La chiamano "sindrome Italia". È la depressione che affligge migliaia di donne dopo aver lasciato i figli negli istituti del loro Paese. E quando tornano, i ragazzini non le riconoscono più (Foto di Alessio Romenzi)

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«Tutto si risolve con i soldi, è una mentalità di troppi qui in Romania e credo dipenda dal livello di corruzione del paese, è tale che le persone si sono ormai convinte che tutto abbia un prezzo, che tutto possa essere regolato da uno scambio di denaro, anche le distanze o gli abbandoni forzati delle proprie famiglie».

Don Egidiu Condac è il direttore della Caritas di Iasi, nella zona moldava, nord est della Romania, seconda città del Paese per numero di abitanti.

Il suo ufficio è scarno, essenziale. Sulla tavola qualche biscotto e un termos di caffè. Nell’edificio adiacente alla chiesa, la Caritas locale gestisce un orfanotrofio, e in città un centro diurno per gli altri orfani, gli “orfani bianchi”, così sono definiti i bambini e gli adolescenti che crescono con almeno uno - se non entrambi - i genitori che lavorano all’estero.

La definizione inglese è però più appropriata, i “left behind”, i bambini lasciati indietro, sono per lo più figli della donne rumene emigrate per lavorare come badanti o come collaboratrici domestiche in Italia e altri paesei europei.
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Sono, secondo Unicef, 350 mila in tutta la Romania, 100 mila nella sola regione della Moldova.

Don Egidiu ricorda la storia antica di Iasi, una delle più antiche città della Romania, capitale della Moldavia per tre secoli, fino al 1862. Iasi patrimonio di cultura e arte, che riecheggiano oggi nelle cinque università della città.
A guardarla dall’alto, dalle terrazze dei suoi nuovi ristoranti alla moda, Iasi sembra avere un solo volto, quello che la cita nel rapporto 2018 della Banca Mondiale come «la città più dinamica della regione nordorientale» della Romania, che è però anche la regione più povera del paese, e una delle più povere d’Europa, in termini di Pil pro capite (4.600 euro a fronte della media nazionale di 7.600 euro). Significa che in quest’area il guadagno mensile netto è 350 euro, mentre nel resto del paese 418.

Eppure le promesse di sviluppo sono mantenute solo in un segmento di città, e passa attraverso i treni veloci, le autostrade e gli investimenti di multinazionali straniere che stanno prendendo il posto delle vecchie industrie del regime di Ceausescu.

Don Egidiu viveva a Iasi anche durante gli anni del comunismo, ricorda le code per il cibo razionato e «la gente dei villaggi spostata a forza dal regime nelle grandi città per lavorare, gente che dopo il 1990 ha cominciato a scappare via». La diaspora rumena ha avuto due fasi, quella successiva alla caduta del regime e quella seguita al 2007, anno dell’entrata del paese nell’Ue, quando ad andarsene furono soprattutto le donne, per cui è stato semplice trovare un impiego nell’assistenza agli anziani nel resto d’Europa.
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È nel corso di questi due decenni che si è creato un vuoto fatto di bambini soli. E una spaccatura: un pezzo di Iasi cresceva, con la popolazione raddoppiata in pochi anni e gli investitori esteri, e un altro pezzo vicino ma invisibile era left behind, lasciato indietro.

La distanza tra la ricchezza e la povertà a Iasi si percorre in tre strade, lasciandosi alle spalle il maestoso Palazzo della Cultura, il teatro Nazionale Vasile Alecsandre e scendendo lungo la via Nationala, dove di fronte alla stazione ferroviaria c’è il parcheggio per i pullmann diretto verso il resto d’Europa. Verso la Francia, la Spagna e l’Italia soprattutto.

Il Belpaese che invecchia, la crisi demografica che non accenna a risolversi e i pullmann di badanti sempre pieni. Iasi-Brescia, Iasi-Verona, Iasi-Roma, Iasi-Palermo. E alla fine della via gli alloggi popolari, e dietro le case popolari le baracche diventate case, spesso con i soldi delle rimesse mandate da chi lavora lontano, case in cui manca ancora il bagno, sostituito da un baracchino di lamiera nei campi, con il secchio dell’acqua a fare da scarico, in un’area in cui l’inverno le temperature sono rigidissime.

Il centro diurno della Caritas accoglie i bambini di queste baracche «se guardi Iasi dall’alto», dice don Egidiu, «la parte residenziale dei ricchi copre la povertà della città, a 500 metri di distanza in linea d’aria ci sono le ville dei giovani rampolli del paese, e qui le donne senza denti e i bambini senza madri».
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Nella scuola della Caritas, un volontario mostra i disegni dei bambini, e un robot di cartapesta che contiene le loro lettere segrete, l’espediente creato dagli operatori sociali per far sfogare le loro pene, pagine piene di preoccupazione e dolori e incertezze, perché, dice «i bambini soli si vergognano di dire che stanno crescendo senza genitori». Come Cleo e Cristina, una famiglia numerosa la loro, nove fratelli in tutto, i sei più grandi in Inghilterra con il padre, a lavorare in fabbrica. La madre che va e viene e le due più piccole a Iasi, a crescere sole.

