Non stupisce che in Machiavelli si trovi analizzata, in maniera mirabile, anche questa scomoda situazione. Nel capitolo XXXV del libro III dei Discorsi, il consigliere Machiavelli, indaga la condizione del consigliere nell’occhio del ciclone della decisione politica. Il capitolo s’intitola: “Quali pericoli si portano nel farsi capo a consigliare una cosa; e quanto ella ha più dello istraordinario, maggiori pericoli vi si corrono”.
Scrive Machiavelli: «Parlerò solo di quegli pericoli che portano i cittadini o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d’una diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia imputato a lui». Il segretario fiorentino fissa, in questo passo, un collegamento fondamentale tra il cittadino libero che critica il potere e il consigliere politico che esercita sì la stessa funzione, ma per mestiere. È una connessione assai significativa, che fa del consigliere il simbolo di chi si arrischia a contestare il potere, anche a prezzo della propria vita (o della disoccupazione…). È una circostanza nella quale Machiavelli si sarà ritrovato spesso nei quattordici anni al servizio della Repubblica di Firenze. Qui spiega che, giacché i leader giudicano le scelte politiche assunte dopo il consiglio di un collaboratore sulla base degli effetti che quelle scelte producono, se l’effetto è positivo, il consigliere sarà elogiato; se negativo, sarà bistrattato. E tuttavia il biasimo supererà d’intensità la lode - «di lunge il premio non contrappesa a il danno» - anche perché per la decisione a cui arride un buon risultato, il leader richiamerà di certo a sé il merito per averla assunta».
I «consigliatori», così li chiama Machiavelli in queste pagine dei Discorsi, rischiano sempre grosso. Se non sono assassinati, tanti sono costretti all’esilio. A lui stesso, d’altronde, fu impedito dai Medici di mettere piede nella sua amata Firenze. Non c’è mestiere più scomodo al mondo di chi sceglie di lavorare accanto a un leader. È una condizione di equilibrio precario, suscettibile a variare in ogni momento, nella quale se i «consigliatori» non hanno il coraggio di dire la verità, «mancano dell’ufficio loro»; se invece il coraggio non gli manca e si spingono a consigliare un’impresa temeraria, «entrano in pericolo della vita e dello stato». L’errore che commettono i leader, secondo il nostro segretario, è limitarsi a «giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine». Ma come? Machiavelli non era il demonio del fine che giustifica i mezzi? No. Non l’ha mai scritto. Né l’ha mai pensato. «La leggenda nera di Machiavelli» di cui scriveva Mario Praz, è, appunto, una leggenda.
La politica è una cosa dannatamente complicata. Chiunque ecceda nel semplificarla non potrà mai capirla. Gli elementi che concorrono a formulare un consiglio o un parere, o quelli che intervengono nel lavoro dei «consigliatori», quando questi s’industriano a istruire una pratica su mandato del proprio leader, sono numerosi e spesso è impossibile coglierli tutti. Non solo. Oltre a essere tanti, sono estremamente variabili, «essendo le cose umane sempre in moto». Il movimento inquieto delle cose umane modifica gli elementi dell’analisi e della formulazione del consiglio. E per quanto il bravo consigliere possa (e debba) tenere presente questo movimento, egli sa bene (e dovrebbero saperlo anche i leader) che l’intima natura di tale movimento è l’imprevedibilità. Poiché nella politica, a differenza delle altre attività dell’ingegno e dello spirito, tutto conta e tutto pretende di contare.
E allora Machiavelli raccomanda il consigliere di essere moderato nelle proprie valutazioni, di non sposare alcuna causa «e dire la opinione sua sanza passione, e sanza passione con modestia difenderla: in modo che se la città o il principe la segue, che la segua voluntario e non paia che vi venga tirato dalla tua importunità». Forse solo così, il consigliere può evitare che gli siano scaricate addosso colpe non sue. Una forma di ragionata sobrietà dialettica e argomentativa che sola può essere insegnata dall’esperienza e dai mille errori che si compiono nel lavorare accanto a un leader. Errori che sono regolarmente commessi e producono un momentaneo o duraturo indebolimento della leadership.
Del resto, una ragionata moderazione può evitare un altro rischio mortale per i consiglieri, quello di essere utilizzati come capri espiatori. Non vale la pena accalorarsi troppo su una singola questione, dacché la soddisfazione e la gloria derivano da un bilancio complessivo del servizio reso al capo. I grandi politici sanno non vincolare il giudizio sull’operato di un proprio consigliere dall’esito di una singola faccenda di Stato. Un leader che sappia pensarsi nel tempo e immagini la propria vicenda storica legata non al momento, ma a una fase politica più o meno lunga, sarà in grado di collocare anche la valutazione di meriti e demeriti di un consigliere in questa fase. È la prova del tempo, più che quella del momento, a forgiare i grandi leader (e i grandi consiglieri).
