Due paesi a confronto su connessione industriale, compenetrazione tra pubblico e privato e fragilità

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La Francia, gravitando col suo immenso peso sopra di noi, ci costringeva a gemere in un silenzio impotente fra le catene (…). Quella nazione sleale, che ha perduto ormai ogni diritto alla stima d’Europa, potrebbe mai tornare ad esercitare il suo tirannico imperio sopra il più bel paese della terra? No, francesi. Noi meritiamo altri destini. Una nazione sì nobile non avrà più l’onta d’esservi suddita». È difficile che le parole dell’adolescente Giacomo Leopardi, scritte nel 1815, vengano lette durante le attuali occasioni di dialogo italo-francese, come quelle che impegnano il presidente Sergio Mattarella e il presidente Emmanuel Macron, i quali hanno ritessuto il filo di un dialogo complicato. Più che per il giovane Leopardi, Macron ha una particolare attenzione per la letteratura partenopea, perché ha conosciuto sua moglie recitando “L’Arte della Commedia” di Eduardo De Filippo.

Una delle caratteristiche italiane dell’ultimo decennio è l’emergere di una “questione francese”, in cui si intrecciano vicende internazionali e di politica industriale, aumentando la diffidenza reciproca, senza trovare uno sbocco preciso.

Sul fronte geopolitico, spiccano le differenze sul Mediterraneo, in un’area divenuta periferica per gli Stati Uniti, ma in cui vi sono i nostri interessi vitali e la storica presenza e profondità francese. D’altra parte, politica estera ed energia hanno sempre animato i nostri contrasti: dal sostegno di Enrico Mattei all’indipendenza algerina fino alla mano dei servizi francesi dietro l’operazione Eni-Elf (il passaggio più succoso del libro di Franco Bernabè), senza dimenticare il muro di Chirac verso le ambizioni di Enel su Suez nel 2006. Per giungere, un anno fa, alla risposta in un’intervista del Ceo di Eni Claudio Descalzi: «Non so se Total o altre compagnie sono interessate all’Eni. Di sicuro, senza il via libera del governo italiano, nessuno potrà toccarci».

Eppure, se osserviamo il recente passato senza furore leopardiano, possiamo ammettere che la guerra libica ha segnato il nostro contrasto e, nel contempo, un comune ridimensionamento. Col rischio concreto di essere entrambi spettatori e vittime delle guerre per procura degli altri, mentre le nostre aziende energetiche affrontano una profonda e complicata transizione tecnologica, sullo sfondo delle ambizioni imperiali della Turchia.

Una delle vicende meno indagate del crollo della “Prima Repubblica” e dell’avvio della stagione delle privatizzazioni è la prospettiva di un accordo forte tra Italia e Francia. Il compianto Marcello De Cecco amava ricordare che nel 1993 propose su Le Monde una stretta alleanza industriale e finanziaria. Nel 2011 rievocò con rimpianto quella proposta: «Pensate che cosa sarebbe l’unione franco-italiana, specialmente in quel momento in cui avevamo ancora un po’ di partecipazioni statali, grandi imprese, adesso non ci sta più niente».

Oggi l’interconnessione industriale tra Francia e Italia non si gioca, come la nostra relazione con la Germania, soprattutto sui legami tra grandi imprese e fornitori, in particolare nell’automobile. La delicatezza delle relazioni italofrancesi sta in operazioni industriali di alto profilo che hanno visto di frequente l’Italia come preda. Spesso senza uno sbocco definito, come è avvenuto nelle telecomunicazioni, dove all’abuso dell’immagine della costruzione (improbabile) di una “Netflix europea” si è sostituito uno stallo, sui fronti intrecciati di Telecom e di Mediaset. E in altri accordi, come Fca-Renault (abortito) e Fca-Psa (realizzato), dall’altra parte c’è sempre lo Stato francese nell’azionariato.

