Bambini destinati a diventare i padrini di domani vengono sottratti alla tradizione di famiglia. Grazie all'intervento e alla forza delle loro mamme. Che con l’aiuto del tribunale sfidano l’arroganza dei mariti al 41 bis. Ecco le loro storie (Illustrazione di Emanuele Fucecchi)

Quelle madri coraggio che salvano i figli allontanandoli dai padri boss

Lorenza non è ancora maggiorenne, ma è già adulta: costretta a fare i conti con un padre padrone, affiliato a Cosa nostra, in Lombardia. Monica, invece, è madre di due bambini di 12 anni e ha fatto di tutto per strapparli al destino certo di capi clan in Calabria. Poi c’è Giorgio: rischiava di diventare manovalanza dei padrini, è stato testimone oculare di un omicidio di ’ndrangheta e porta sul corpo le ferite della lupara. Bambini, ragazzi, donne, età diverse, latitudini del Paese differenti. Uniti nella ricerca di una vita normale, nulla di più. Tutti salvati dai giudici minorili. Il tribunale per i minori di Milano nel caso di Lorenza, quello di Reggio Calabria per Monica e Giorgio. Uffici giudiziari poco conosciuti che lontano dai riflettori, e nel disinteresse dei ministri che dovrebbero occuparsi di lotta alle mafie, provano a offrire una via d’uscita ai figli dei mafiosi.

Il tribunale calabrese lo fa in maniera sistematica dal 2012. Il giudice Roberto Di Bella insieme alla sua piccola squadra ha firmato un protocollo che indica la via da seguire fuori dal recinto della mera repressione giudiziaria. Ma è un atto solitario, che resta locale e che avrebbe bisogno di essere istituzionalizzato con una legge ad hoc che stanzi anche più risorse per servizi sociali e assistenza alle famiglie che vogliono recidere i legami di mafia.

A oggi sono 60 i provvedimenti firmati dal giudice Di Bella di allontanamento dei ragazzi dai nuclei di ’ndrangheta. La formula tecnica è «decadenza della responsabilità genitoriale». E può colpire uno o entrambi i genitori a seconda del contesto. Il tribunale interviene sulla base di evidenze certe di maltrattamento psicologico: bambini costretti a sparare, obbligati a fare le vedette, a trafficare cocaina. Ai più scettici un’azione così decisa potrà richiamare alla mente i fatti di Bibbiano, dei bambini tolti alle famiglie e dati in affido ad altre. Nulla di più fuorviante. E mentre la politica strumentalizza i fatti di accaduti in Emilia, resta indifferente al modello vincente di prevenzione antimafia inventato da un giudice schivo e allergico ai palcoscenici.

Di Bella in questi anni ha subito qualunque tipo di attacco senza mai indietreggiare. Lo hanno accusato di confiscare i figli dei boss, di usare metodi da dittatura sudamericana e di causare traumi irreparabili ai minori. Gli slogan a effetto dei critici si sgonfiano di fronta alla realtà toccata con mano dal giudice e da chi conosce a fondo le dinamiche familiari dell’organizzazione mafiosa calabrese fondata sui vincoli di sangue. Qui l’erede del capo si sceglie tra le mura domestiche, non per strada pescando tra la carne da macello pronta a entrare nella “famiglia”. Per questo i bambini maschi fin da piccoli subiscono un indottrinamento costante. Imbottiti di codici di comportamento, di regole criminali dalle quali difficilmente riescono a liberarsi senza l’aiuto di qualcuno.

IL BOSS È SALVO
La pedagogia mafiosa è lo strumento con cui si allevano i padrini di domani. Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha provato a sovvertire la regola del destino ineluttabile. Dei 60 casi trattati che equivalgono almeno ad 80 minori (in un nucleo familiare c’è spesso più di un figlio), la maggior parte ha avuto un lieto fine. Che vuol dire soprattutto adolescenti che hanno ripreso gli studi con diligenza, possono coltivare interessi che prima non gli erano concessi, vanno al cinema, al teatro, immaginano il loro futuro con un lavoro onesto. In molti casi, poi, l’allontanamento ha prodotto una reazione a catena. Molte madri hanno chiesto al giudice di dare loro una seconda possibilità insieme ai figli. Con l’aiuto del tribunale e sfidando l’arroganza dei mariti al 41 bis hanno raggiunto i pargoli lontano dalla Calabria. Fuori dai contesti della famiglia di ’ndrangheta hanno ricominciato una nuova vita, in una casa vera, rinunciando alla reggia dei loro feudi. Anche qualche marito che ha giurato fedeltà alla ’ndrina ha compiuto un passo impensabile fino a qualche anno fa. Come un importante boss della provincia di Reggio Calabria: dopo aver scontato 23 anni di carcere ha contattato il giudice Di Bella, che in passato aveva allontanato i figli e la moglie. «Giudice», ha esordito il capo clan, «ho scontato più della metà della mia vita in galera, non posso più sopportare il peso di una vita così». Ha chiesto così di potersi ricongiungere con la famiglia andata via dalla Calabria. Una crepa, non l’unica, nel monolite di omertà qual è la mafia calabrese. Ne è consapevole anche lo stesso boss, che al magistrato ha confidato: «Vedrà che appena si sparge la voce, molti detenuti faranno la mia stessa scelta». La resa dello ’ndranghetista risale a due mesi fa. Il tribunale si è mosso subito cogliendo il potenziale devastante della scelta di rottura col passato. L’uomo ha già trovato un lavoro. E non ha mai smesso di amare sua moglie, la prima grande accusatrice che con le sue dichiarazioni rilasciate ai magistrati aveva contribuito alla sua condanna.

