Joe Biden è in testa ma non si sa quello che farà Donald Trump in caso di sconfitta. Ecco gli scenari: dalla battaglia legale fino all’uso dell’esercito

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Guardando numeri e dati, quando manca ormai una manciata di giorni al voto del 3 novembre, tutto indicherebbe che Joe Biden diventerà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Lo suggeriscono i sondaggi, che certo possono sbagliare (come nel 2016) ma che ora vedono il candidato democratico non solo saldamente in testa nel voto popolare ma anche con un buon margine di vantaggio in alcuni Stati solitamente in bilico e decisivi come Florida, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Tutti e quattro nel 2016 andarono a Trump: la Florida per 115 mila voti (su oltre 9 milioni di elettori) e gli altri tre per circa 78 mila voti complessivi. Ma a far  pensare che Biden sia avvantaggiato ci sono anche altri segnali. Ad esempio l’atteggiamento di diversi candidati repubblicani (al Congresso oppure nelle elezioni statali e locali) che tentano all’ultimo minuto di smarcarsi dal presidente osannato fino a pochi mesi fa. 

L'intervento
Trump e le prove di post democrazia
9/10/2020
Eppure l’America democratica resta inquieta. In questi quattro anni The Donald ha abituato i cittadini Usa a continui colpi di scena, ha cambiato in corsa le regole del gioco politico e amministrativo, ha smontato e rimontato la Casa Bianca, ha cacciato chiunque mostrava anche un minimo dubbio, ha rimodellato la Corte Suprema rendendola una (quasi) inespugnabile fortezza dei conservatori, ha sdoganato i suprematisti bianchi. Il tutto senza perdere un solo voto in quella base elettorale che è pronta a seguirlo sempre ed ovunque e che rappresenta almeno il 40 per cento di chi andrà alle urne. Soprattutto Trump ha detto e ripetuto che non accetterà mai una sconfitta, perché non potrebbe essere altro che dovuta a brogli: «Non accetterò altro risultato, sarebbe una truffa» (29 agosto). «I democratici stanno cercando di truccare queste elezioni perché è l’unico modo che hanno per vincere» (13 settembre). «Ci sarà una transizione pacifica? Beh, dobbiamo prima vedere quello che succede!» (23 settembre). «Le schede postali sono fuori controllo!» (23 settembre). «Quello che stanno facendo i democratici è una truffa, questa truffa la porteremo davanti alla Corte Suprema». (24 settembre). Parole che, dette da un presidente in carica, non rassicurano e lasciano aperti diversi possibili scenari.

La lunga notte dell’Election Day
Da almeno mezzo secolo - con l’eccezione della sfida Bush-Gore nel 2000 che portò al lungo riconteggio in Florida e alla decisione finale della Corte Suprema - gli americani sanno chi ha vinto la sfida per la Casa Bianca la notte stessa delle elezioni. Grazie alle televisioni (e all’Associated Press) che sulla base di exit poll, proiezioni e primi dati reali sono in grado di assegnare con ragionevole certezza la vittoria in ogni singolo Stato e infine proclamare il vincitore. Il 3 novembre però sarà più complicato, perché - complice la pandemia - è probabile che (tra schede votate in anticipo e quelle inviate per  posta) una buona metà degli elettori abbia già votato, ma che i loro voti vengano conteggiati più tardi. Nei sette-otto Stati che decideranno la sfida sarà quindi difficile per le tv proclamare con certezza il vincitore, ma qualcuna di queste (i democratici temono FoxNews, organo di propaganda semi-ufficiale di Trump) potrebbe essere tentata di assegnare lo Stato al candidato che è in testa sui voti espressi nell’Election Day, senza aspettare i conteggi successivi. E mediamente si pensa che il voto postale favorisca i democratici, mentre i trumpiani preferiscano recarsi di persona alle urne. Sicché il rischio di un cortocircuito sui numeri quella notte è reale. 

L’ipotesi della battaglia legale
Se ci fosse un’ondata blu (il colore dei democratici) come nelle elezioni di Mid Term del 2018 e Biden vincesse a valanga, per Trump diventerebbe difficile non “concedere” la vittoria al’avversario, secondo la tradizione delle presidenziali Usa. The Donald la tradizione politica in questi quattro anni l’ha stravolta a suo piacimento, per cui  è impossibile fare una previsione certa. Certo di fronte a una sconfitta molto netta avrebbe difficoltà  - anche all’interno del suo partito - a iniziare una lunga disputa legale. 
Che invece è probabile se il risultato  a favore di Biden fosse meno evidente. Ne è quasi certo Gerald Pomper, professore emerito di Scienze Politiche alla Rutgers University (New Jersey), secondo il quale occorre già ora concentrarsi su quello che accadrà «dopo il 3 novembre». Pomper è uno dei maggiori esperti di politica americana (ha scritto 21 libri sull’argomento), nei suoi 85 anni di vita ha potuto osservare ben 14 presidenti (da Franklin Delano Roosevelt a Trump) e oggi è convinto che Joe Biden «vincerà il voto popolare con un margine significativo e avrà una maggioranza decisiva anche nel Collegio Elettorale». Tutto facile allora? No, perché quel voto, dice Pomper, deve «essere contato e certificato» e «le votazioni per corrispondenza complicheranno e allungheranno il processo di voto». Questo «perché il voto di persona è semplice, la verifica richiede una firma veloce, basta premere pochi pulsanti e il conteggio viene automaticamente registrato e contato; il voto per posta invece comporta molti più passaggi, ciascuno soggetto a errori umani e meccanici. Nella maggior parte degli Stati ogni scheda deve essere richiesta, inviata, ricevuta, completata, restituita ai funzionari elettorali, contata e infine inclusa nel conteggio». La copertura televisiva, l’analisi computerizzata dei dati, i sondaggi e la comunicazione elettronica istantanea, aggiunge  Pomper, «in passato ci hanno portato ad avere i risultati la notte stessa del voto, ma quest’anno potrebbe non essere così». 

