La vera questione è assorbire bene chi arriva. E qui la politica scappa. Parla l’alto commissario Unhcr Filippo Grandi: "Aiutarli a casa loro? Se avessero una casa loro, non scapperebbero e non si chiamerebbero rifugiati"

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Nominato dall’Assemblea ge­nerale delle Nazioni Unite per un mandato di cinque anni nel 2016, Filippo Grandi è l’italiano che ha raggiunto la più alta carica diplomatica nelle Nazioni Unite. Il lavoro dell’Unhcr - 15 mila persone in 128 paesi - fornisce assistenza e protezione a 70 milioni di rifugiati, rimpatriati, sfollati interni e apolidi. Nato a Milano 62 anni fa, dopo una laurea in Storia e Filosofia Filippo Grandi si dedica alle persone in fuga da guerre e epidemie da trent’anni, dagli inizi con la cooperazione internazionale fino all’incarico attuale, nel momento di più grande crisi umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale.

Partiamo dai numeri. Esiste un’invasione in Europa? Possiamo parlare di crisi umanitaria europea?
«Certo che no, soprattutto non possiamo parlare di invasione. L’altro giorno studiavo i numeri degli arrivi via mare di quest’anno in Italia: sono meno di 4 mila. Tanto per avere una cifra di riferimento l’aeroporto di Fiumicino gestisce 43 milioni di passeggeri l’anno. Le due cifre sono slegate naturalmente, ma ci forniscono un ordine di comparazione generale. Siamo arrivati a un punto incredibile in cui i disgraziati che arrivano sono pochissimi eppure generano un dibattito sproporzionato. Detto questo, sono presenti in Italia centinaia di migliaia di persone arrivate nel passato, che vanno gestite - e ci sono enormi lacune nell’assorbimento dell’integrazione. Dunque non c’è un’emergenza in Europa: parlerei piuttosto di una questione sociale che va affrontata con urgenza, altrimenti tutto si confonde nell’immaginario collettivo in una propaganda politica mirata al consenso».

L’urgenza quindi è soprattutto nel ripensare le modalità di accoglienza?
«Nel dibattito non si parla mai di come migliorare l’integrazione nel tessuto sociale, nei servizi, nel lavoro e così via. Ho provato, nel ruolo che ricopro, a fare campagna in questa direzione. Confesso, non molto utile, perché nessuno ascolta. Finiamola con la polemica inutile sull’invasione e chiediamo ai politici proposte concrete sulla gestione del fenomeno migratorio. Gestirlo vuol dire riformare l’asilo, la distribuzione di chi arriva, accelerare le procedure, effettuare i rimpatri di chi non hanno diritto all’asilo. Un dibattito serio e lucido che non si fa perché si perde tempo intorno alla retorica insana che ingigantisce un fenomeno chiamandolo “invasione” quando non lo è e annebbia il dibattito sui problemi reali che vanno gestiti e che nessuno affronta».

Quali sono i mezzi per contrastare la narrativa sovranista, il razzismo in cui è sprofondato il racconto dello straniero - chiunque esso sia - che bussa alla nostra porta? Come si risponde alla retorica del “non possiamo accoglierli tutti”?
«Innanzitutto con una risposta morale e valoriale: prima di parlare di accoglienza dobbiamo ribadire che chiunque arrivi da noi ha diritto al rispetto e alla dignità. Questo non è né negoziabile né discutibile. Mi riferisco alla questione dei salvataggi in mare: in mare si salvano tutte le persone in pericolo perché esiste un obbligo legale e un obbligo morale. Solo poi passiamo a discutere di accoglienza. È necessario ribadire all’opinione pubblica che per i rifugiati che fuggono da guerre, persecuzioni e discriminazioni gli Stati hanno obblighi giuridici precisi, definiti da griglie legali altrettanto precise. Migliorabili certo ma solide. Per chi non ricade sotto il mandato dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, posso solo dire che il trattamento dignitoso è una precondizione essenziale. Ci sono forme di protezione umanitaria temporanee, persone che potrebbero non essere considerate “rifugiati” ma avere motivi umanitari che li hanno spinti alla fuga per cui è meglio che non tornino a casa. E per altri ci sono altre formule, incluso - certo - il rimpatrio».

Qual è la vostra posizione sui rimpatri?
«Credo sia importante fare un discorso strutturato sui rimpatri delle persone non riconosciute bisognose di protezione umanitaria internazionale. Non vi è un obbligo a dar loro una residenza temporanea o permanente nei paesi in cui lo richiedono e quindi ci sono formule per cui tornino a casa ma è fondamentale che questo avvenga in modo rispettoso, umano e dignitoso. Mi lasci dire che non mi sembra ci siano, almeno in Italia, modalità efficaci. Nonostante tutta la retorica dei ritorni si è fatto poco, i rimpatri sono sette-otto mila l’anno».