IL BAMBINO E LA LUPARA
Il riscatto in Calabria vale doppio. In una terra in cui i diritti essenziali sono ridotti a brandelli. Per esempio i servizi sociali. Nelle zone più dense di ’ndrine della Locride, lato Jonico del reggino, gli assistenti sociali e gli educatori sono spesso un miraggio. E molte situazioni di devianza pre-mafiosa sfuggono ai radar di scuole e comuni. Questo vuoto intermedio garantisce alla ’ndrangheta di avere un bacino di giovani leve pronte a prendersi il potere nel momento in cui i senatori delle cosche muoiono o finiscono in cella per molti anni. L’unico sostegno concreto per questi ragazzi arriva proprio dal tribunale dei minori e della rete di associazioni che hanno siglato il protocollo “Liberi di scegliere”, tra queste Libera e Unicef.

Uno degli ultimi ragazzi a essere salvato è un adolescente di un paesino dell’Aspromonte. Il ragazzo, che chiameremo Giorgio, si trovava in campagna con Fabio Giuseppe Gioffrè, detto “Siberia” «ritenuto esponente di vertice dell’omonima cosca». Il 21 luglio dello scorso anno due killer a volto coperto fanno irruzione nel terreno di proprietà di Gioffrè e lo uccidono a colpi di lupara. Giorgio non ha fatto in tempo a scappare, è rimasto ferito al braccio e al torace. «Ha ancora i pallini dei colpi nel corpo, ma sta meglio», ci spiega chi ha seguito le indagini. Il giovane è così diventato un testimone chiave dell’inchiesta. Il giudice Di Bella lo ha seguito da vicino, oggi vive protetto fuori dalla Calabria ed è uno dei giovani salvati dal protocollo “Liberi di scegliere”. Dopo qualche tempo lo hanno raggiunto anche i genitori. Nel frattempo ha pure testimoniato contro i killer, senza esitazioni. Ma è un bambino che dovrà convivere per sempre con il trauma impresso sulla carne dai macellai delle ’ndrine.

VIA PER SEMPRE
Neppure le ferite di Monica si cicatrizzeranno presto. Porta nell’anima i segni dell’arroganza mafiosa.
Monica non è il suo vero nome. Non può apparire, ha scelto di togliere i piccoli eredi al boss recluso al 41 bis. Lo ha fatto accettando ogni tipo di rischio. Al suo fianco Di Bella e l’associazione Libera. Monica è stata anche in carcere. E neppure la sua scelta di portare via i figli lontano dal clan le ha garantito la clemenza della Corte. Dopo aver portato i due gemelli in una famiglia affidataria della rete di Libera, il giudice della Cassazione ha reso definitiva la condanna. Ha salutato i figli con le lacrime agli occhi e poi è partita per consegnarsi, consapevole che una volta uscita sarebbe iniziata davvero la sua nuova vita. «Sono stati anni terribili», racconta Monica, «perché ho dovuto condividere tutto quel tempo con altre detenute che invece continuavano a seguire i codici criminali». Poi una bella notizia: l’avvocato Enza Rando ottiene la scarcerazione e l’affidamento in prova ai servizi sociali. La data è simbolica in questa storia dove le donne hanno un ruolo decisivo. Monica lascia il carcere il giorno della festa della donna, l’8 marzo 2019. Ma per comprendere fino in fondo il coraggio di Monica è utile tornare indietro di qualche anno. Al giorno in cui lei e i bambini lasciano per sempre Reggio Calabria.
«Ho lasciato la città in cui vivevo il 26 luglio 2016», ricorda Monica. «Alle sei di mattina è arrivata a prendermi la polizia per portarmi in aeroporto. All’epoca vivevo da mia suocera, perché l’abitazione in cui abitavo con il mio ex era stata confiscata. La casa era vuota, erano tutti in carcere, e così mi ero trasferita lì con i miei figli».

