L'illusione di affrontare il contagio come un'emergenza ordinaria e di poterne scaricare il peso su medici e cittadini. L'Italia non è più un modello e ora c'è il dovere di dire la verità

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«Nessuno di noi passerà alla storia, il coronavirus sì». Non è stato un politico italiano, e neppure di sinistra, a dire infine la verità definitiva su una classe dirigente europea che pensava di essere uscita indenne, o addirittura vittoriosa, nella guerra contro la pandemia. La frase che suggella il 2020 l’ha pronunciata lo spagnolo Esteban Gonzàles Pons, oscuro politico di centrodestra, vice-presidente del gruppo del Partito popolare europeo nel Parlamento di Bruxelles. «Lo trattiamo come un problema che a breve non avremo più. Come facciamo a essere così irresponsabili?», si è chiesto intervenendo nella seduta plenaria del Parlamento europeo. «Ma noi politici continuiamo a confondere la realtà con i nostri desideri. Per quanto vogliamo che l’incubo finisca, non finirà se non lo tratttiamo come l’emergenza sanitaria, economica e sociale che è».

In quelle stesse ore l’Italia è ripiombata nel dramma. Anticipato, come otto mesi fa, dai dati della Lombardia. Venerdì 21 febbraio 2020: il paziente uno di Codogno, si scoprì in seguito che il coronavirus aveva già seminato vittime nella regione. Mercoledì 21 ottobre: in mattinata i numeri di Milano fanno impallidire i palazzi romani, oltre quattromila contagiati, quasi la metà nel capoluogo, nessuno se lo aspettava, neppure i più pessimisti. Nel pomeriggio i morti in tutta Italia sono 123. La sera si riunisce il Senato, con la informativa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. L’ultimo a intervenire è il senatore della Lega Armando Siri, pluri-indagato. Maggioranza e opposizione si accusano mentre nelle case degli italiani torna la paura. Sipario.

La prima ondata del covid fu all’inizio rassicurazione e sottovalutazione. «Siamo prontissimi, abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili», dettò il 27 gennaio Conte ospite in tv di Lilli Gruber. Un mese dopo fu terrore. Il crescendo esponenziale dei contagi e dei morti nelle province lombarde. L’indecisione sulle decisioni da prendere. La notte più drammatica, tra il 7 e l’8 marzo, con la zona rossa per la Lombardia e quattordici province, anticipata sulle agenzie e sui siti alle otto del sabato sera. Alle due e 17 minuti di notte Conte si affacciò in sala stampa, il volto tirato, da solo. «Le indiscrezioni hanno creato incertezza e confusione». In quel momento in moltissimi erano già da qualche ora in viaggio dal nord verso il sud, a bordo dell’ultimo treno. Quel giorno i morti erano stati 233, due giorni dopo, martedì 10 marzo sarebbero stati 631, mercoledì 11 827, giovedì 12 superarono i mille: 1016. Conte era riapparso in tv per annunciare l’Italia zona protetta, il divieto di spostamento se non per comprovate ragioni di lavoro, la chiusura totale del Paese. L’11 marzo cambiò la scenografia, spuntarono le bandiere tricolori, e anche il linguaggio: «In Europa siamo stati i primi a essere colpiti e siamo quelli che stanno reagendo meglio, siamo un modello». Il premier citò Norbert Elias e soprattutto se stesso: «Ho fatto un patto con la mia coscienza».

Abbiamo dimenticato tutto.

La seconda ondata è diversa dalla prima. Ottobre non è marzo. Ce lo hanno comunicato il premier, i ministri e il commissario all’emergenza Domenico Arcuri. Conte lo ha ripetuto in Parlamento: il paese migliore, il più attento, il più prudente. «Abbiamo distribuito venti milioni di mascherine, siamo uno dei pochi paesi a darne una al giorno a ogni studente, non voglio dire l’unico per somma prudenza...», si è vantato. Intanto, la Lombardia ha dichiarato coprifuoco, seguita da Campania e Lazio. È tornata la notte, profonda, mentre il governo snocciola successi e i populisti Salvini-Meloni lanciano il contrordine alle loro basi sfiatate: la pandemia è finita e il governo ce lo nasconde per restare al potere, anzi no, la pandemia non è mai finita e il governo non ha fatto nulla per arginarla.
Con questa coerenza di azione e di pensiero la politica è ricaduta in un’emergenza che per la maggior parte degli italiani non era mai finita. Lo avevamo scritto durante l’estate, una belle époque già lontana. C’era una grande rimozione. Il virus intanto lavorava, anche se non era più il nemico invisibile di otto mesi fa. Di visibile c’erano le lentezze e le polemiche di chi attendeva la seconda ondata senza preoccuparsi di prevenirla. Nonostante le condizioni istituzionali migliori.
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Ieri il rapporto Stato-regioni era tutto da costruire. Oggi la conferenza dei presidenti con il governo nazionale si è trasformato in un club di inquilini molto rissosi ma che si conoscono bene tra di loro: alcuni sono usciti appena trionfalmente riconfermati dal loro elettorato proprio in virtù della determinazione dimostrata durante la prima ondata (Luca Zaia, Giovanni Toti, Vincenzo De Luca, Michele Emiliano), altri come il presidente della Lombardia, il leghista Attilio Fontana, sono in down politico senza fondo. Il governo può contare su ministri per cui questi mesi sull’emergenza valgono cento scuole di formazione politica: Roberto Speranza, grave in volto, Francesco Boccia, spiccio e fattivo, Lucia Azzolina e Paola De Micheli, ministre in una doppia trincea, esterna e interna. Il premier Conte, infine, ha ormai ha accumulato esperienza, potere, relazioni internazionali.

