghi.
Si può discutere di tutto questo in 48 ore? È più che lecito dubitarne. Specie per una politica macha e dunque cieca, anche quando invoca la soluzione Ursula. Ma senza soluzione forte, meglio tornare a votare subito. Qualsiasi altra trovata si rivelerebbe un regalo immeritato per il piffero di montagna suonato, il toro scornato di ieri Matteo Salvini.