Cosa è cambiato in Europa in questi anni? Penso all’immagine di Alan Kurdi, il bambino siriano il cui corpo fu trovato sulla spiaggia di Bodrum in Turchia il 2 settembre 2015 che tanto scosse le coscienze. O al naufragio del 3 Ottobre 2013 che animò l’operazione Mare Nostrum. Oggi viviamo nell’Europa dei confini. Nell’Italia dei decreti sicurezza che puniscono il soccorso in mare. Cosa ha provocato secondo lei questo cambiamento?
«Si è identificata la questione migratoria con i falsi e tendenziosi temi dell’invasione, della sostituzione etnica e altre idiozie di questo tenore. Menzogne che hanno creato un consenso formidabile. Chi ha abbracciato questa propaganda ha effettivamente ottenuto consenso politico, virando la bussola di meccanismi di salvataggio e accoglienza che funzionavano verso le derive che viviamo oggi. L’altra questione problematica io credo sia legata alle lacune vistose nella gestione degli arrivi, dell’accoglienza e dell’integrazione. Ritengo ci sia stata negligenza, trascuratezza nell’affrontare il ripensamento di alcuni capitoli di intervento, che non si sia voluta o saputa vedere con chiarezza l’entità dei problemi che stavano sorgendo.Questa inadeguatezza si è declinata in molti Paesi in maniera diversa. Penso al modello di integrazione svedese, uno dei più efficienti, che ha mostrato le sue debolezze. Anche in quei paesi - Svezia, Norvegia - abbiamo assistito a qualche restrizione legislativa, come risposta a un anno cruciale come il 2015. Dovremmo però essere in grado di dire: il nostro modello è imperfetto, va rivisto, va aggiornato. Questo è un discorso razionale. Diverso è rincorrere la grammatica dell’invasione al grido di “blocchiamo porti e confini”».

E il classico “aiutiamoli a casa loro”...
«Mi faccia dire innanzitutto che “aiutiamoli a casa loro” per l’Agenzia per i rifugiati è una frase che fa amaramente sorridere. I rifugiati non sono mai a casa loro, altrimenti non sarebbero rifugiati».

Citava il 2015, un anno spartiacque. L’Europa si accorge della crisi siriana perché un milione di persone bussa alle nostre porte. Perché nel dibattito pubblico si è parlato di paura e emergenza, ma non si è spiegato a sufficienza che quell’esodo è stato provocato anche da una drastica diminuzione degli aiuti e di un conseguente peggioramento delle condizioni di vita dei rifugiati che hanno scelto di lasciare le zone in cui vivevano alla volta dell’Europa?
«Per un motivo semplice: la politica del consenso sulla retorica dell’invasione non sopporta la complessità dell’argomento. Il 2015 è fondamentale da analizzare, perché il movimento dei siriani verso l’Euroapasia dalla Siria sia dai paesi limitrofi, specie Turchia e Libano - è stato generato da una combinazione di fattori. Primo: i siriani, ovunque fossero, sentivano che non c’era più speranza in quel conflitto - e non avevano torto perché siamo nel 2019 e la guerra non si è risolta. Secondo: gli aiuti umanitari nei paesi di accoglienza stavano calando rapidamente in settori fondamentali, cioè l’istruzione per i bambini, l’accesso ai servizi, al mercato del lavoro locale. I due aspetti sono legati. Le persone si sono dette: la guerra non finirà, non torneremo a casa quindi siamo destinati all’esilio, i nostri figli non andranno più a scuola, non avranno mai una educazione».

Torniamo ai numeri. Il Libano, ad esempio che ospita più di un milione di siriani su una popolazione complessiva di 4 milioni di persone. O più in generale, l’85% dei 70 milioni di rifugiati nel mondo sono ospitati in paesi che a loro volta hanno bisogno di aiuto. Il dibattito però è esasperato dalla grammatica dell’emergenza e mai delle soluzioni a lungo termine.
«Il fenomeno migratorio - nel suo senso più largo, legato ai cambiamenti economici, climatici, alla gestione dei rifiugiati - è di una complessità straordinaria che ha radici precisamente nelle zone da cui se ne vanno. Guerra, povertà estrema, cambiamenti climatici emergenziali, epidemie. Sono ragioni che richiedono interventi costosi e di lungo termine, strategicamente molto complicati, perciò rifuggiti dai politici che cavalcano scadenze elettorali. Dovrebbero spiegare che è necessario investire in maggiori aiuti, interventi duraturi e di ampio respiro, gli interventi strutturali costano di più. Sono temi né popolari né semplici. Quindi si danno spiegazioni semplicistiche, si disumanizza e alla fine rimaniamo con i problemi irrisolti e l’animo più ruvido».