O Gabriel, che ha undici anni, due sorelle più grandi e spesso si contraddice mentre parla. È stato un anno a Firenze, con sua madre e suo padre, poi è tornato in Romania, «con entrambi, no solo con mio padre, tutti ma non tutti»; fa un tratto di pastello sul foglio e dice di vivere con sua madre e suo padre. Poi si fa cupo, abbassa la testa e continua a disegnare. E il volontario scivola fuori dalla porta e spiega che la madre naturale lavora come badante a Firenze, ma per il padre le cose non sono andate bene, niente lavoro in Italia e niente lavoro a Iasi ed è tornato qui, e ora vive con un’altra donna in quella che era la casa di famiglia, e gli unici soldi per andare avanti sono quelli delle rimesse che la madre di Gabriel continua a spedire ogni mese. Così, mentre le donne sono partite per sopperire alle lacune del welfare dell’Europa che invecchia, e prendersi cura degli anziani dei paesi più ricchi, le nuove emergenze di città come Iasi sono anziani, adolescenti e bambini rimasti soli, o in famiglie spezzate. È il costo sociale dell’emigrazione economica.

Sono tre milioni e mezzo i rumeni trasferitisi all’estero tra il 2007 e il 2015 secondo un rapporto delle Nazioni Unite sulle migrazioni internazionali, numero che pone il paese al secondo più alto tasso di emigrazione dopo la Siria.
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Secondo un recente dossier “L’impatto del lavoro domestico nei paesi di origine” presentato da Fondazione Moressa e Domina (Associazione Nazionale di famiglie datori di lavoro domestico) poche settimane fa, i risparmi inviati dall’Italia ai paesi di origine dei lavoratori stranieri ammontano a 6,2 miliardi, di cui 1 miliardo e mezzo dai circa 630 mila lavoratori domestici. In Romania, il 18,8% delle rimesse arriva dall’Italia, percentuale che in Moldavia rappresenta il 21% del Pil.

Ci sono i soldi che arrivano, ma anche i disagi psicologici, molte delle donne che da anni lavorano come badanti per gli anziani, una volta tornate in Romania sono segnate da una forma di esaurimento e depressione che nel 2005 due psichiatri ucraini, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, hanno identificato come una condizione socio-medica definendola “Sindrome Italia”.

Sintomi uguali per tutte: tristezza, alienazione, esaurimento e insonnia. Gli stessi che colpiscono i bambini, i figli delle migliaia di badanti che una volta tornate a casa si sentono sospese nel limbo di non riconoscersi più in nessun luogo.
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«I bambini hanno bisogno di una protezione emotiva - dice Don Egidiu - e sentire che qualcuno si prende prende cura di loro in maniera disinteressata. Ma la povertà ha rubato loro i genitori e l’infanzia e questo sta lasciando tracce profonde, non hanno voglia di imparare, non hanno concentrazione». Come se non volessero mantenere la memoria a lungo termine, che è quella dell’abbandono.

Bambini che cercano l’identità in case fatte di nonne e uomini, spesso mantenuti dalle mogli lontane, e quando le donne tornano a casa sentono che non è più il paese che hanno lasciato e che, per di più, pesa su di loro il rifiuto dei figli e il giudizio sociale di essere state cattive madri.Anche se spesso le case in cui vivono le loro famiglie sono costruite sul sudore che viene da lontano e che ha la forma degli scatoloni spediti ogni due mesi, e del versamento mensile via Western union o delle bustine di risparmi portati a Natale, ogni Natale. A figli sempre più respingenti.
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Quando il dolore si fa troppo acceso può capitare che qualcuno crolli, quando la distanza emotiva disintegra ogni certezza i bambini soli diventano ragazzi che non ce la fanno, e qualcuno ha risposto al dolore con la morte.

«Pochi mesi fa si è uccisa una ragazzina di tredici anni», dice don Egidiu, «i soldi inviati possono comprare nuove mattonelle o nuovi mobili, ma non possono coprire la solitudine dei bambini».

Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione Donne Rumene in Italia da anni cerca di sensibilizzare le istituzioni sui rischi di questa situazione precaria, «la Sindrome Italia, è una forma di depressione molto pericolosa e il tema dovrebbe essere affrontato a livello europeo, ma non è stato fatto abbastanza, forse perché è un argomento che non porta voti. Ma queste donne si stanno prendendo cura di società come quella italiana che invecchieranno sempre di più e dunque sempre di più avranno bisogno di loro, e questi bambini sono europei come gli altri. Ma a differenza degli altri sono attraversati da rabbia, ansia e difficoltà di apprendimento». In un paese in cui il 40% dei bambini vive in condizione di povertà o esposto al rischio di esclusione sociale.
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Ana vive in una delle baracche vicine al centro della Caritas, con sua nonna Monika, la sua bisnonna Maria, una sorella più grande, Sara, e due fratelli piccoli. Non ci sono uomini, qualcuno lavora all’estero, qualcuno - semplicemente - è andato via.Sua madre lavora tra la Grecia e l’Italia. La baracca diventata casa di Ana è una di quelle ancora prive di bagno, al suo posto dei pezzi di lamiera nel campo adiacente con un secchio di acqua a fare da scarico.

Ana ha lo sguardo triste, da quando è piccolissima sua madre è distante, torna d’estate con i soldi risparmiati del lavoro all’estero, mentre lei non riesce a concentrarsi e disegna su un foglio del centro diurno una famiglia che non c’è.

La sua bisnonna dice di aver cresciuto decine di bambini dagli anni novanta in poi «perché tutti andavano via per lavorare e questa casa è diventata la culla di chi non sapeva dove lasciare i figli». La bisnonna degli orfani bianchi.

Ana abbraccia continuamente le due donne che la crescono, ha bisogno del loro corpo, come se volesse essere certa che non andranno via.
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Quando sua madre lontana la chiama al telefono lei è distratta, distante. «Sono amiche più che madre e figlia», dice sua nonna Monika. Di nuovo, il costo sociale dell’emigrazione economica. Infatti quando sua madre la cerca, le telefona, Ana non la chiama mamma.

La chiama Alina.

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