«Tutto quello che ho fatto dai quattordici anni in poi – Scholarism e Demosisto, la protesta contro il programma di educazione nazionale, la Rivoluzione degli Ombrelli, gli otto arresti, i comizi a Civic Square e la testimonianza al Congresso Usa – mi ha portato a oggi, il momento più critico ma anche più promettente di Hong Kong»

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Joshua Wong - figlio di un tecnico informatico in pensione attivissimo nel volontariato, madre consulente in un centro per famiglie in difficoltà - e nome biblico che in cinese suona “Chi-fung”, Giosué, come il profeta dalle frecce acute, è espressione di un universo giovanile venuto al mondo con il trasferimento della sovranità di Hong Kong, dopo il dominio britannico, alla Cina comunista. L’accordo di ingegneria politica, però, di Deng Xiaoping garantiva “un Paese, due sistemi”: transizione morbida verso la regione amministrativa speciale. Teoricamente liberi, di fatto con una democrazia fortemente limitata, gli abitanti della ex colonia inglese si sono trovati a fare i conti con un regime autoritario e con un potere centralizzato, assai avaro verso i diritti umani e incline a marginalizzare la promessa autonomia.

«Hong Kong è una città che non è britannica, che non vuole essere cinese e che vede crescere il bisogno di affermare una propria distinta identità», chiarisce Wong in “Noi siamo la Rivoluzione”, il suo libro in uscita, in larga parte ricavato dagli appunti presi alla fioca luce della prigione di Pik Uk.

«Mi sono sempre sentito come il bambino de “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Hans Cristian Andersen», ammette con semplicità, ridimensionando la valenza simbolica, invece potente, della sua protesta: quando nessuno aveva il coraggio di dire quello che pensava, lui lo faceva. A scuola, denunciando su Facebook gli scadenti menu della mensa scolastica; per le strade, davanti alla polizia. Quando tanta schiettezza incontra la forza dei social media, arriva per lui la prima vera battaglia: contro il programma di “educazione nazionale” che il legislatore cinese vuole introdurre in tutte le scuole. Sit in, proteste, alla fine i ragazzi, organizzati in un gruppo denominato “Scholarism”, hanno la meglio: l’applicazione della legge è rimessa ai singoli istituti. E Wong si convince: «Dove gli adulti hanno fallito, i giovani prenderanno in mano la situazione. La politica non è uno sport esclusivo praticato da anziani politici o burocrati che sono lì da una vita».

Nel 2014 la Rivolta degli ombrelli, impiegati per proteggersi dagli spray urticanti della polizia: i ragazzi chiedono il suffragio universale, con Occupy Central resistono per 79 giorni. È allora che scatta la decisione di entrare in politica. Ad aprile 2016, Wong e i suoi danno vita al partito Demosisto: nome che combina il termine greco “popolo” al verbo latino “stare”, stare con il popolo. «Tutto quello che ho fatto dai quattordici anni in poi – Scholarism e Demosisto, la protesta contro il programma di educazione nazionale, la Rivoluzione degli Ombrelli, partendo dall’ufficio del preside per arrivare alla cella di una prigione, i comizi a Civic Square e la testimonianza al Congresso degli Stati Uniti d’America – mi ha portato al punto in cui mi trovo ora, al momento più critico ma anche più promettente di Hong Kong», dice. E ancora: «Per citare J.K. Rowling, quel che sarà sarà, e lo affronteremo quando è il momento».

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