Alnoor Mohammadiaen Adam è il testimone chiave dell’esposto contro Roma e Bruxelles alla Corte dell’Aja per “crimini contro l’umanità”. E mette sotto accusa l’aiuto economico e militare dato alla Guardia costiera libica

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Alnoor Mohammadiaen Adam, 44 anni, è il testimone chiave dell’esposto contro Roma e Bruxelles articolato in 244 pagine e presentato lo scorso giugno alla Corte Penale internazionale ( Cpi) dell’Aja dall’avvocato israeliano Omer Shatz, docente di diritto internazionale a Sciences Po e dal collega franco-spagnolo Juan Branco.
La denuncia è per “crimini contro l’umanità” e mette sotto accusa l’aiuto economico e militare dato
da Italia e Ue alla Guardia costiera della Libia, che poi usa queste risorse per alimentare la tratta di
esseri umani, tra indicibili violenze, ricatti, prigionie e torture.

Membro della tribù sudanese dei Berti, una delle più colpite durante il conflitto in Darfur, in questa intervista Alnoor Mohammadiaen Adam rivela per la prima volta alla stampa il proprio nome e il suo volto: «Ho deciso di farlo perché ciò che sta accadendo sulla pelle di chi fugge dalle guerre e dalla povertà rinnova il mio dolore. La decisione dell’Italia e dell’Ue di addestrare, finanziare con soldi pubblici e affidare alla Guardia costiera libica le operazioni di salvataggio in mare dei migranti è un’aberrante truffa non solo ai nostri danni ma anche nei confronti dei cittadini italiani ed europei», dice. E aggiunge: «Non ne parlo per averlo sentito dire: è un fatto che io e mia moglie siamo stati costretti a constatare in prima persona». La moglie di Alnoor è morta per le violenze subite e le malattie contratte in Libia, poche ore dopo essere sbarcata con il marito a Trapani. «I medici mi hanno detto che era incinta», racconta Alnoor. La cui testimonianza, secondo l’accusa, dimostra che Italia e Unione Europea nel consegnare la gestione del recupero in mare dei migranti alla Guardia costiera libica hanno contribuito all’attuazione di crimini contro l’umanità.

Signor Adam, ci può spiegare cosa è accaduto quando il 17 luglio 2016 siete riusciti a imbarcarvi su un peschereccio in Libia?
«A mezzanotte io e mia moglie siamo stati portati a un molo con molti pescherecci. I trafficanti, che si facevano chiamare Abdelbasit e Fakri, ci hanno detto che ci avrebbero scortato per 2 ore affinché non venissimo intercettati dai “pirati”. Eravamo 86 persone, tutte sudanesi. La barca però era troppo carica. A quel punto Abdelbasit è saltato dentro e ha iniziato a timonare, mentre il gommone di scorta guidato da Fakri ci precedeva effettuando “ricognizioni”. Ci hanno scortato per un’ora e mezza fino a quando Fakri ha accostato e ha urlato: “Abdelbasit, vieni, veloce!” A quel punto ho chiesto cosa dovessimo fare, avendo capito che saremmo rimasti soli, ma non hanno risposto e se ne sono andati via a tutta velocità col gommone. Poco dopo è arrivata una barca più grande, armata di mitragliatrice Dushka, con otto uomini in uniforme, che ci ha speronato. Eravamo terrorizzati. Due di loro armati fino ai denti sono saltati dentro e ci hanno urlato: “Siamo la Guardia costiera libica. Rappresentiamo il governo. Sappiamo che state andando in Europa. Ma ora dovete tornare in Libia!”».

A quel punto cosa è successo?
«Ci hanno costretto a invertire la rotta mentre il mare diventava sempre più grosso. Noi non eravamo in grado di gestire l’inversione, allora uno degli uomini della Guardia costiera ha preso il timone. Ma le onde erano troppo alte anche per lui. Così i suoi colleghi ci hanno lanciato una corda per trascinarci, visto che la loro imbarcazione era più grande e più veloce. Sulla via del ritorno, hanno intercettato altre 4 barche. Al mattino presto, quando siamo arrivati a Zawiya, due barche erano già state rilasciate perché avevano raggiunto un accordo con la Guardia costiera libica. Poco dopo siamo stati trasferiti in alcuni container-prigione vicino a un edificio a più piani. I carcerieri ci hanno subito detto: “Ognuno di voi deve pagare 2.000 dinari (più di 1.200 euro, ndr) e vi porteremo in un punto dove sarete recuperati. Se non avete soldi, ecco il telefono, chiamate le vostre famiglie e ditegli che ce li spediscano. C’è un nostro agente incaricato di ritirare il denaro a Tripoli. Chi non paga, verrà trasferito nella prigione di Osama 767”. Io e mia moglie non avevamo più soldi perché li avevamo usati tutti per pagare il viaggio verso l’Europa. Così ci hanno separati, Hala in un container, io in un altro. Siamo rimasti chiusi lì dentro senza mai uscire e senza notizie l’uno dell’altro per due settimane. Mi hanno picchiato e torturato. Non riesco a parlare di quello che è successo a mia moglie. Alla fine, lei ha chiamato i suoi fratelli che hanno inviato denaro per farci uscire. Non mi dimenticherò mai quei giorni. Dentro ai container faceva un caldo asfissiante ma ci davano solo una tazza d’acqua al giorno. Quando ne ho chiesta un’altra, non solo non me l’hanno data, ma il giorno dopo ho avuto solo mezza tazza. Ho chiesto il motivo e la risposta è stata: “Perché così non disturbi chiedendo di andare in bagno”. Il cibo era molto scarso e disgustoso».

E dopo cosa è successo?
«Hanno mandato alcuni di noi a lavorare nei terreni agricoli circostanti, ordinando ai proprietari di impedirci di scappare. Con il lavoro forzato ci saremmo pagati il nuovo viaggio. Alla sera tornavamo prigionieri nei container. Dopo mesi di lavori forzati siamo stati rimessi in mare sulla barca di legno della prima volta, ma ora a farci da scorta c’era direttamente la stessa barca della Guardia costiera libica comandata dallo stesso capo dell’equipaggio».

È davvero certo che il comandante fosse lo stesso?
«Non mi dimenticherò mai la sua faccia e i suoi modi spietati».

A quel punto cosa è accaduto?
«Ci hanno scortato per circa tre ore, fino a quando le luci non erano più visibili. Mi è rimasto impresso quando siamo passati davanti alle fiamme dell’impianto petrolifero offshore di Sabratha e il capo dell’equipaggio della Guardia costiera ci ha detto: “Se vi lasciassimo qui dovreste pagare di nuovo”. A quel punto ho dedotto che la Guardia costiera libica non è un corpo unico, ma è costituita da più gruppi divisi tra loro».

Poi hanno continuato a scortarvi?
«Sì, ma a un certo punto ci hanno detto: “Continuate così” e se ne sono andati. Mentre albeggiava abbiamo realizzato che due barche di migranti partite con noi non c’erano più. Non so cosa gli sia successo. Le onde intanto erano diventate così alte che abbiamo iniziato ad andare nel panico».

Chi vi ha recuperati in mare e portati in Sicilia ?
«Siamo stati avvistati da una nave che passava, poco dopo ci ha sorvolati un elicottero. Poi è arrivata l’Aquarius che ci ha presi a bordo sbarcandoci a Trapani. Mia moglie è morta 48 ore dopo, per gli stenti e le violenze che aveva subito».