Quale lezione dovremmo trarre dal 2015, anno della crisi balcanica, del ritorno dei confini e dei muri in Europa?
«Innanzitutto che nessun conflitto è lontano. Penso ad esempio al Venezuela. Oggi non possiamo dire che esistano guerre lontane dai paesi ricchi. Dobbiamo sforzarci per ridiventare capaci di risolvere queste crisi internazionalmente. Guardo a Biarritz, al G7, mi chiedo se le grandi potenze discutano per risolvere conflitti. A me non sembra che ci sia uno sforzo delle grandi potenze per ripristinare insieme questa capacità di risolvere i conflitti. Il secondo tema sono gli aiuti».

E questo è un tema cruciale. Disponete delle risorse di cui avete bisogno?
«Rispondo con un esempio. Io sono diventato Alto Commissario nel 2016. Il 4 febbraio di quell’anno ero a Londra per una conferenza storica di supporto per la Siria, il messaggio era chiaro: servono aiuti, non ci possono essere soluzioni durature se le crisi perdurano e gli aiuti non bastano. Il modello umanitario da solo non basta e genera flussi secondari. Gli attori politici presenti riconobbero con forza la necessità di cambiare il modello allo sviluppo nelle grandi crisi dei rifugiati. Abbiamo costruito un intero patto globale: il Global compact sui rifugiati è costruito su quelle basi. Però bisogna capire che quei discorsi noiosi, difficili da spiegare agli elettori, che non sono al centro del dibattito pubblico sono le sole risposte a crisi internazionali complesse».

Con l’approvazione del Global compact sui rifugiati l’approccio sul conferimento delle risorse è dunque cambiato?
«L’Unhcr muove ogni anno 4 miliardi di dollari. Dalla dichiarazione di New York (che ha dato il via all’iter per i due patti, Global compact per rifugiati e migranti, ndr) sono stati mobilitati sei miliardi e mezzo di dollari di nuove risorse destinati agli Stati che ospitano i rifugiati, grazie ai nuovi strumenti finanziari della Banca Mondiale che affrontano le crisi con orizzonte di lungo termine. Bisogna calmare il dibattito politico se vogliamo realmente agire con fatti concreti, depoliticizzare il tema migratorio per risolvere i problemi».

Le semplificazioni del dibattito corrispondono alle semplificazioni delle azioni politiche. Si è monetizzata la chiusura dei confini. L’Europa ha investito miliardi per i campi in Turchia e l’addestramento e i mezzi alla guardia costiera libica. Qual è il suo giudizio a qualche anno da questi accordi?
«Non ho una risposta semplice. Noi non siamo l’Alto commissariato per l’Europa, siamo l’Alto commissariato globale, e quindi abbiamo il dovere di aiutare qualsiasi paese che si trovi ad affrontare una crisi di rifugiati. Unhcr lavora in Turchia (che ospita 4 milioni di rifugiati) e in Sudan (che ospita un milione di persone) e in altri paesi che hanno destato perplessità sul rispetto dei diritti umani. Per noi è dunque fondamentale che l’Europa ci sostenga nell’aiutare quei paesi a gestire i flussi, nei sistemi di asilo e inclusione sociale. E per i rifugiati che si fermano in quei paesi è vitale l’azione economica europea. Quello che diciamo all’Europa, e all’Australia e agli Stati Uniti, è che questo tipo di aiuti non può essere sostitutivo dell’accoglienza nei paesi ricchi. Anche se rinforziamo i sistemi di accoglienza nei paesi di transito le persone non smetteranno di arrivare nei paesi ricchi. La porta, dunque, deve rimanere aperta. Rinforzare una porta non significa chiuderne un’altra».

In Libia vale la stessa valutazione?
«No, la Libia è un caso a parte. Questo discorso non si può applicare perché lì non possiamo rinforzare i sistemi di asilo perché è un paese in guerra, in una guerra complicata e crudele e imprevedibile».

Ha fatto bene l’Europa a investire sulla Guardia costiera in Libia?
«Se il sostegno alla Guardia costiera fosse stato una parte di un investimento generale atto a rinforzare le strutture del Paese e gestire i flussi sarebbe stata una cosa positiva. Purtroppo invece quell’investimento economico è rimasto isolato. Cioè si è investito nella Guardia costiera senza investire altrove, perciò il risultato netto è negativo. Oggi tutte le persone intercettate dalla Guardia costiera libica - cioè il 70 per cento di chi prova a partire - finiscono nei centri di detenzione, quindi in un sistema di abuso. La verità è che se non si risolve il conflitto, se non si trova unità di azione almeno in Europa, ogni decisione sarà vanificata dalle competizioni e dagli interessi incrociati».