Si è innamorata del boss nel 2006, hanno avuto due figli. L’atteggiamento amorevole del capo muta repentinamente: «Ha voluto che smettessi di lavorare, mi diceva che non era necessario. E in effetti di soldi ne giravano molti, ma lui era molto tirchio. Gli avevo chiesto da dove venisse quel denaro, ma mi rispondeva “conta e non fare domande”». Prepotente. Arrogante. Violento. Si drogava molto. «Una volta mi ha anche picchiata quando gli ho urlato: “Drogato”. Non mi permetteva neppure di lavorare. Quando ho iniziato a informarmi per un lavoro in giro, tra i suoi amici, spiegando che ne avevo bisogno per mantenere i bambini, ottenevo alcune risposte evasive, altre, invece, più sincere: “la moglie di Nico vuol fare le pulizie? Ma siete pazza?”. In quel luogo era una richiesta folle e mio marito l’avrebbe vissuta come un’offesa. La donna deve stare muta, diceva mio cognato. Una volta mi ha detto: se non stai buona, ti ammazzo... a pensarci bene mi avevano reso una serva». Sembra trascorso un secolo, invece sono passati solo pochi anni. Monica adesso pensa solo ai suoi due piccoli che stanno crescendo lontani dall’influenza del padre. Frequentano la scuola, vanno al mare, studiano, corrono per le strade di una ignota e ordinata cittadina del Nord Italia. Vivono la normalità che in passato gli era stata negata nel nome del clan. «La mia scelta è maturata pensando al loro futuro. Così, quando il giudice del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria mi ha convocata per un colloquio, ho capito cosa dovevo fare. Lì, in quella saletta dove il giudice Di Bella mi attendeva, è diventato tutto più chiaro. Fuggire, rifugiarmi, tutelare chi amavo più della mia stessa vita».

Così Monica e i suoi bambini lasciano la Calabria. «All’inizio, ai miei figli, ho spiegato che ci saremmo allontanati per cercare un lavoro fuori. Credevano che loro padre fosse in carcere per non aver pagato delle multe. Ma alla fine, dopo qualche mese, ho spiegato loro la verità: “Vostro padre è dentro per associazione mafiosa”. La loro risposta continua a farmi sorridere: “Ma cos’è, una cosa tipo il clan?”. Ho dovuto spiegare che anch’io ero stata in galera. Ma gli ho detto di stare tranquilli, perché la mamma non ha mai fatto male a nessuno. È solo che a volte le persone non percepiscono in che guai si stanno per cacciare. Per molto tempo non hanno mai chiesto del padre. Adesso, però, da un po’ vogliono informazioni su di lui. Avvertono l’esigenza di sentirlo. Una volta al mese vanno in carcere a trovarlo, non hanno molta voglia ma io faccio il possibile perché accada. Non cerco vendetta». Qualche tempo fa il boss ha scritto una lettera diversa dal solito. Concordava con lei sul fatto che per i piccoli è necessaria una vita migliore della sua. La testardaggine di Monica è riuscita a scalfire ciò che decenni di repressione non sono riusciti nemmeno a scheggiare.

IL PRIMO CASO AL NORD
Come Monica, anche Lorenza ha visto la mafia in faccia ogni giorno. Non in un paesino della Sicilia o della Calabria, ma in un ricco comune della Lombardia. Qui ha vissuto quotidianamente a contatto con il boss. Non per scelta, è suo padre. Lei è una piccola donna, che ha perso l’innocenza molto presto. Costretta a osservare inerme le violenze fisiche subite dalla madre, ostaggio del padre padrone affiliato a Cosa nostra. Da quasi un anno Lorenza e la mamma vivono in un luogo sicuro, segreto, protetto dagli occhi indiscreti della mafia di Gela. Sono testimoni di giustizia, perché hanno denunciato le violenze fisiche e psicologiche subite. Finto onore e violenza. L’alfa e l’omega del codice non scritto delle cosche. Dal Sud al Nord. E così il tribunale dei minorenni di Milano ha applicato il metodo di Reggio Calabria: allontanare i figli dai padrini per offrire loro un’opportunità di vita libera dal ricatto criminale. È il primo caso al Nord. L’Espresso è in grado di raccontarlo pur con tutte le cautele del caso vista la giovanissima età della ragazza, che abbiamo chiamato appunto Lorenza. Negli atti dell’indagine, che vede il padre indagato per reati gravi di violenza sulla madre, emerge un quadro di machismo e prepotenza. Insieme a lui sono coinvolti altri parenti dell’affiliato a Cosa nostra, contribuivano al controllo totale sulla vita della donna. Che cosa ha dovuto subire Lorenza? Ha visto picchiare la madre: schiaffi, pugni e persino con una bottiglia di vetro sul collo. Alla mamma di Lorenza veniva impedito di uscire liberamente. Anche solo per farsi un giro, prendersi un caffè o sbrigare una commissione doveva essere accompagnata dal marito o dalle sorelle del boss. Hanno persino attaccato una tenda scura davanti al balcone: per essere certi che i vicini non la vedessero. L’hanno obbligata a vivere al buio, con le tapparelle perennemente chiuse. Lorenza ha assistito all’umiliazione della madre. Una sera il padre l’ha presa a calci e pugni. La sua colpa? Aver salutato un ex compagno di scuola. Scene che sembrano di altri mondi, da medioevo. E invece questa è una storia dei nostri tempi, che si svolge in un paesone della Lombardia. Tra fabbriche, uffici e ospedali all’avanguardia.

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