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È singolare, ma anche illuminante, che durante il Giubileo della misericordia del 2015, sia stato papa Francesco a tornare sul significato di questo termine. Nell’aprire i lavori del Sinodo, il pontefice ha invitato i suoi interlocutori a parlarsi chiaro tra loro, come Pietro e Giovanni i quali, come raccontano gli Atti degli apostoli, dopo la morte del maestro giravano il mondo parlando alla gente con parresia. E ha senso che tornino, quasi alla fine del nostro racconto, gli apostoli, i primi staffer di cui ci dà conto la storia.
Nell’antica Grecia, agli occhi di chi sosteneva in maniera convinta la democrazia, la parresia assumeva una funzione fondamentale. Nella sua Prima Filippica, il politico e oratore Demostene ribadisce il dovere della franchezza nel discorso pubblico dell’agorà democratica, anche se questa franchezza dovesse spiacere a qualcuno. Come ha notato Michel Foucault nelle sue celebri lezioni a Berkeley del 1983, la parresia ricorre di continuo anche nelle opere del tragediografo Euripide. Nella sua Elettra, per esempio: la regina Clitennestra, omicida del marito Agamennone, sollecita sua figlia Elettra a esprimere con parresia la sua opinione sull’uxoricidio da lei ordito. Nelle Fenicie Giocasta, madre e moglie di Edipo, chiede a suo figlio esule Polinice perché l’esilio sia considerato così duro e insopportabile per chi lo subisce. Polinice le risponde che la condizione dell’esiliato è terribile poiché egli, straniero in patria d’altri, non può partecipare alla vita pubblica e, dunque, è impedito nell’esercizio della parresia, del parlare franco. Spiega Foucault: «Se un cittadino non può usare la parresia, non può contrastare il potere del capo. E senza il diritto alla critica, il potere esercitato da un sovrano è senza limiti».
Opere di 2.400 anni fa raccontano il dissidio precipuo della democrazia, quello tra potere e verità: «Il sovrano, colui che possiede il potere», scrive Foucault, «ma non la verità, si rivolge a qualcuno che possiede la verità ma non il potere», ossia il consigliere.
Quello tra verità e potere è forse il più pericoloso incrocio che abbia segnato - e segni tuttora - il difficile cammino della storia umana. Chi detiene il potere, infatti, non sempre possiede anche la verità. E il consigliere che manifesta un dissenso verso il proprio leader, pensando sia suo dovere esercitare la parresia e dirgli quella che crede essere la verità, non è mai in possesso di una dose di potere tale da metterlo in salvo in caso di contrasto. Questa insormontabile difficoltà interseca le due direttrici principali del discorso democratico: il senso della leadership, capace di riconoscere nella critica un punto di forza e non una minaccia, e la funzione della critica come esercizio effettivo di libertà per chi contesta il potere.
Con Arturo Parisi, che ho incontrato durante la redazione del libro, ho indugiato molto su questo pericoloso incrocio. Parisi, oltre che amico fraterno, è stato per molti anni il braccio destro di Romano Prodi, prima nel suo ruolo di sottosegretario a Palazzo Chigi e, dopo la presidenza dei Democratici, come ministro della Difesa. Ma Parisi è anche uno dei più apprezzati sociologi della politica, nonché l’inventore di buona parte delle cose interessanti sperimentate nella politica italiana nell’ultimo quarto di secolo. Perché è così importante che un consigliere sviluppi l’esercizio critico a supporto del proprio leader, quando lo ritenga necessario? L’ho chiesto a Parisi. Vale davvero la pena riportare per intero il suo pensiero in proposito. «La critica del consigliere individua nella contraddizione l’elemento cruciale della formazione della decisione. Il fondamento della politica è il riconoscimento del conflitto. Ed è la contraddizione che innesca il conflitto. Il leader deve essere in grado di saper riconoscere il valore della contraddizione - almeno dovrebbe esserlo.
L’esercizio del potere consiste appunto nel produrre e svolgere scelte capaci di governare il conflitto. Ma una scelta è tanto più una scelta quanto più è libera. Ed è libera quanto più si ha consapevolezza che esistono alternative a quella scelta stessa. A differenza dell’esecutore, il consigliere ha il compito di rappresentare le scelte alternative e non assecondare la scelta formulata dal leader. E deve svolgere questo compito muovendo dal riconoscimento della contraddizione attraverso l’esercizio della critica».
Ancora: «Il leader ha una sua verità, quella da cui muove. Ma esistono altre verità. E chi lo consiglia è chiamato a farsi portavoce di queste altre verità. Il pluralismo delle verità rafforza, infatti, la scelta del leader.