Forse il momento più rilevante di diffidenza italofrancese risale alla primavera 2017, quando Macron, poco dopo la sua elezione, ha rivisto d’imperio gli accordi per l’acquisizione da parte di Fincantieri della società di cantieristica Stx France. Un fastidio verso l’eccezione italiana, che per una volta è predatore e non preda. La nascita della joint venture italofrancese tra Fincantieri e Naval Group, Naviris, è poi avvenuta nel 2019, e la società ha iniziato le sue attività. Ma la capacità di diventare veramente una “Airbus dei mari” dipenderà anche dalla fiducia tra italiani e francesi.

Nel “ritorno della storia” che vive l’Europa, il peso della potenza francese si sente, rispetto agli altri Paesi che hanno dimenticato a loro spese l’incidenza delle questioni militari nel mondo in cui viviamo. Ma la Francia, nonostante l’importanza delle sue aziende della difesa e della sicurezza, nonostante gli investimenti in servizi tecnologici (testimoniati da un’azienda come Atos, già guidata dall’attuale commissario europeo Breton), non ha la dimensione per gestire da sola né le partite mediterranee né le sfide industriali. Per Parigi è cruciale l’intesa con Germania e Italia, soprattutto nelle grandi direttrici dell’autonomia tecnologica, i corpi della competizione globale, a partire da semiconduttori e batterie. E nelle crescenti sfide geopolitiche ed economiche che riguardano la dimensione spaziale.

Per l’Italia esistono, ancora oggi, alcune lezioni francesi da considerare. A partire dalla crescita dimensionale delle imprese, fuori da ogni caricatura del “piccolo è bello”: è grazie a un legame intelligente con la finanza che è possibile far crescere le imprese e dare ad esse una taglia capace di incidere nella competizione internazionale. La strada perseguita dalla Francia, non solo nel lusso ma anche nei servizi tecnologici, è un esempio negli strumenti e nell’organizzazione per far crescere le nostre Pmi. In modo diverso, la Francia ha molto da apprendere sulle capacità italiane in maniera di imprenditorialità.

La Francia rimane una nazione incentrata sul “sistema”, sulla compenetrazione tra pubblico e privato. Al di là di sporadiche ipocrisie. Ne è una testimonianza il progetto di abolizione dell’Ena, lanciato dall’enarca Emmanuel Macron con l’enarca Édouard Philippe, e poi riadattato in un progetto di raccomandazioni per scatenare “rivoluzioni culturali” e per assicurare “diversificazione sociale e geografica”. La Francia non abbandonerà mai la sua nobiltà di Stato. Non arriveranno mai i gilet gialli al potere. Sarebbe al massimo una futura presidente Le Pen a istituzionalizzarsi e a rispondere al “sistema”. Eppure, questa solidità nasconde una fragilità. Sociale, se consideriamo i profondi divari territoriali francesi, seppure collocati all’interno di prospettive demografiche migliori di Italia e Germania. Vulnerabilità economiche, dove si uniscono le fragilità strutturali e l’incertezza portata dal coronavirus, soprattutto in questa nuova ondata. Alcune previsioni sulla caduta del Pil 2020, tra cui le più recenti di S&P Global, vedono la Francia in una posizione più debole dell’Italia.

Next Generation Eu irrompe in questa situazione, all’interno di un assetto europeo in cui francesi e italiani contano di più rispetto al passato, grazie all’uscita della Gran Bretagna e al riposizionamento della Germania verso il necessario sostegno agli investimenti. Per questo può costituire un nuovo inizio per i rapporti, industriali e culturali, tra l’Italia e la Francia. Sulla base della franchezza reciproca e di interessi e fragilità comuni. Al contrario di quanto scriveva Chateaubriand citato dal giovane Leopardi, la Francia e l’Italia non possono rinunciare per sempre l’una all’altra.

*Autore del libro “ Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”, pubblicato da La nave di Teseo