Le condizioni politiche sono migliori di otto mesi fa. E diversa è la reazione del corpo sociale del Paese alle prime avvisaglie di chiusura. Il primo lockdown fu un precipizio per imprenditori, lavoratori, commercianti, un pozzo senza fondo per le entrate, i fatturati, i posti di lavoro, con l’eccezione della grande distribuzione e della farmaceutica, ma fu accettato in nome di un pericolo ignoto. Nelle ultime settimane, invece, il solo accenno all’ipotesi di una nuova chiusura generalizzata ha scatenato rabbia e proteste, subito respinte le misure chirurgiche, come lo stop dei grandi centri commerciali nel fine settimana.

Tutto questo poteva assicurare una gestione meno improvvisata della nuova crisi. Invece sono state sottovalutate le proiezioni sulla contagiosità del virus che indicavano l’Italia come un paese di nuovo a rischio. L’allarme sul servizio sanitario già sotto stress. Le lunghe file ai drive in per i tamponi che non ci sono: il professor Andrea Crisanti aveva preparato in estate un piano che ne prevedeva 400mila al giorno, siamo a poco più di 140mila. I medici e gli infermieri che mancano, nonostante il piano di assunzioni: De Luca in Campania ha chiesto 600 medici e 800 infermieri in più, sono arrivati 50 e 100. I posti letto in terapia intensiva sono saliti da cinquemila a 6500, ma l’obiettivo era portarli a quasi novemila. Sono i numeri che parlano di un’impreparazione di fronte non più a un evento imprevedibile, ma ampiamente previsto, anzi atteso.

Surfare l’onda, la seconda ondata del virus, dando l’impressione di governarla. Carezzare il paese per il verso del pelo: in primavera nella sua paura di ammalarsi, in autunno nell’inquietudine che nasce dalla prospettiva di un nuovo lockdown. Questo, evidentemente, era l’obiettivo di una politica che passa le repubbliche, attraversa governi di destra, di sinistra e di multiformi colori ma che continua ad avere un cattivo rapporto con la verità. Conte ha forse potuto immaginare, con una certa dose di cinismo, che il suo no al Mes non solo non avrebbe provocato nessuna crisi di governo perché nella maggioranza nessuno avrebbe avuto il coraggio di aprirla, ma che nell’Europa attraversata dal contagio restando fermi si sarebbe potuto ottenere molto di più, ottenere parecchio, come il Giolitti di un secolo fa, alla vigilia della prima guerra mondiale. E ora la seconda ondata, in effetti, unisce tutti i leader europei, da Angela Merkel a Emmanuel Macron, da Pedro Sanchez a Ursula von der Leyen. Nella reazione preoccupata e anche nell’impotenza.

Meglio abbandonare subito questo déja vu di maschere, tic comunicativi, ostentata fiducia in se stessi e dire la verità. Non si esce dal buio trattando il virus come un’emergenza ordinaria, con la pretesa di scaricare la diffusione del contagio sui cittadini stremati e sconvolti nelle loro vite quotidiane. Non si può puntare il dito sul bisogno di relazioni sociali e ricreative, le feste dei parenti, o scaricare di nuovo il dovere di lottare sulle prime linee, i medici, gli infermieri, gli insegnanti, i sindaci (basta ringraziare gli eroi!) e dimenticare gli immobilismi, i veti contrapposti, l’insostenibile leggerezza di chi doveva organizzare l’argine pubblico di fronte all’onda.

L’Incubo è di nuovo aggressivo, fa paura. Costringe a rimettersi all’altezza del dramma che sarà lungo. Obbliga a smettere di accusare, soltanto, la responsabilità privata e a ripristinare, subito, la responsabilità civile, pubblica, di una classe dirigente. Di chi diceva che sarebbe cambiato tutto. E che non ha cambiato nulla.