Certo il leader può anche scegliere di non riconoscere questo pluralismo e assolutizzare deterministicamente la sua scelta. Può proteggersi dietro lo scudo della scelta obbligata, può dire: “Non poteva che andare così”. Ma c’è sempre un’alternativa. Se il potente valorizza il punto di vista del consigliere e la sua verità, quando compirà una scelta diversa da quella che il suo consigliere gli suggerisce, la sua scelta avrà più valore proprio perché sarà libera e non necessitata. Perché esiste un’alternativa alla sua scelta e lui sa che esiste».
È così che, seguendo il ragionamento di Parisi, il consigliere diventa il simbolo del cittadino che contesta, esercitando la sua libertà di pensiero e di parola, il potente di turno. Il disprezzo per l’adulazione, la lealtà verso il leader e la passione per la politica lo sostengono nel pronunciare le verità più scomode. Un comportamento che sembrava puntare soltanto a salvaguardare il proprio ruolo e fare bene il proprio mestiere nasconde, in realtà, qualcosa d’altro. Ciò che di profondo lo sprona in tal senso ha, piuttosto, un’origine lontana e un senso generale e più alto. Non vale solo per il consigliere: vale per il leader e per la politica, per la libertà e per la democrazia. Vale per tutti oggi e in ogni tempo. «Che cos’è la critica?» si chiedeva Foucault in una conferenza di quarant’anni fa alla Société française de philosophie. Rispondeva: «È l’arte di non essere eccessivamente governati». L’individuo libero è tale poiché possiede «il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità». Se perde questo doppio diritto, smette di essere libero e la democrazia, che ha costruito proprio allo scopo di poter liberamente interrogare verità e potere, si sgretola su se stessa.
La critica al potere che esercita il consigliere sarebbe, in sé, poca cosa e resterebbe banalmente iscritta nel contratto che lo lega al suo datore di lavoro. Se non fosse che, in virtù di questa sua funzione, egli costringe il potente a tornare sul proprio intendimento, ponendosi come termine dialettico e primo suo argine. È il consigliere la prima persona che sperimenta sulla sua pelle l’esercizio liberale o dispotico del potere. Che ne sia consapevole o ignaro, che gli piaccia o meno, egli è la cavia prediletta della storia.
Servire il potere può essere la più nobile delle attività umane, perché il potere è lo strumento più efficace che gli uomini hanno per difendere e diffondere la libertà. Ma quando il potere strumentalizza chi dovrebbe servirsene, quello è il momento di ribellarsi. A un potente che non vuole sentire ragioni e si fa dispotico, il consigliere è chiamato a opporsi affermando la propria libertà, per difendere quella di tutti. Se vuole salvarsi l’anima, deve correre il rischio della critica.
Servire il potere e salvarsi l’anima è possibile soltanto restando liberi. Liberi di poter esercitare la parresia, liberi di contestare il potere che si serve, liberi di criticare il proprio capo. Non c’è crinale più scosceso da percorrere. Da un lato, il potere appare quel mezzo formidabile che la politica può adoperare per rafforzare la democrazia e dare un giusto senso alla storia. Dall’altro, il potere assume come proprio compito il mero accrescimento di sé e del potente che ne è illuso, temporaneo interprete.
Servire il potere è una faccenda rischiosa. Per votare l’emendamento contro la schiavitù, Abramo Lincoln dispensò incarichi e prebende, ogni mezzo lecito e illecito per conquistare il voto dei parlamentari. Thaddeus Stevens, il più coerente tra gli abolizionisti, disse che la più grande legge del XIX secolo era passata grazie alla corruzione promossa e favorita dall’uomo più puro d’America. Aveva ragione. Finì per questo all’inferno Lincoln, quando John Booth lo colpì a morte a Washington? Finirono all’inferno i ministri di Lincoln, che lo aiutarono in quella memorabile impresa? Finirono all’inferno i suoi collaboratori che raggirarono, corruppero e comprarono tutti i voti che erano necessari per cancellare la schiavitù dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America?
Nessuno può dirlo. Eppure, nulla avrebbe senso se il paradiso esistesse e le loro anime non vivessero lì felici, in una villa sul mare, insieme alle persone che hanno amato. La verità è che non c’è niente di più demoniaco sulla Terra del potere. Nulla è, allo stesso tempo, così fetido e grandioso, così nobile e umiliante, come il potere. Perché può essere usato per abolire la schiavitù o per istituirla. E qualcosa che può essere utilizzato per gli ideali più alti e per gli scopi più infimi, non può che essere un’invenzione del diavolo. Spetta agli uomini decidere che uso farne e se scegliere di dannarsi l’anima o salvarla.
Per conto mio, non sono neanche sicuro di averne una, di anima. Ma nel dubbio.
Il testo che avete letto è un’anticipazione del nuovo libro di Antonio Funiciello, “Il metodo Machiavelli” (Rizzoli). Giornalista, saggista e consulente aziendale, Funiciello è stato anche capo di gabinetto di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, dal 2016 al 2018.