Elaine Kamarck, analista politica della Brookings Institution è convinta che molti voti non verranno contati nella notte delle elezioni e che ci vorranno diversi giorni prima di avere i risultati definitivi, «trasformando l’Election Day in un Election Week, con tutti i pericoli che ciò comporta». 

Richard Hasen, professore alla UC Irvine School of Law (e autore di un recente libro titolato “Election Meltdown”) sostiene che «potremmo benissimo vedere una lunga lotta post-elettorale nei tribunali e forse anche nelle strade. Sarebbe una situazione molto peggiore di quella di Bush contro Gore del 2000». 

  Di fronte a Trump che minaccia azioni legali «fino alla Corte Suprema» e che è pronto ad usare anche la macchina del ministero di Giustizia, la campagna di Biden ha preparato una risposta: una squadra legale ad hoc che da più di un mese sta analizzando ogni possibile scenario. A guidarla sono due astri nascenti della giurisprudenza Usa: Dana Remus, docente di Legge alla University of Carolina, laureata a Harvard, specializzata a Yale, e Bob Bauer, un ex consulente legale della Casa Bianca durante l’amministrazione Obama, che dall’estate si è unito a tempo pieno alla campagna di Biden. Due avvocati di alto livello, noti anche per essere dei grandi combattenti. Saranno loro a guidare un team di una dozzina di persone per assicurare che le elezioni vengano amministrate correttamente e che i voti siano contati altrettanto correttamente. Nel team ci sono anche specialisti della cyber-informazione pronti a svelare e neutralizzare possibili interferenze straniere o di gruppi di disinformazione.

Se scende in campo l’esercito
Il peggiore degli scenari previsti è quello del caos, di manifestazioni violente, scontri di piazza e intervento dell’esercito. Dai più questa viene considerata un’ipotesi altamente improbabile e di fantapolitica. Eppure il capo di Stato Maggiore delle forze armate Usa, generale Mark Milley, ha voluto precisare per iscritto al Congresso che i militari si impegnano a rimanere apolitici e a stare alla larga da qualsiasi ruolo nel processo elettorale: «Nel caso di una disputa su alcuni aspetti delle elezioni, questa è tenuta per legge ad essere risolta dai tribunali statunitensi e dal Congresso degli Stati Uniti. Non prevedo alcun intervento dell’esercito Usa».  
   Che l’esercito non abbia alcun ruolo in un’elezione presidenziale dovrebbe essere scontato, ovvio: il solo fatto che Milley abbia smentito l’ipotesi è inusuale. La Costituzione prevede l’uso dei militari solo per difendere gli Stati Uniti da nemici esterni, l’ordine pubblico è lasciato in massima parte alla polizia statale e a quella locale. C’è però una legge poco conosciuta, l’Insurrection Act, che teoricamente potrebbe spingere i militari ad avere un ruolo simile a quello della polizia. È una norma del 1807, ancora in vigore, che autorizza «l’impiego delle forze terrestri e navali» in caso di insurrezioni. In questo caso - o anche in quello di «ostruzione alle leggi» - il presidente degli Stati Uniti (che è anche il Commander in Chief, capo assoluto delle forze armate) può «impiegare i militari per sopprimere tale insurrezione e far sì che le leggi siano debitamente eseguite». 
  Donald Trump, sempre attento a tutti i larghissimi poteri che ha un presidente degli Stati Uniti, lo scorso giugno ha minacciato di invocare l’Insurrection Act e di usare i militari per sedare i disordini seguiti all’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis. Allora fu il ministro della Difesa Mark Esper ad opporsi all’uso dei soldati, sostenendo che la legge sull’insurrezione dovrebbe essere applicata «solo nelle situazioni più urgenti e terribili e non ci troviamo in una di queste». 

  Un capitolo a parte riguarda i governatori degli Stati, che hanno la possibilità di utilizzare la Guardia Nazionale nel caso lo ritenessero necessario per un’emergenza dello Stato che guidano. I governatori mobilitano con una certa regolarità uomini e donne della Guardia Nazionale quando si tratta di emergenze quali i disastri naturali, ma possono usarli anche per far rispettare la legge - cosa che compete in primis alle forze di polizia - durante eventi come le rivolte. In diversi Stati quest’anno la Guardia Nazionale è stata chiamata per far fronte ai disordini a margine della manifestazioni del movimento Black Lives Matter.

  Nell’ultimo mezzo secolo i presidenti Usa hanno inviato i militari negli Stati del Sud per far rispettare la desegregazione delle scuole negli anni ‘50 e ‘60, a volte senza il consenso dei governatori. Truppe dell’esercito vennero anche inviate nel 1992 a Los Angeles quando l’allora governatore della California chiese l’aiuto federale durante le violenze e i saccheggi seguiti all’uccisione di Rodney King. 

Se si dovesse realizzare una delle ipotesi peggiori, per sapere chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti dovremo aspettare le scadenze fissate dalla Costituzione (nel 1877) e specificate nel 12° e 20° emendamento. Data critica: il 14 dicembre, quando i “grandi elettori” scelti in ogni Stato si riuniranno nelle loro capitali per esprimere i propri voti